True
2024-12-30
Americani nel pallone
Ansa
«Noi non siamo americani. Noi non siamo americani». Con questo coro, dopo lo scialbo 0-0 di San Siro dello scorso 15 dicembre contro il Genoa, i tifosi del Milan hanno urlato in faccia alla società tutta la propria delusione e frustrazione per una gestione sempre più fredda e distaccata. L’occasione avrebbe dovuto essere una festa per celebrare i 125 anni di una storia gloriosa e invece si è presto trasformata in una gelida serata sfociata in una contestazione contro la proprietà a stelle e strisce che fa capo a RedBird e Gerry Cardinale, che alla festa di compleanno del club nemmeno si è presentato.
Quello del Milan, però, è solo il caso più eclatante. Da diversi anni a questa parte il tema è sempre più ricorrente: il modello di business americano legato allo sport è replicabile in Europa e, ancor di più in Italia, dove certe tradizioni, usi e costumi resistono da oltre un secolo? La risposta la si può trovare nei fatti e di esempi di gestione fallimentare o comunque non del tutto positiva di club rilevati da imprenditori o fondi americani il nostro calcio ne ha già collezionati diversi. E dire che gli investimenti non sono stati pochi, anzi, tutt’altro. Secondo un’analisi pubblicata lo scorso maggio da Calcio e Finanza, che ha incluso nello studio anche il Bologna del patron canadese Joey Saputo, le attuali proprietà nordamericane nel nostro Paese hanno speso 3,7 miliardi di euro tra costo di acquisto e risorse versate nelle casse per la gestione dei club. Considerando che giusto pochi giorni fa al Genoa l’assemblea dei soci ha sancito l’estromissione dal cda del gruppo 777 Partners e l’Hellas Verona è passato dalle mani di Maurizio Setti a quelle del fondo americano Presidio Investors, in Italia a oggi si contano ben 13 società professionistiche controllate da proprietà statunitensi. In serie A quindi, oltre al Milan, troviamo la Roma con Dan Friedkin, la Fiorentina con Rocco Commisso, il Parma con Kyle Krause, il Venezia con Duncan Niederauer, l’Inter e l’Atalanta, controllate rispettivamente dalla società d’investimento Oaktree Capital Management e da una cordata di cui fanno parte il fondo di investimento Bain Capital LP e il gruppo di private equity Arctos Partners LP. In serie B sono a stelle e strisce il Pisa di Alexander Knaster, lo Spezia di Robert Platek e il Cesena del gruppo JRL Investments di John Aiello e Robert Lewis. In serie C la Spal di Joe Tacopina e la Triestina salvata dal fallimento nel 2023 dal fondo Lbk Capital di Ben Rosenzweig. Escluse Inter e Atalanta, non a caso le uniche due di queste squadre ad aver mantenuto in qualche modo una gestione societaria italiana, la Dea con la famiglia Percassi e l’Inter con la nomina a presidente di Beppe Marotta, il resto finora ha fallito, incontrato diverse difficoltà o quantomeno deluso le aspettative dei tifosi. Tradotto: lo zio Sam è bravo a mettere i soldi, ma i soldi da soli non sono garanzia di successo se dietro manca una società presente che sa come e quando farsi sentire e soprattutto se non si hanno dirigenti con le competenze e le conoscenze necessarie a muoversi in una realtà complessa come quella del nostro calcio. O peggio, se li avevi e te ne sei voluto liberare, con ogni riferimento per niente casuale a Paolo Maldini, che era riuscito a riportare il Milan dove merita per poi essere accompagnato alla porta.
Ne sa più di qualcosa anche Claudio Ranieri, tornato da poco al capezzale di una Roma mai allo sbando come quest’anno a causa di una gestione societaria scellerata e classifica alla mano immischiata nella lotta per la salvezza. L’allenatore romano subito dopo esser stato ingaggiato ha detto senza troppi giri di parole: «Purtroppo, in Italia il presidente deve farsi vedere. Le proprietà straniere parlano pochissimo. Non è come all’estero dove la figura del presidente quasi non esiste. O meglio, esiste solo per fine mese». Giallorossi che ormai navigano in questa situazione da oltre dieci anni. Era il 2011 quando la società fu rilevata dall’imprenditore nato a Boston ma di origini italiane Thomas DiBenedetto che dopo appena un anno decise di passare la mano al socio James Pallotta per poi arrivare alla cessione nell’estate del 2020 a Dan Friedkin. Tre presidenti, un filo conduttore: tanti soldi spesi, pochissimi risultati raggiunti, enormi difficoltà a connettersi con il tessuto di una città dove il calcio è vissuto come qualcosa che va ben oltre gli affari e un controllo esercitato a distanza, in maniera pressoché passiva, non può e non potrà mai funzionare. Ai tifosi della Roma, così come a quelli degli altri club italiani, non importerà mai del business. Nutrono uno sviscerato bisogno di identificarsi con quella maglia, desiderano che la squadra sia competitiva, che vinca, che arrivi anche di un solo punto sopra ai rivali. Il nostro, dopotutto, continua a essere il Paese del campanilismo e questo gli americani non lo possono capire.
Tutto ciò si riconduce poi alla questione stadio. Quasi tutti gli investitori statunitensi, con fortune più o meno alterne, si sono imbattuti nelle difficoltà burocratiche per la costruzione di uno stadio di proprietà, che nella loro ottica è considerato come il teatro dove poter sviluppare un certo modello di business legato al merchandising e a tutte le attività correlate all’evento sportivo. Quello che tuttavia sottovalutano o forse ignorano è che al tifoso italiano, che lo stadio sia moderno o offra un servizio piuttosto che un altro, interessa fino a un certo punto. La priorità è e sarà sempre avere una squadra che funzioni, che possa regalare emozioni. Un discorso che vale per Roma, quanto per Firenze, dove la gestione di Rocco Commisso risulta comunque tra le meno peggiori di quelle citate finora, con la Fiorentina che dal 2019, anno in cui l’italo americano ha acquistato il club, ha decisamente alzato l’asticella sfiorando un trofeo in almeno tre circostanze, con le due finali perse di Conference league e quella di Coppa Italia.
Poi ci sono Parma e Venezia, entrambe di ritorno in serie A all’inizio di questa stagione. Per quanto riguarda i Ducali, il patron Krause dovrà dimostrarsi in grado di non ripetere gli errori commessi nel 2020/2021, quando si presentò ai propri tifosi con una retrocessione in B. In Laguna Niederauer ha bisogno di dare continuità a un progetto che finora ha visto gli arancioneroverdi fare l’altalena tra massima serie e cadetteria. Ora tocca al Verona: chissà che l’amore tra gli americani e il calcio italiano non sbocci proprio nella città di Romeo e Giulietta.
Vendere gadget conta più delle vittorie. Negli States le partite sono business e show
Finora è quasi sempre accaduto che quando un fondo statunitense ha dimostrato il proprio interesse e poi acquistato un club italiano, dalla serie C alla serie A, i tifosi hanno esultato, desiderosi di vedere la propria squadra puntare a traguardi importanti o tornare ai fasti di un tempo, immaginando chissà quali campioni indossare la propria maglia grazie alle enormi e potenziali disponibilità economiche messe sul piatto dai nuovi proprietari. La realtà, tuttavia, è un’altra. Gli americani investono nel nostro calcio non tanto per vincere trofei, quanto con l’idea di trarre profitto esportando il loro modello di business che da noi è semplicemente inconciliabile. Ma per quale motivo?
C’è una differenza di cultura evidente alla base di questo binomio che proprio stenta a decollare e per rendersene conto è sufficiente aver assistito, anche una sola volta, a un evento live negli States, dove lo sport è considerato principalmente un affare profittevole per chi decide di investirci. Che sia calcio, Nba, Nfl o baseball, l’obiettivo primario è riempire stadi e palazzetti - da qui l’esigenza di avere uno stadio di proprietà manifestata a più riprese dalle proprietà statunitensi - vendere il più alto numero di hot dog, bibite, gadget e magliette, offrire un vero e proprio show che vada oltre la partita. Allo stesso modo anche la gente, quando arriva il «match day», ha come priorità quella di trascorrere due o tre ore sentendosi parte stessa dell’evento e alla fine della giornata, se la squadra avrà vinto o perso, sarà un qualcosa che importa relativamente. In Europa, e ancor di più in Italia dove il risultato è quel che conta di più e la maggior parte dei tifosi paga il biglietto o l’abbonamento se la squadra vale, tutto questo non è replicabile. Ciò non significa che il nostro modello sia migliore o peggiore di quello americano, semplicemente è diverso. E bisogna prenderne atto. Il calcio qui, dove i principali stakeholders continuano per fortuna a essere ancora i tifosi, non può essere trattato come una qualunque altra azienda su cui investire e alla lunga guadagnarci. Una squadra, dallo staff tecnico ai giocatori, per funzionare ha bisogno di sentire la presenza a 360 gradi di una società forte, specialmente quando le cose non girano per il verso giusto.
Come il Milan e la Roma, i casi più evidenti ma non gli unici. E se in piena crisi giallorossa i Friedkin erano concentrati sull’acquisto dell’Everton e non si sono mai fatti vedere dalle parti di Trigoria, dove per altro è vacante da diversi mesi anche la figura di un amministratore delegato, a Milanello hanno fatto molto discutere le dichiarazioni di Gerry Cardinale rilasciate in un documento alla Harvard Business School a settembre, ma rese pubbliche solo la scorsa settimana, in cui il proprietario del Milan ha spiegato la sua strategia di gestione del club: «La maggior parte di coloro che investono in società sportive lo fanno perché sono coinvolti emotivamente. Mettono la vittoria dei campionati al di sopra di tutto il resto e questo spesso li porta a commettere l’errore di pensare che spendere troppo per schierare una squadra di stelle sia linearmente correlato alla vittoria. Ma questa è la cosa peggiore che puoi fare come investitore».
Spostandosi all’estero la musica non cambia. Ne è un esempio lampante il Manchester United. A Old Trafford, da quando Sir Alex Ferguson ha abdicato nel 2013 dopo aver mantenuto le redini dei Red Devils per 27 stagioni, la famiglia Glazer ha collezionato solo fallimenti attraverso una gestione sciagurata, spendendo miliardi di sterline per ingaggiare allenatori e giocatori senza alcun criterio tecnico. Il punto su cui riflettere è che allo United non serviva l’avvento degli americani per migliorare l’aspetto legato al business: il marchio è sempre stato super appetibile all’estero, il merchandising e i ricavi derivanti da ticketing così come il seguito sui social network sono sempre da top al mondo. A mancare sono i trofei. E quelli senza un progetto e qualcuno che lo sappia guidare non arrivano.
Riferimenti classici e riti di sangue. Per noi non è solo uno sport: è mito
Se volete sapere cosa pensino davvero gli americani del calcio, date un’occhiata all’inizio di una puntata dei Simpson del 1997, «La famiglia Cartridge». Nell’episodio, la popolazione di Springfield accorre allo stadio per vedere una partita che deciderà «quale nazione è la più forte della Terra: il Messico o il Portogallo». Il match, tuttavia, si rivela di una noia mortale, almeno fino a che sugli spalti non scoppiano disordini che sfociano nel saccheggio della città intera. C’è veramente tutto: il protagonismo di popoli che agli occhi degli americani appaiono fuori dalla storia, intercambiabili (Italia-Brasile, che decise i Mondiali Usa solo tre anni prima, doveva aver dato ai locali un’impressione simile); la dinamica del gioco incomprensibile e soporifera; un contorno di violenza sociale inspiegabile. Non che di quest’ultima ci sia da andare molto fieri, ovviamente. Lo scontro di civiltà, tuttavia, non poteva essere mostrato con maggiore chiarezza. Il fatto è che il calcio, in Europa, non è mai solo calcio. È, innanzitutto, storia. E storia millenaria.
Ne L’ideologia tripartita degli indoeuropei, Georges Dumézil così spiega il tema dei colori associati alle tre funzioni (sovrana, guerriera e produttiva): «Un sistema completo a tre termini del simbolismo colorato s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è quello dei colori delle fazioni del circo che assunsero grande importanza sotto l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono sicuramente anteriori all’impero e che gli studiosi di antichità romani collegarono del resto alle origini stesse di Romolo». Colori sacrali che affondano nella notte dei tempi e che finiscono sui vessilli del circo: suona familiare. Per tutto il Medioevo e oltre, i vari antenati del calcio, brutali e selvaggi, attraversano il continente, creando i primi allarmi sociali. Un editto emesso dal sindaco di Londra nel 1314 recita: «Essendo provato che si fa gran clamore per le strade cittadine a seguito di certi tumulti provocati dall’inseguire dei grossi palloni e che da ciò possono derivarne molti mali ‒ che Iddio non voglia ‒ noi comandiamo e proibiamo, in nome del re e sotto pena del carcere, che tale gioco sia d’ora innanzi praticato in città». Siamo in una fase in cui la distinzione tra giocatori e spettatori non è poi così netta: una palla rotola e attorno è festa e lotta.
Qualche secolo dopo, come ricordano Daniele Marchesini e Stefano Pivato in Tifo. La passione sportiva in Italia (Il Mulino), Goethe nel suo Viaggio in Italia assiste a Verona, nel 1786, a una partita con quattro o cinquemila spettatori. Ben presto le sfide si colorano di connotazioni campanilistiche. Nel Settecento, la sfida per eccellenza era quella tra bolognesi e fiorentini come riportano le cronache del tempo: «il primo giorno che giuocarono […] vi fu un gran concorso di popolo; alla battuta e rimessa avevano fatto li palchi e nel fianco fecero ancora palchi sovra cavalletti e scale una contro l’altra. Le finestre si pagano sino a sei paoli l’una». All’inizio dell’Ottocento sorgono i primi antenati degli stadi: gli sferisteri. Nel XIX secolo sono circa un centinaio in tutta Italia.
Nascono anche i primi regolamenti, per giocatori e spettatori. Viene proibito «qualunque litigio, clamore e sconcezza […] sia ai giocatori che agli spettatori» e al pubblico si raccomanda «di applaudire i giuocatori con Evviva e Battute di mano» mentre vige il divieto «di offendere alcuno di essi con fischi e con gesti ingiurianti». L’arrivo del football vero e proprio dall’Inghilterra è imminente. Il resto è negli annali.
Tutto, quindi, nel calcio italiano trasuda storia: i simboli (la lupa, l’aquila, il biscione), i nomi delle squadre, non di rado fondate da liceali intrisi di cultura classica (Juventus, Atalanta), le denominazioni un po’ retrò con cui i commentatori identificano le compagini cittadine (i felsinei, gli scaligeri, gli alabardati). Su questa connotazione volutamente arcaicizzante, si innestano identità e conflitti prettamente moderni. Ampliando il raggio, pensiamo alle squadre del Meridione che innalzano il vessillo della lotta al «potere del Nord», al conflitto tra il Barcellona autonomista e repubblicano e il Real Madrid centralista e monarchico, tra i Glasgow Rangers unionisti e protestanti e il Celtic cattolico e indipendentista, alle rivalità politiche novecentesche che impregnano le identità di tifoserie come quelle di Lazio, Verona, Livorno, St. Pauli, ai club che hanno finito per identificarsi con minoranze etnoreligiose, come Ajax e Tottenham, le due «squadre del ghetto», o il Paris Saint-Germain che arruola ultras nelle banlieue. Al calcio si appassionano intellettuali di levatura gigantesca: Pier Paolo Pasolini, Jacques Derrida, Martin Heidegger (ma già Giacomo Leopardi aveva dedicato una lirica A un vincitore nel pallone). Gli stessi cronisti dello sport nazionale erano, fino a qualche tempo fa, aulici cantori di epopee nazionali: Gianni Brera, Vladimiro Caminiti, Gianni Mura.
Non che il mondo americano sia sempre privo di tutto ciò: di baseball hanno scritto anche Philip Roth e John Fante, i cranks degli stadi americani di inizio Novecento non erano poi così diversi dagli ultras, così come è storica la rivalità tra Boston Red Sox e New York Yankees oppure tra Dodgers e Giants. Ma sono fenomeni marginali, in cui spesso pesa il retaggio di identità non Wasp (Fante ha ben presenti le sue origini italiane, Boston è praticamente una città irlandese). E comunque parliamo di un mondo in cui può capitare che i già citati Dodgers e Giants si trasferiscano di punto in bianco da New York alla California, con il che qualsiasi rivalità carnale va a farsi benedire. Non è più sport, è spettacolo. Negli stadi non vige più il ricordo degli antichi riti di sangue, ma dominano hot dog e kiss cam. Ne sa qualcosa il cantante sudcoreano Psy, quello di Gnagnam style, che venne improvvidamente fatto esibire prima del derby romano in finale di Coppa Italia, il 26 maggio 2013, in un clima da sostanziale guerra santa. L’artista fu seppellito dai fischi e dagli insulti, dopodiché cancellò il tour e scappò via dall’Italia. Come ha scritto la pagina Calciatori brutti, quello fu «il giorno più brutto della sua vita». Questa è l’Europa, ragazzo.
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Le difficoltà di Roma e Milan, i cui tifosi sono ai ferri corti con le proprietà, mostrano come i nuovi padroni Usa (che ormai controllano 13 club) non abbiano ancora capito il calcio. Il nodo degli stadi e le eccezioni di Inter e Atalanta.Chi oltreoceano segue il basket o il baseball vuole soprattutto divertirsi e godersi lo spettacolo. Il tifo in Europa è molto diverso.Lo speciale contiene due articoli«Noi non siamo americani. Noi non siamo americani». Con questo coro, dopo lo scialbo 0-0 di San Siro dello scorso 15 dicembre contro il Genoa, i tifosi del Milan hanno urlato in faccia alla società tutta la propria delusione e frustrazione per una gestione sempre più fredda e distaccata. L’occasione avrebbe dovuto essere una festa per celebrare i 125 anni di una storia gloriosa e invece si è presto trasformata in una gelida serata sfociata in una contestazione contro la proprietà a stelle e strisce che fa capo a RedBird e Gerry Cardinale, che alla festa di compleanno del club nemmeno si è presentato.Quello del Milan, però, è solo il caso più eclatante. Da diversi anni a questa parte il tema è sempre più ricorrente: il modello di business americano legato allo sport è replicabile in Europa e, ancor di più in Italia, dove certe tradizioni, usi e costumi resistono da oltre un secolo? La risposta la si può trovare nei fatti e di esempi di gestione fallimentare o comunque non del tutto positiva di club rilevati da imprenditori o fondi americani il nostro calcio ne ha già collezionati diversi. E dire che gli investimenti non sono stati pochi, anzi, tutt’altro. Secondo un’analisi pubblicata lo scorso maggio da Calcio e Finanza, che ha incluso nello studio anche il Bologna del patron canadese Joey Saputo, le attuali proprietà nordamericane nel nostro Paese hanno speso 3,7 miliardi di euro tra costo di acquisto e risorse versate nelle casse per la gestione dei club. Considerando che giusto pochi giorni fa al Genoa l’assemblea dei soci ha sancito l’estromissione dal cda del gruppo 777 Partners e l’Hellas Verona è passato dalle mani di Maurizio Setti a quelle del fondo americano Presidio Investors, in Italia a oggi si contano ben 13 società professionistiche controllate da proprietà statunitensi. In serie A quindi, oltre al Milan, troviamo la Roma con Dan Friedkin, la Fiorentina con Rocco Commisso, il Parma con Kyle Krause, il Venezia con Duncan Niederauer, l’Inter e l’Atalanta, controllate rispettivamente dalla società d’investimento Oaktree Capital Management e da una cordata di cui fanno parte il fondo di investimento Bain Capital LP e il gruppo di private equity Arctos Partners LP. In serie B sono a stelle e strisce il Pisa di Alexander Knaster, lo Spezia di Robert Platek e il Cesena del gruppo JRL Investments di John Aiello e Robert Lewis. In serie C la Spal di Joe Tacopina e la Triestina salvata dal fallimento nel 2023 dal fondo Lbk Capital di Ben Rosenzweig. Escluse Inter e Atalanta, non a caso le uniche due di queste squadre ad aver mantenuto in qualche modo una gestione societaria italiana, la Dea con la famiglia Percassi e l’Inter con la nomina a presidente di Beppe Marotta, il resto finora ha fallito, incontrato diverse difficoltà o quantomeno deluso le aspettative dei tifosi. Tradotto: lo zio Sam è bravo a mettere i soldi, ma i soldi da soli non sono garanzia di successo se dietro manca una società presente che sa come e quando farsi sentire e soprattutto se non si hanno dirigenti con le competenze e le conoscenze necessarie a muoversi in una realtà complessa come quella del nostro calcio. O peggio, se li avevi e te ne sei voluto liberare, con ogni riferimento per niente casuale a Paolo Maldini, che era riuscito a riportare il Milan dove merita per poi essere accompagnato alla porta.Ne sa più di qualcosa anche Claudio Ranieri, tornato da poco al capezzale di una Roma mai allo sbando come quest’anno a causa di una gestione societaria scellerata e classifica alla mano immischiata nella lotta per la salvezza. L’allenatore romano subito dopo esser stato ingaggiato ha detto senza troppi giri di parole: «Purtroppo, in Italia il presidente deve farsi vedere. Le proprietà straniere parlano pochissimo. Non è come all’estero dove la figura del presidente quasi non esiste. O meglio, esiste solo per fine mese». Giallorossi che ormai navigano in questa situazione da oltre dieci anni. Era il 2011 quando la società fu rilevata dall’imprenditore nato a Boston ma di origini italiane Thomas DiBenedetto che dopo appena un anno decise di passare la mano al socio James Pallotta per poi arrivare alla cessione nell’estate del 2020 a Dan Friedkin. Tre presidenti, un filo conduttore: tanti soldi spesi, pochissimi risultati raggiunti, enormi difficoltà a connettersi con il tessuto di una città dove il calcio è vissuto come qualcosa che va ben oltre gli affari e un controllo esercitato a distanza, in maniera pressoché passiva, non può e non potrà mai funzionare. Ai tifosi della Roma, così come a quelli degli altri club italiani, non importerà mai del business. Nutrono uno sviscerato bisogno di identificarsi con quella maglia, desiderano che la squadra sia competitiva, che vinca, che arrivi anche di un solo punto sopra ai rivali. Il nostro, dopotutto, continua a essere il Paese del campanilismo e questo gli americani non lo possono capire. Tutto ciò si riconduce poi alla questione stadio. Quasi tutti gli investitori statunitensi, con fortune più o meno alterne, si sono imbattuti nelle difficoltà burocratiche per la costruzione di uno stadio di proprietà, che nella loro ottica è considerato come il teatro dove poter sviluppare un certo modello di business legato al merchandising e a tutte le attività correlate all’evento sportivo. Quello che tuttavia sottovalutano o forse ignorano è che al tifoso italiano, che lo stadio sia moderno o offra un servizio piuttosto che un altro, interessa fino a un certo punto. La priorità è e sarà sempre avere una squadra che funzioni, che possa regalare emozioni. Un discorso che vale per Roma, quanto per Firenze, dove la gestione di Rocco Commisso risulta comunque tra le meno peggiori di quelle citate finora, con la Fiorentina che dal 2019, anno in cui l’italo americano ha acquistato il club, ha decisamente alzato l’asticella sfiorando un trofeo in almeno tre circostanze, con le due finali perse di Conference league e quella di Coppa Italia. Poi ci sono Parma e Venezia, entrambe di ritorno in serie A all’inizio di questa stagione. Per quanto riguarda i Ducali, il patron Krause dovrà dimostrarsi in grado di non ripetere gli errori commessi nel 2020/2021, quando si presentò ai propri tifosi con una retrocessione in B. In Laguna Niederauer ha bisogno di dare continuità a un progetto che finora ha visto gli arancioneroverdi fare l’altalena tra massima serie e cadetteria. 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C’è una differenza di cultura evidente alla base di questo binomio che proprio stenta a decollare e per rendersene conto è sufficiente aver assistito, anche una sola volta, a un evento live negli States, dove lo sport è considerato principalmente un affare profittevole per chi decide di investirci. Che sia calcio, Nba, Nfl o baseball, l’obiettivo primario è riempire stadi e palazzetti - da qui l’esigenza di avere uno stadio di proprietà manifestata a più riprese dalle proprietà statunitensi - vendere il più alto numero di hot dog, bibite, gadget e magliette, offrire un vero e proprio show che vada oltre la partita. Allo stesso modo anche la gente, quando arriva il «match day», ha come priorità quella di trascorrere due o tre ore sentendosi parte stessa dell’evento e alla fine della giornata, se la squadra avrà vinto o perso, sarà un qualcosa che importa relativamente. In Europa, e ancor di più in Italia dove il risultato è quel che conta di più e la maggior parte dei tifosi paga il biglietto o l’abbonamento se la squadra vale, tutto questo non è replicabile. Ciò non significa che il nostro modello sia migliore o peggiore di quello americano, semplicemente è diverso. E bisogna prenderne atto. Il calcio qui, dove i principali stakeholders continuano per fortuna a essere ancora i tifosi, non può essere trattato come una qualunque altra azienda su cui investire e alla lunga guadagnarci. Una squadra, dallo staff tecnico ai giocatori, per funzionare ha bisogno di sentire la presenza a 360 gradi di una società forte, specialmente quando le cose non girano per il verso giusto. Come il Milan e la Roma, i casi più evidenti ma non gli unici. E se in piena crisi giallorossa i Friedkin erano concentrati sull’acquisto dell’Everton e non si sono mai fatti vedere dalle parti di Trigoria, dove per altro è vacante da diversi mesi anche la figura di un amministratore delegato, a Milanello hanno fatto molto discutere le dichiarazioni di Gerry Cardinale rilasciate in un documento alla Harvard Business School a settembre, ma rese pubbliche solo la scorsa settimana, in cui il proprietario del Milan ha spiegato la sua strategia di gestione del club: «La maggior parte di coloro che investono in società sportive lo fanno perché sono coinvolti emotivamente. Mettono la vittoria dei campionati al di sopra di tutto il resto e questo spesso li porta a commettere l’errore di pensare che spendere troppo per schierare una squadra di stelle sia linearmente correlato alla vittoria. Ma questa è la cosa peggiore che puoi fare come investitore». Spostandosi all’estero la musica non cambia. Ne è un esempio lampante il Manchester United. A Old Trafford, da quando Sir Alex Ferguson ha abdicato nel 2013 dopo aver mantenuto le redini dei Red Devils per 27 stagioni, la famiglia Glazer ha collezionato solo fallimenti attraverso una gestione sciagurata, spendendo miliardi di sterline per ingaggiare allenatori e giocatori senza alcun criterio tecnico. Il punto su cui riflettere è che allo United non serviva l’avvento degli americani per migliorare l’aspetto legato al business: il marchio è sempre stato super appetibile all’estero, il merchandising e i ricavi derivanti da ticketing così come il seguito sui social network sono sempre da top al mondo. A mancare sono i trofei. E quelli senza un progetto e qualcuno che lo sappia guidare non arrivano. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/americani-nel-pallone-2670696880.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="riferimenti-classici-e-riti-di-sangue-per-noi-non-e-solo-uno-sport-e-mito" data-post-id="2670696880" data-published-at="1735469104" data-use-pagination="False"> Riferimenti classici e riti di sangue. Per noi non è solo uno sport: è mito Se volete sapere cosa pensino davvero gli americani del calcio, date un’occhiata all’inizio di una puntata dei Simpson del 1997, «La famiglia Cartridge». Nell’episodio, la popolazione di Springfield accorre allo stadio per vedere una partita che deciderà «quale nazione è la più forte della Terra: il Messico o il Portogallo». Il match, tuttavia, si rivela di una noia mortale, almeno fino a che sugli spalti non scoppiano disordini che sfociano nel saccheggio della città intera. C’è veramente tutto: il protagonismo di popoli che agli occhi degli americani appaiono fuori dalla storia, intercambiabili (Italia-Brasile, che decise i Mondiali Usa solo tre anni prima, doveva aver dato ai locali un’impressione simile); la dinamica del gioco incomprensibile e soporifera; un contorno di violenza sociale inspiegabile. Non che di quest’ultima ci sia da andare molto fieri, ovviamente. Lo scontro di civiltà, tuttavia, non poteva essere mostrato con maggiore chiarezza. Il fatto è che il calcio, in Europa, non è mai solo calcio. È, innanzitutto, storia. E storia millenaria. Ne L’ideologia tripartita degli indoeuropei, Georges Dumézil così spiega il tema dei colori associati alle tre funzioni (sovrana, guerriera e produttiva): «Un sistema completo a tre termini del simbolismo colorato s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è quello dei colori delle fazioni del circo che assunsero grande importanza sotto l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono sicuramente anteriori all’impero e che gli studiosi di antichità romani collegarono del resto alle origini stesse di Romolo». Colori sacrali che affondano nella notte dei tempi e che finiscono sui vessilli del circo: suona familiare. Per tutto il Medioevo e oltre, i vari antenati del calcio, brutali e selvaggi, attraversano il continente, creando i primi allarmi sociali. Un editto emesso dal sindaco di Londra nel 1314 recita: «Essendo provato che si fa gran clamore per le strade cittadine a seguito di certi tumulti provocati dall’inseguire dei grossi palloni e che da ciò possono derivarne molti mali ‒ che Iddio non voglia ‒ noi comandiamo e proibiamo, in nome del re e sotto pena del carcere, che tale gioco sia d’ora innanzi praticato in città». Siamo in una fase in cui la distinzione tra giocatori e spettatori non è poi così netta: una palla rotola e attorno è festa e lotta. Qualche secolo dopo, come ricordano Daniele Marchesini e Stefano Pivato in Tifo. La passione sportiva in Italia (Il Mulino), Goethe nel suo Viaggio in Italia assiste a Verona, nel 1786, a una partita con quattro o cinquemila spettatori. Ben presto le sfide si colorano di connotazioni campanilistiche. Nel Settecento, la sfida per eccellenza era quella tra bolognesi e fiorentini come riportano le cronache del tempo: «il primo giorno che giuocarono […] vi fu un gran concorso di popolo; alla battuta e rimessa avevano fatto li palchi e nel fianco fecero ancora palchi sovra cavalletti e scale una contro l’altra. Le finestre si pagano sino a sei paoli l’una». All’inizio dell’Ottocento sorgono i primi antenati degli stadi: gli sferisteri. Nel XIX secolo sono circa un centinaio in tutta Italia. Nascono anche i primi regolamenti, per giocatori e spettatori. Viene proibito «qualunque litigio, clamore e sconcezza […] sia ai giocatori che agli spettatori» e al pubblico si raccomanda «di applaudire i giuocatori con Evviva e Battute di mano» mentre vige il divieto «di offendere alcuno di essi con fischi e con gesti ingiurianti». L’arrivo del football vero e proprio dall’Inghilterra è imminente. Il resto è negli annali. Tutto, quindi, nel calcio italiano trasuda storia: i simboli (la lupa, l’aquila, il biscione), i nomi delle squadre, non di rado fondate da liceali intrisi di cultura classica (Juventus, Atalanta), le denominazioni un po’ retrò con cui i commentatori identificano le compagini cittadine (i felsinei, gli scaligeri, gli alabardati). Su questa connotazione volutamente arcaicizzante, si innestano identità e conflitti prettamente moderni. Ampliando il raggio, pensiamo alle squadre del Meridione che innalzano il vessillo della lotta al «potere del Nord», al conflitto tra il Barcellona autonomista e repubblicano e il Real Madrid centralista e monarchico, tra i Glasgow Rangers unionisti e protestanti e il Celtic cattolico e indipendentista, alle rivalità politiche novecentesche che impregnano le identità di tifoserie come quelle di Lazio, Verona, Livorno, St. Pauli, ai club che hanno finito per identificarsi con minoranze etnoreligiose, come Ajax e Tottenham, le due «squadre del ghetto», o il Paris Saint-Germain che arruola ultras nelle banlieue. Al calcio si appassionano intellettuali di levatura gigantesca: Pier Paolo Pasolini, Jacques Derrida, Martin Heidegger (ma già Giacomo Leopardi aveva dedicato una lirica A un vincitore nel pallone). Gli stessi cronisti dello sport nazionale erano, fino a qualche tempo fa, aulici cantori di epopee nazionali: Gianni Brera, Vladimiro Caminiti, Gianni Mura. Non che il mondo americano sia sempre privo di tutto ciò: di baseball hanno scritto anche Philip Roth e John Fante, i cranks degli stadi americani di inizio Novecento non erano poi così diversi dagli ultras, così come è storica la rivalità tra Boston Red Sox e New York Yankees oppure tra Dodgers e Giants. Ma sono fenomeni marginali, in cui spesso pesa il retaggio di identità non Wasp (Fante ha ben presenti le sue origini italiane, Boston è praticamente una città irlandese). E comunque parliamo di un mondo in cui può capitare che i già citati Dodgers e Giants si trasferiscano di punto in bianco da New York alla California, con il che qualsiasi rivalità carnale va a farsi benedire. Non è più sport, è spettacolo. Negli stadi non vige più il ricordo degli antichi riti di sangue, ma dominano hot dog e kiss cam. Ne sa qualcosa il cantante sudcoreano Psy, quello di Gnagnam style, che venne improvvidamente fatto esibire prima del derby romano in finale di Coppa Italia, il 26 maggio 2013, in un clima da sostanziale guerra santa. L’artista fu seppellito dai fischi e dagli insulti, dopodiché cancellò il tour e scappò via dall’Italia. Come ha scritto la pagina Calciatori brutti, quello fu «il giorno più brutto della sua vita». Questa è l’Europa, ragazzo.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 18 dicembre con Flaminia Camilletti
Giorgia Meloni (Ansa)
Ne è scaturita una dichiarazione finale dei leader europei che riprende tutte le priorità che l’Italia ha sostenuto in questi mesi difficili, e che ho ribadito anche martedì scorso accogliendo a Roma il presidente Zelensky. Il cammino verso la pace, dal nostro punto di vista», aggiunge la Meloni, «non può prescindere da quattro fattori fondamentali: lo stretto legame tra Europa e Stati Uniti, che non sono competitor in questa vicenda, atteso che condividono lo stesso obiettivo, ma hanno sicuramente angoli di visuale non sovrapponibili, dati soprattutto dalla loro differente posizione geografica. Il rafforzamento della posizione negoziale ucraina, che si ottiene soprattutto mantenendo chiaro che non intendiamo abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Quanto agli altri due fattori, la Meloni non si esime dall’avvertire dei rischi che correrebbe l’Europa se Vladimir Putin fosse lasciato libero di ottenere tutto quello che vuole: «La tutela degli interessi dell’Europa», incalza la Meloni, «che per il sostegno garantito dall’inizio del conflitto, e per i rischi che correrebbe se la Russia ne uscisse rafforzata, non possono essere ignorati e il mantenimento della pressione sulla Russia, ovvero la nostra capacità di costruire deterrenza, di rendere cioè la guerra non vantaggiosa per Mosca. Come sta, nei fatti, accadendo. Oltre la cortina fumogena della propaganda russa», argomenta il premier, «la realtà sul campo è che Mosca si è impantanata in una durissima guerra di posizione, tanto che, dalla fine del 2022 ad oggi, è riuscita a conquistare appena l’1,45% del territorio ucraino, peraltro a costo di enormi sacrifici in termini di uomini e mezzi. È questa difficoltà l’unica cosa che può costringere Mosca a un accordo, ed è una difficoltà che, lo voglio ricordare, è stata garantita dal coraggio degli ucraini e dal sostegno occidentale alla nazione aggredita». La Meloni entra nel merito di quanto sta accadendo in queste ore: «Il processo negoziale», spiega ancora, «è in una fase in cui si sta consolidando un pacchetto che si sviluppa su tre binari paralleli: un piano di pace, un impegno internazionale per garantire all’Ucraina solide e credibili garanzie di sicurezza, e intese sulla futura ricostruzione della nazione aggredita. È chiaramente una trattativa estremamente complessa, che per arrivare a compimento non può, però, prescindere dalla volontà della Russia di contribuire al percorso negoziale in maniera equa, credibile e costruttiva. Purtroppo, ad oggi, tutto sembra raccontare che questa volontà non sia ancora maturata. Lo dimostrano i continui bombardamenti su città e infrastrutture ucraini, nonché sulla popolazione inerme, e lo confermano le pretese irragionevoli che Mosca sta veicolando ai suoi interlocutori. La principale delle quali riguarda la porzione di Donbass non conquistata dai russi. A differenza di quanto narrato dalla propaganda», insiste ancora la Meloni, «il principale ostacolo a un accordo di pace è l’incapacità della Russia di conquistare le quattro regioni ucraine che ha unilateralmente dichiarato come annesse già alla fine del 2022, addirittura inserendole nella costituzione russa come parte integrante del proprio territorio. Da qui la richiesta russa che l’Ucraina si ritiri quantomeno dall’intero Donbass. È chiaramente questo, oggi, lo scoglio più difficile da superare nella trattativa, e penso che tutti dovremmo riconoscere la buona fede del presidente ucraino, che è arrivato a proporre un referendum per dirimere questa controversia, proposta, però, respinta dalla Russia. In ogni caso, sul tema dei territori, ogni decisione dovrà essere presa tra le parti e nessuno può imporre da fuori la sua volontà». Si arriva agli asset russi: «L’Italia», sottolinea la Meloni con estrema chiarezza, «ha deciso venerdì scorso di non far mancare il proprio appoggio al regolamento che ha fissato l’immobilizzazione dei beni russi senza, tuttavia ancora avallare, ancora, alcuna decisione sul loro utilizzo. Nell’approvare il regolamento», precisa, «abbiamo voluto ribadire un principio che consideriamo fondamentale: decisioni di tale portata giuridica, finanziaria e istituzionale, come anche quella dell’eventuale utilizzo degli asset congelati, non possono che essere prese al livello dei leader. Intendiamo chiedere chiarezza rispetto ai possibili rischi connessi alla proposta di utilizzo della liquidità generata dall’immobilizzazione degli asset, particolarmente quelli reputazionali, di ritorsione o legati a nuovi, pesanti, fardelli per i bilanci nazionali». L’ipotesi di una forza multinazionale resta in discussione «con partecipazione volontaria di ciascun Paese», sostiene ancora la Meloni, ma «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina». Nelle repliche la Meloni ha gioco facile a rispondere alle critiche delle opposizioni, divise ancora una volta. A chi le chiede di scegliere tra Europa e Stati Uniti, la Meloni risponde di «stare con l’Italia» e rivolgendosi al Pd ricorda che se l’Europa rischia l’irrilevanza è per le politiche portate avanti negli ultimi anni dalla sinistra.
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Le macchine che incroci per le strade della capitale portano sulle fiancate dei grandi fiocchi gialli per non dimenticare le 251 persone rapite da Hamas. Il 7 ottobre del 2023 è stato uno spartiacque. È il nuovo prima e dopo Cristo per Israele. E pure per la Palestina.
Gerusalemme arranca. I turisti sono pochi nonostante si stia avvicinando il Natale. I controlli moltiplicati. Lungo la via dolorosa, quella che Cristo fece portando la croce, i militari israeliani scrutano con attenzione chiunque gli si pari davanti. Del resto, non lontano da qui, sono stati ammazzati Adiel Kolman e Aharon Bennett. Basta un coltello per togliere la vita.
Dal 1948, arabi e israeliani hanno sempre faticato a convivere. Ogni parte voleva prevalere sull’altra. «Facci caso» - ci racconta Omar, un ortodosso - «non vedrai mai un ebreo e un mussulmano insieme. Se mai dovessi vederli è perché accanto a loro c’è anche un cristiano». E pare proprio così, soprattutto a Betlemme, che torna a festeggiare il Natale dopo due anni di buio. Ne ha parecchio bisogno la città del pane. La disoccupazione, ci racconta una ragazza, è ormai arrivata all’82%. Un dramma nel dramma. L’acqua è contingentata, come dimostrano le grandi cisterne installate sopra le case. Bisogna raccoglierne il più possibile perché non è detto che domani, o dopo, ci sarà.
Alla polizia turistica non sembra vero di vedere degli stranieri. «Prego, prego», si affrettano a dire, indicando la catena che ci separa dalla chiesa della Natività che, insieme a quella del Santo sepolcro, racchiude la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù. Ci invita a scavalcarla. Le regole vanno infrante. Ci sono dei turisti e devono essere trattati bene. Meglio ancora quando viene a sapere che siamo giornalisti: «Dite che Betlemme continua a vivere», si raccomanda. Poco più in là, un gigantesco albero di Natale illumina la piazza. Sotto di lui un presepio dai colori sgargianti. È semplice ma c’è tutto: Gesù, che è già arrivato, Maria, Giuseppe, e pure i re Magi, che a quanto pare non possono permettersi il lusso di essere fermati da un’altra guerra. Meglio portarsi avanti ed essere lì ad adorare il Bambinello.
È ormai sera inoltrata. Arrivare a Betlemme non è stato semplice. Il checkpoint principale, quello che permette alle macchine dirette in Cisgiordania di defluire più facilmente, era chiuso. Bisogna fare un giro più largo, quindi. Sono già passate le 9 di sera, eppure la piazza è piena. Ci sono famiglie, bambini che giocano a pallone. Un ragazzo ci ferma e ci spiega come per lui il Natale sia innanzitutto dolcezza. Un altro, invece, ci spiega che è musulmano ma che anche per lui questa festa rappresenta innanzitutto dolcezza e che la celebrerà. In piazza c’è perfino un Babbo Natale che cerca di vendere cappellini e palloncini per bambini. È emozionato. Non faceva più questo lavoro da anni. Ed eccolo lì con il suo pancione fuori misura (ma neanche troppo visto che il cibo qui a volte scarseggia) e la voglia di far felici gli altri: «Siete tutti benvenuti a Betlemme, tutto il mondo deve venire qui».
Non è facile però. Come ci spiega un ex diplomatico dell’autorità palestinese che ha trattato a lungo i negoziati con Israele, «il 7 ottobre ha cambiato tutto, da una parte e dall’altra. La soluzione dei due Stati, che già prima era difficile da realizzare, ora è impossibile. Israele si è spostata molto a destra e quello che era il pensiero di pochi è oggi diventato il pensiero di tanti. Allo stesso tempo, però, né Hamas né l’autorità palestinese rappresentano un’alternativa valida per noi». Quale sia l’alternativa, però, non si sa. Si vive sospesi. Come se qualcosa di nuovo e tremendo dovesse accadere ancora. I coloni, a Gerusalemme Est, continuano a occupare le case dei palestinesi. E pure in Cisgiordania. La convivenza pare una chimera. Ma poi ci tornano in mente le parole di Omar: «Se c’è un cristiano, allora è possibile». Come a Betlemme, del resto.
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Che cosa dice la proposta incardinata alla Camera? Innanzitutto che chi vuole amministrare un condominio deve avere una laurea. Non è chiaro se questo preluda all’istituzione di percorsi di studi universitari con specializzazione nella gestione di condomini, sta di fatto che, se si ha un diploma senza essere iscritto a un albo, ordine o collegi di area economica, giuridica o tecnica (cioè se non si è geometra, perito industriale o ragioniere), non si potrà più amministrare un condominio. Fin qui passi, anche se ogni tanto si discute dell’abolizione del valore legale della laurea, si capisce la ratio della norma che si vuole introdurre, per evitare pasticci nella tenuta dei conti. Viene, poi, il rinnovo automatico del professionista incaricato a meno che l’assemblea non decida diversamente, così da evitare pericolosi stalli in cui chi deve occuparsi della gestione non ha un mandato e deve operare solo per l’ordinaria amministrazione.
Però, poi, ci sono un paio di novità che rischiano di trasformarsi in un salasso per moltissime famiglie. La prima riguarda i morosi, cioè quelli che non pagano le spese condominiali. Invece di rendere più spedite le esecuzioni nei loro confronti, la legge concede loro più tempo. Non solo: se un proprietario di casa non paga, per esempio le spese di manutenzione già eseguite o l’erogazione del gas che pro quota gli compete, i fornitori - cioè, manutentori e gestori - potranno rivalersi non soltanto sul condomino moroso, ma anche sul condominio e - soprattutto - sui proprietari che sono in regola con le spese. In pratica, i furbi la faranno franca perché basterà farsi trovare con il conto corrente prosciugato per non sborsare un euro. Gli onesti, invece, rischiano di dover pagare anche per i disonesti. Infatti, se passa il disegno di legge, in caso di mancato pagamento il fornitore potrà attingere direttamente al conto corrente condominiale e, poi, potrà pretendere che sia chi è in regola a saldare i conti. Una follia che sicuramente farà felici i fornitori mentre renderà furiosi i proprietari di casa che sono alle prese con vicini con forti arretrati nel versamento delle spese condominiali.
Non è finita. La proposta di legge include anche un’idea che sicuramente si trasformerà in una spesa in più per i condomini più grandi. Infatti, la legge introdurrebbe l’obbligo di nominare un revisore dei conti nei palazzi con più di venti appartamenti, poi la sicurezza delle parti comuni dovrà essere attestata da una società specializzata e l’amministratore potrà ordinare la messa a norma a prescindere dalle decisioni dell’assemblea. Non vi sfuggirà che sia il revisore sia il certificatore della sicurezza non lavoreranno gratis e, dunque, i condomini dovranno mettere mano al portafogli.
Intendiamoci, capisco le ragioni delle norme che si vogliono introdurre per fare in modo che gli edifici abbiano impianti in regola. E comprendo anche i controlli sul bilancio da parte di un professionista esterno, per evitare che l’amministratore faccia il furbo o scappi con la cassa. Tuttavia, poi, bisogna anche badare ai bilanci delle famiglie, già gravati da un’infinità di gabelle. In particolare, c’è da comprendere che, se un condomino non paga, non vanno penalizzati i vicini in regola: semmai si può disporre il pignoramento veloce dell’immobile posseduto dal furbo, disposizioni già adottate in altri Paesi, come Stati Uniti e Francia, con addirittura la messa in vendita dell’alloggio. Vedrete che i disonesti avranno meno voglia di sottrarsi al pagamento delle spese condominiali. Senza gravare sulle spalle degli onesti.
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