
Per cinque anni commissario liquidatore alla banca privata del bancarottiere e mafioso Michele Sindona, venne ucciso a Milano la notte dell'11 luglio 1979. Aveva scritto alla moglie: «Pagherò a caro prezzo l'incarico».«Mi scusi, avvocato Ambrosoli...». Così si rivolse a Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore che si opponeva al salvataggio dell'impero in bancarotta del finanziere siciliano Michele Sindona, il killer della mafia Joseph Aricò, assoldato dallo stesso Sindona, nel momento in cui gli sparava uccidendolo, la sera dell'11 luglio 1979 in via Morozzo della Rocca a Milano.Voleva avere la certezza, come spiegherà dopo l'arresto, di non sbagliare bersaglio, e di uccidere proprio lui, Ambrosoli.Un uomo normale, una persona perbene, un professionista onesto che senza essere un servitore dello Stato in senso stretto, lo servì fino al sacrificio della propria vita, meritandosi l'appellativo di «eroe borghese» (come da titolo del libro di Corrado Stajano e del successivo film di Michele Placido), in un momento in cui la Prima repubblica dei padri costituenti aveva lasciato il posto alla sua versione marcia, corrotta, mefitica.Nato a Milano nel 1933, figlio di Omero Riccardo Ambrosoli, avvocato che lavorava nell'ufficio legale della Cariplo, la Cassa di risparmio delle provincie lombarde, Ambrosoli in gioventù militò nell'Unione monarchica italiana. Non era, insomma, un bolscevico, ma un liberale moderato con una forte impronta cattolica, precisazione doverosa dal momento che, quando si scontrò con il sistema sindoniano, che incrociava ambienti politici (la Dc, soprattutto la corrente di Giulio Andreotti), massoneria (la P2 di Licio Gelli), Vaticano (lo Ior, la banca dell'arcivescovo Paul Marcinkus, era socio di Sindona), nonché pezzi di magistratura «deviata» (che arrivò a incriminare il governatore della Banca d'Italia, Paolo Baffi, e il capo della vigilanza, Mario Sarcinelli), l'accusa che gli fu rivolta fu quella di essere un «comunista».Diventato a sua volta avvocato, si specializzò nel 1964 in diritto fallimentare, occupandosi della liquidazione della Sfi, la Società finanziaria italiana, ente vicino alla Dc, una bancarotta da 70 miliardi di lire (al valore dell'epoca), vicenda che lo farà collaborare con il pubblico ministero Guido Galli, assassinato a sua volta pochi mesi dopo Ambrosoli, nel marzo 1980, da un commando della rossa Prima linea.Ambrosoli si fa un nome, e negli anni consegue successi nell'attività libero professionale: consulente di cliniche e società commerciali, presidente del collegio sindacale di un paio di banche, sarà anche sindaco della società editrice di Il Giornale nuovo di Indro Montanelli.Per questo, quando nel 1974 la galassia bancaria di Sindona va in pezzi, negli Stati Uniti con in fallimento della Franklin national bank, che si trova in affanno di liquidità causa anche spericolate manovre valutarie, e in Italia con il crack da 140 miliardi di lire della Banca privata italiana, il governatore di Bankitalia, Guido Carli, pensa ad Ambrosoli nella veste di commissario liquidatore.Sindona, già. Avvocato, banchiere. Incensato come mago della finanza, «l'italiano di maggior successo dopo Benito Mussolini», secondo Andreotti - dopo una bufera monetaria - addirittura il «salvatore della lira». Sindona, che grazie a un lontano parente, monsignor Amleto Tondini, conoscerà negli anni Sessanta l'amministratore dello Ior, Massimo Spada. Sindona, che entra in rapporto con Licio Gelli, tanto da ricevere da lui, una volta arrestato negli Usa per bancarotta, un affidavit, una dichiarazione giurata sulla sua specchiata moralità (proprio indagando su Sindona e sul suo finto rapimento a fini di depistaggio, dopo l'omicidio Ambrosoli, Gherardo Colombo e Giuliano Turone arriveranno nell'81 agli elenchi di Gelli custoditi a Castiglion Fibocchi).Sindona che, in quel groviglio di scatole cinesi tra Italia, Europa e Stati Uniti, si ritrova a braccetto con Roberto Calvi del Banco ambrosiano, anche lui legato alla P2. Sindona, che custodisce la «lista dei 500», gli esportatori di valuta rimborsati prima del crollo (tra essi, dirà uno dei collaboratori di Sindona, perfino mogli e parenti di fior di politici). Sindona, pronto a minacciare chiunque si metta tra lui e la salvezza, come per esempio il dominus di Mediobanca, Enrico Cuccia. Siciliano anch'egli, per scongiurare il sequestro di uno dei figli incontrerà Sindona, e da lui sentirà l'annuncio: «Io Ambrosoli lo faccio sparire» (di tutto questo Cuccia non dirà nulla fino al processo dell'85 in cui Sindona sarà condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio: non avvertirà né la magistratura né Ambrosoli, in udienza il suo sarà un freddo discolparsi, un vero don Abbondio; tre giorni dopo la sentenza, Sindona morirà in carcere per un caffè «alla Pisciotta»: corretto al cianuro). Saranno tutti questi «mondi» ad avversare Ambrosoli. Che tirerà dritto per la sua strada. Così quando lo Ior ebbe la sfrontatezza di presentarsi come creditore di Sindona in sede di fallimento, Ambrosoli oppose un secco rifiuto.Ma sapeva anche che per essersi battuto per lo Stato e per la legalità, e perché il costo del «botto» sindoniano non fosse scaricato sulla collettività, avrebbe pagato «a caro prezzo l'incarico», ma «non mi lamento, per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il Paese», scriverà lui stesso alla moglie Annalori in una lettera-testamento addirittura del 1975. Un presagio.In quella storiaccia, si arriverà addirittura all'arresto di Sarcinelli (chiamato «il sorcio» da Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti), che passerà in carcere due settimane, onta che sarà risparmiata a Baffi solo in virtù dell'età. La Procura di Roma decise questo atto senza precedenti, rimasto un unicum, imputando ai due una serie di reati (interesse privato, omesso controllo etc), in realtà una cortina nebbiogena tesa a nascondere la realtà: i due venivano puniti per aver disposto un'ispezione al Banco ambrosiano di Calvi, ed essersi opposti ai vari tentativi di salvataggio di Sindona (da notare che solo quattro giorni prima dell'arresto di Sarcinelli era stato ucciso il giornalista Mino Pecorelli, direttore di Op, rivista scritta spesso con soffiate che arrivavano dai servizi e dalla massoneria: l'ultima copertina raffigurava Andreotti con lo strillo «Gli assegni del presidente»); Andreotti che nel 2010 a proposito della morte di Ambrosoli sentenziò: «A Roma diremmo che se l'è cercata».Di questo e molto altro trovate traccia, se volete, nel bel libro Qualunque cosa succeda, una frase della lettera-testamento prima citata, scritto dal figlio Umberto.Soprattutto per ricordare Giorgio Ambrosoli non per come è morto, ma per come ha vissuto.
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