2024-12-30
Americani nel pallone
Le difficoltà di Roma e Milan, i cui tifosi sono ai ferri corti con le proprietà, mostrano come i nuovi padroni Usa (che ormai controllano 13 club) non abbiano ancora capito il calcio. Il nodo degli stadi e le eccezioni di Inter e Atalanta.Chi oltreoceano segue il basket o il baseball vuole soprattutto divertirsi e godersi lo spettacolo. Il tifo in Europa è molto diverso.Lo speciale contiene due articoli«Noi non siamo americani. Noi non siamo americani». Con questo coro, dopo lo scialbo 0-0 di San Siro dello scorso 15 dicembre contro il Genoa, i tifosi del Milan hanno urlato in faccia alla società tutta la propria delusione e frustrazione per una gestione sempre più fredda e distaccata. L’occasione avrebbe dovuto essere una festa per celebrare i 125 anni di una storia gloriosa e invece si è presto trasformata in una gelida serata sfociata in una contestazione contro la proprietà a stelle e strisce che fa capo a RedBird e Gerry Cardinale, che alla festa di compleanno del club nemmeno si è presentato.Quello del Milan, però, è solo il caso più eclatante. Da diversi anni a questa parte il tema è sempre più ricorrente: il modello di business americano legato allo sport è replicabile in Europa e, ancor di più in Italia, dove certe tradizioni, usi e costumi resistono da oltre un secolo? La risposta la si può trovare nei fatti e di esempi di gestione fallimentare o comunque non del tutto positiva di club rilevati da imprenditori o fondi americani il nostro calcio ne ha già collezionati diversi. E dire che gli investimenti non sono stati pochi, anzi, tutt’altro. Secondo un’analisi pubblicata lo scorso maggio da Calcio e Finanza, che ha incluso nello studio anche il Bologna del patron canadese Joey Saputo, le attuali proprietà nordamericane nel nostro Paese hanno speso 3,7 miliardi di euro tra costo di acquisto e risorse versate nelle casse per la gestione dei club. Considerando che giusto pochi giorni fa al Genoa l’assemblea dei soci ha sancito l’estromissione dal cda del gruppo 777 Partners e l’Hellas Verona è passato dalle mani di Maurizio Setti a quelle del fondo americano Presidio Investors, in Italia a oggi si contano ben 13 società professionistiche controllate da proprietà statunitensi. In serie A quindi, oltre al Milan, troviamo la Roma con Dan Friedkin, la Fiorentina con Rocco Commisso, il Parma con Kyle Krause, il Venezia con Duncan Niederauer, l’Inter e l’Atalanta, controllate rispettivamente dalla società d’investimento Oaktree Capital Management e da una cordata di cui fanno parte il fondo di investimento Bain Capital LP e il gruppo di private equity Arctos Partners LP. In serie B sono a stelle e strisce il Pisa di Alexander Knaster, lo Spezia di Robert Platek e il Cesena del gruppo JRL Investments di John Aiello e Robert Lewis. In serie C la Spal di Joe Tacopina e la Triestina salvata dal fallimento nel 2023 dal fondo Lbk Capital di Ben Rosenzweig. Escluse Inter e Atalanta, non a caso le uniche due di queste squadre ad aver mantenuto in qualche modo una gestione societaria italiana, la Dea con la famiglia Percassi e l’Inter con la nomina a presidente di Beppe Marotta, il resto finora ha fallito, incontrato diverse difficoltà o quantomeno deluso le aspettative dei tifosi. Tradotto: lo zio Sam è bravo a mettere i soldi, ma i soldi da soli non sono garanzia di successo se dietro manca una società presente che sa come e quando farsi sentire e soprattutto se non si hanno dirigenti con le competenze e le conoscenze necessarie a muoversi in una realtà complessa come quella del nostro calcio. O peggio, se li avevi e te ne sei voluto liberare, con ogni riferimento per niente casuale a Paolo Maldini, che era riuscito a riportare il Milan dove merita per poi essere accompagnato alla porta.Ne sa più di qualcosa anche Claudio Ranieri, tornato da poco al capezzale di una Roma mai allo sbando come quest’anno a causa di una gestione societaria scellerata e classifica alla mano immischiata nella lotta per la salvezza. L’allenatore romano subito dopo esser stato ingaggiato ha detto senza troppi giri di parole: «Purtroppo, in Italia il presidente deve farsi vedere. Le proprietà straniere parlano pochissimo. Non è come all’estero dove la figura del presidente quasi non esiste. O meglio, esiste solo per fine mese». Giallorossi che ormai navigano in questa situazione da oltre dieci anni. Era il 2011 quando la società fu rilevata dall’imprenditore nato a Boston ma di origini italiane Thomas DiBenedetto che dopo appena un anno decise di passare la mano al socio James Pallotta per poi arrivare alla cessione nell’estate del 2020 a Dan Friedkin. Tre presidenti, un filo conduttore: tanti soldi spesi, pochissimi risultati raggiunti, enormi difficoltà a connettersi con il tessuto di una città dove il calcio è vissuto come qualcosa che va ben oltre gli affari e un controllo esercitato a distanza, in maniera pressoché passiva, non può e non potrà mai funzionare. Ai tifosi della Roma, così come a quelli degli altri club italiani, non importerà mai del business. Nutrono uno sviscerato bisogno di identificarsi con quella maglia, desiderano che la squadra sia competitiva, che vinca, che arrivi anche di un solo punto sopra ai rivali. Il nostro, dopotutto, continua a essere il Paese del campanilismo e questo gli americani non lo possono capire. Tutto ciò si riconduce poi alla questione stadio. Quasi tutti gli investitori statunitensi, con fortune più o meno alterne, si sono imbattuti nelle difficoltà burocratiche per la costruzione di uno stadio di proprietà, che nella loro ottica è considerato come il teatro dove poter sviluppare un certo modello di business legato al merchandising e a tutte le attività correlate all’evento sportivo. Quello che tuttavia sottovalutano o forse ignorano è che al tifoso italiano, che lo stadio sia moderno o offra un servizio piuttosto che un altro, interessa fino a un certo punto. La priorità è e sarà sempre avere una squadra che funzioni, che possa regalare emozioni. Un discorso che vale per Roma, quanto per Firenze, dove la gestione di Rocco Commisso risulta comunque tra le meno peggiori di quelle citate finora, con la Fiorentina che dal 2019, anno in cui l’italo americano ha acquistato il club, ha decisamente alzato l’asticella sfiorando un trofeo in almeno tre circostanze, con le due finali perse di Conference league e quella di Coppa Italia. Poi ci sono Parma e Venezia, entrambe di ritorno in serie A all’inizio di questa stagione. Per quanto riguarda i Ducali, il patron Krause dovrà dimostrarsi in grado di non ripetere gli errori commessi nel 2020/2021, quando si presentò ai propri tifosi con una retrocessione in B. In Laguna Niederauer ha bisogno di dare continuità a un progetto che finora ha visto gli arancioneroverdi fare l’altalena tra massima serie e cadetteria. Ora tocca al Verona: chissà che l’amore tra gli americani e il calcio italiano non sbocci proprio nella città di Romeo e Giulietta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/americani-nel-pallone-2670696880.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="vendere-gadget-conta-piu-delle-vittorie-negli-states-le-partite-sono-business-e-show" data-post-id="2670696880" data-published-at="1735469104" data-use-pagination="False"> Vendere gadget conta più delle vittorie. Negli States le partite sono business e show Finora è quasi sempre accaduto che quando un fondo statunitense ha dimostrato il proprio interesse e poi acquistato un club italiano, dalla serie C alla serie A, i tifosi hanno esultato, desiderosi di vedere la propria squadra puntare a traguardi importanti o tornare ai fasti di un tempo, immaginando chissà quali campioni indossare la propria maglia grazie alle enormi e potenziali disponibilità economiche messe sul piatto dai nuovi proprietari. La realtà, tuttavia, è un’altra. Gli americani investono nel nostro calcio non tanto per vincere trofei, quanto con l’idea di trarre profitto esportando il loro modello di business che da noi è semplicemente inconciliabile. Ma per quale motivo? C’è una differenza di cultura evidente alla base di questo binomio che proprio stenta a decollare e per rendersene conto è sufficiente aver assistito, anche una sola volta, a un evento live negli States, dove lo sport è considerato principalmente un affare profittevole per chi decide di investirci. Che sia calcio, Nba, Nfl o baseball, l’obiettivo primario è riempire stadi e palazzetti - da qui l’esigenza di avere uno stadio di proprietà manifestata a più riprese dalle proprietà statunitensi - vendere il più alto numero di hot dog, bibite, gadget e magliette, offrire un vero e proprio show che vada oltre la partita. Allo stesso modo anche la gente, quando arriva il «match day», ha come priorità quella di trascorrere due o tre ore sentendosi parte stessa dell’evento e alla fine della giornata, se la squadra avrà vinto o perso, sarà un qualcosa che importa relativamente. In Europa, e ancor di più in Italia dove il risultato è quel che conta di più e la maggior parte dei tifosi paga il biglietto o l’abbonamento se la squadra vale, tutto questo non è replicabile. Ciò non significa che il nostro modello sia migliore o peggiore di quello americano, semplicemente è diverso. E bisogna prenderne atto. Il calcio qui, dove i principali stakeholders continuano per fortuna a essere ancora i tifosi, non può essere trattato come una qualunque altra azienda su cui investire e alla lunga guadagnarci. Una squadra, dallo staff tecnico ai giocatori, per funzionare ha bisogno di sentire la presenza a 360 gradi di una società forte, specialmente quando le cose non girano per il verso giusto. Come il Milan e la Roma, i casi più evidenti ma non gli unici. E se in piena crisi giallorossa i Friedkin erano concentrati sull’acquisto dell’Everton e non si sono mai fatti vedere dalle parti di Trigoria, dove per altro è vacante da diversi mesi anche la figura di un amministratore delegato, a Milanello hanno fatto molto discutere le dichiarazioni di Gerry Cardinale rilasciate in un documento alla Harvard Business School a settembre, ma rese pubbliche solo la scorsa settimana, in cui il proprietario del Milan ha spiegato la sua strategia di gestione del club: «La maggior parte di coloro che investono in società sportive lo fanno perché sono coinvolti emotivamente. Mettono la vittoria dei campionati al di sopra di tutto il resto e questo spesso li porta a commettere l’errore di pensare che spendere troppo per schierare una squadra di stelle sia linearmente correlato alla vittoria. Ma questa è la cosa peggiore che puoi fare come investitore». Spostandosi all’estero la musica non cambia. Ne è un esempio lampante il Manchester United. A Old Trafford, da quando Sir Alex Ferguson ha abdicato nel 2013 dopo aver mantenuto le redini dei Red Devils per 27 stagioni, la famiglia Glazer ha collezionato solo fallimenti attraverso una gestione sciagurata, spendendo miliardi di sterline per ingaggiare allenatori e giocatori senza alcun criterio tecnico. Il punto su cui riflettere è che allo United non serviva l’avvento degli americani per migliorare l’aspetto legato al business: il marchio è sempre stato super appetibile all’estero, il merchandising e i ricavi derivanti da ticketing così come il seguito sui social network sono sempre da top al mondo. A mancare sono i trofei. E quelli senza un progetto e qualcuno che lo sappia guidare non arrivano. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/americani-nel-pallone-2670696880.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="riferimenti-classici-e-riti-di-sangue-per-noi-non-e-solo-uno-sport-e-mito" data-post-id="2670696880" data-published-at="1735469104" data-use-pagination="False"> Riferimenti classici e riti di sangue. Per noi non è solo uno sport: è mito Se volete sapere cosa pensino davvero gli americani del calcio, date un’occhiata all’inizio di una puntata dei Simpson del 1997, «La famiglia Cartridge». Nell’episodio, la popolazione di Springfield accorre allo stadio per vedere una partita che deciderà «quale nazione è la più forte della Terra: il Messico o il Portogallo». Il match, tuttavia, si rivela di una noia mortale, almeno fino a che sugli spalti non scoppiano disordini che sfociano nel saccheggio della città intera. C’è veramente tutto: il protagonismo di popoli che agli occhi degli americani appaiono fuori dalla storia, intercambiabili (Italia-Brasile, che decise i Mondiali Usa solo tre anni prima, doveva aver dato ai locali un’impressione simile); la dinamica del gioco incomprensibile e soporifera; un contorno di violenza sociale inspiegabile. Non che di quest’ultima ci sia da andare molto fieri, ovviamente. Lo scontro di civiltà, tuttavia, non poteva essere mostrato con maggiore chiarezza. Il fatto è che il calcio, in Europa, non è mai solo calcio. È, innanzitutto, storia. E storia millenaria. Ne L’ideologia tripartita degli indoeuropei, Georges Dumézil così spiega il tema dei colori associati alle tre funzioni (sovrana, guerriera e produttiva): «Un sistema completo a tre termini del simbolismo colorato s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è quello dei colori delle fazioni del circo che assunsero grande importanza sotto l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono sicuramente anteriori all’impero e che gli studiosi di antichità romani collegarono del resto alle origini stesse di Romolo». Colori sacrali che affondano nella notte dei tempi e che finiscono sui vessilli del circo: suona familiare. Per tutto il Medioevo e oltre, i vari antenati del calcio, brutali e selvaggi, attraversano il continente, creando i primi allarmi sociali. Un editto emesso dal sindaco di Londra nel 1314 recita: «Essendo provato che si fa gran clamore per le strade cittadine a seguito di certi tumulti provocati dall’inseguire dei grossi palloni e che da ciò possono derivarne molti mali ‒ che Iddio non voglia ‒ noi comandiamo e proibiamo, in nome del re e sotto pena del carcere, che tale gioco sia d’ora innanzi praticato in città». Siamo in una fase in cui la distinzione tra giocatori e spettatori non è poi così netta: una palla rotola e attorno è festa e lotta. Qualche secolo dopo, come ricordano Daniele Marchesini e Stefano Pivato in Tifo. La passione sportiva in Italia (Il Mulino), Goethe nel suo Viaggio in Italia assiste a Verona, nel 1786, a una partita con quattro o cinquemila spettatori. Ben presto le sfide si colorano di connotazioni campanilistiche. Nel Settecento, la sfida per eccellenza era quella tra bolognesi e fiorentini come riportano le cronache del tempo: «il primo giorno che giuocarono […] vi fu un gran concorso di popolo; alla battuta e rimessa avevano fatto li palchi e nel fianco fecero ancora palchi sovra cavalletti e scale una contro l’altra. Le finestre si pagano sino a sei paoli l’una». All’inizio dell’Ottocento sorgono i primi antenati degli stadi: gli sferisteri. Nel XIX secolo sono circa un centinaio in tutta Italia. Nascono anche i primi regolamenti, per giocatori e spettatori. Viene proibito «qualunque litigio, clamore e sconcezza […] sia ai giocatori che agli spettatori» e al pubblico si raccomanda «di applaudire i giuocatori con Evviva e Battute di mano» mentre vige il divieto «di offendere alcuno di essi con fischi e con gesti ingiurianti». L’arrivo del football vero e proprio dall’Inghilterra è imminente. Il resto è negli annali. Tutto, quindi, nel calcio italiano trasuda storia: i simboli (la lupa, l’aquila, il biscione), i nomi delle squadre, non di rado fondate da liceali intrisi di cultura classica (Juventus, Atalanta), le denominazioni un po’ retrò con cui i commentatori identificano le compagini cittadine (i felsinei, gli scaligeri, gli alabardati). Su questa connotazione volutamente arcaicizzante, si innestano identità e conflitti prettamente moderni. Ampliando il raggio, pensiamo alle squadre del Meridione che innalzano il vessillo della lotta al «potere del Nord», al conflitto tra il Barcellona autonomista e repubblicano e il Real Madrid centralista e monarchico, tra i Glasgow Rangers unionisti e protestanti e il Celtic cattolico e indipendentista, alle rivalità politiche novecentesche che impregnano le identità di tifoserie come quelle di Lazio, Verona, Livorno, St. Pauli, ai club che hanno finito per identificarsi con minoranze etnoreligiose, come Ajax e Tottenham, le due «squadre del ghetto», o il Paris Saint-Germain che arruola ultras nelle banlieue. Al calcio si appassionano intellettuali di levatura gigantesca: Pier Paolo Pasolini, Jacques Derrida, Martin Heidegger (ma già Giacomo Leopardi aveva dedicato una lirica A un vincitore nel pallone). Gli stessi cronisti dello sport nazionale erano, fino a qualche tempo fa, aulici cantori di epopee nazionali: Gianni Brera, Vladimiro Caminiti, Gianni Mura. Non che il mondo americano sia sempre privo di tutto ciò: di baseball hanno scritto anche Philip Roth e John Fante, i cranks degli stadi americani di inizio Novecento non erano poi così diversi dagli ultras, così come è storica la rivalità tra Boston Red Sox e New York Yankees oppure tra Dodgers e Giants. Ma sono fenomeni marginali, in cui spesso pesa il retaggio di identità non Wasp (Fante ha ben presenti le sue origini italiane, Boston è praticamente una città irlandese). E comunque parliamo di un mondo in cui può capitare che i già citati Dodgers e Giants si trasferiscano di punto in bianco da New York alla California, con il che qualsiasi rivalità carnale va a farsi benedire. Non è più sport, è spettacolo. Negli stadi non vige più il ricordo degli antichi riti di sangue, ma dominano hot dog e kiss cam. Ne sa qualcosa il cantante sudcoreano Psy, quello di Gnagnam style, che venne improvvidamente fatto esibire prima del derby romano in finale di Coppa Italia, il 26 maggio 2013, in un clima da sostanziale guerra santa. L’artista fu seppellito dai fischi e dagli insulti, dopodiché cancellò il tour e scappò via dall’Italia. Come ha scritto la pagina Calciatori brutti, quello fu «il giorno più brutto della sua vita». Questa è l’Europa, ragazzo.
Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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