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2022-08-26
Altro che agenda Draghi. Si rischia l’agenda Zan
Alessandro Zan (Imagoeconomica)
Gianfranco Amato, presidente dell’Associazione giuristi per la vita
Strane queste elezioni balneari del 2022. Tra le tante cose che quadrano poco vi è da annoverare anche l’eccessivo entusiasmo che circola tra le fila del centrodestra. Un entusiasmo amplificato da sondaggi presi come l’oracolo di Delfi. La realtà è che la coalizione di centrodestra non ha la vittoria in tasca come cercano far credere i dati in circolazione, e coloro che li agitano strumentalmente per paventare il pericolo fascista. Chi davvero si intende di politica sa che, di solito, le elezioni le vincono quelli che hanno paura di perderle. E oggi il Partito democratico, con i vari satelliti di sinistra, ha il terrore di perdere il potere. Quindi verrà utilizzato qualsiasi mezzo, senza esclusione di colpi, pur di non uscire dalla stanza dei bottoni in cui comandano da più di un decennio senza aver vinto un’elezione.
Ci sono due grandi pericoli all’orizzonte per lo schieramento di centrodestra. L’astensionismo e la dispersione del voto per uno di quei partitini che, verosimilmente, non raggiungeranno mai lo sbarramento del 3%. Il punto è che se il centrodestra non dovesse raggiungere il premio di maggioranza, proprio grazie all’astensionismo e alla dispersione del voto, lo scenario che si verificherebbe è facilissimo da delineare. Partito democratico, grillini, sinistra e magari anche la coppia Carlo Calenda e Matteo Renzi si metteranno insieme per formare un governo. E sarà la fine.
Sì, perché non avremo soltanto l’approvazione del ddl Zan sull’omofobia, ma anche il cosiddetto «matrimonio egualitario», cioè non più l’unione civile ma il matrimonio a tutti gli effetti tra omosessuali, la conseguente adozione dei minori a coppie dello stesso sesso, l’eutanasia, l’utero in affitto, la legalizzazione della cannabis, la scuola d’infanzia obbligatoria in pieno stile bolscevico, il gender nelle scuole, e tutta una serie di devianze che Letta continua a rivendicare con orgoglio. Non avremo l’agenda Draghi, avremo l’agenda Zan. Avremo la realizzazione definitiva di quella rivoluzione antropologica contro cui da più di dieci anni combattono molti protagonisti coraggiosi del mondo pro life e pro family.
Ecco perché questa campagna elettorale ha un’importanza fondamentale. In un certo senso la stessa importanza che ebbero le elezioni del 18 aprile 1948. Allora, si trattò di difendere la libertà dal pericolo del regime comunista sovietico, oggi si tratta di difendere una visione dell’uomo.
Vorrei poi anche ricordare, a tanti amici, una promessa fatta da Enrico Letta. Se la sinistra dovesse andare al potere, grazie all’astensionismo o la dispersione dei voti degli ex elettori del centrodestra, Roberto Speranza verrà confermato quale ministro della Salute. Chi si astiene, o dà il consenso a un partitino fuori coalizione, sottraendo voti al centrodestra, rischia di votare indirettamente Speranza ministro della Salute, se il centrodestra non dovesse raggiungere il premio di maggioranza. Ecco perché occorre votare un partito della coalizione di centrodestra. E non si tratta di uno spot elettorale. Questa esigenza è dettata da due fattori: fermare la deriva zapaterista della sinistra, e consentire finalmente di avere un governo di centrodestra davvero politico. Non l’accrocco indigeribile del governo gialloblù, costretto dal mancato raggiungimento del premio di maggioranza, e neanche il cosiddetto governo Draghi di unità nazionale - o pseudo tecnico - che ha fatto scelte in termini di libertà del tutto esecrabili. Solo un governo esclusivamente politico, non condizionato da compromessi impossibili o da fattori e pressioni imposte dall’esterno, può dare una garanzia da questo punto di vista.
Se qualcuno vuol sapere quale potrebbe essere lo scenario in caso di vittoria del centrodestra per quanto riguarda la questione obblighi vaccinali, green pass, eccetera, legga l’ottima intervista rilasciata il 6 agosto scorso alla Verità da Massimiliano Romeo, presidente dei senatori della Lega.
Occorre votare un partito della coalizione di centrodestra. Chi invece si astiene, o spreca il voto, è come se votasse Roberto Speranza ministro della Salute.
Meno tasse, mutui agevolati, congedi. Ecco l’«inferno» pro family di Orbán
Dall’alto del nostro nulla, critichiamo pure. In Italia gli aiuti alle famiglie e la lotta alla denatalità sono all’anno zero, ma se Matteo Salvini osa citare quello che di concreto ha fatto il governo ungherese per riempire le culle e aiutare le donne, apriti cielo. «Un modello misogino e omofobo», tuona la Stampa degli Agnelli Elkann, e pazienza se quella pioggia di esenzioni e prestiti concessi da Viktor Orbán a partire dal 2019 farebbero molto comodo anche da noi e alle grandi imprese che da mesi lamentano il calo delle nascite nella Penisola.
Che cosa è successo è molto semplice. Mercoledì, intervistato da Radio 24 del Sole 24 Ore, il capo della Lega è andato al lato pratico della faccenda e ha affermato: «Non c’è alcun dubbio che la legge più avanzata per la famiglia, quella che sta dando i migliori risultati a livello europeo, sia quella dell’Ungheria». «Ma non lo dico perché c’è Orbán», ha subito aggiunto Salvini, «perché se fosse in Francia direi in Francia». Con la radio della Confindustria, preoccupata della denatalità italica, il capo del Carroccio ha parlato di «tantissimi aiuti e incentivi economici veri», citando le esenzioni fiscali per le donne dopo il terzo figlio e i congedi parentali per i nonni. Ma si tratta solo di alcune delle misure messe in campo dall’Ungheria, a partire dalla prima legge del 2019, sotto le insegne della lotta al calo demografico e della difesa della famiglia tradizionale, basata su uomo e donna, legge che ha attirato critiche dell’Unione europea e di molti «progressisti» in vari Paesi.
Prima di riprendere il tema del «modello omofobo e misogino» di Budapest, ecco in che consistono le misure che sarebbe utile poter discutere anche in Italia, a prescindere da come la si pensi su gender e dintorni. Tutte le donne che partoriscono e si prendono cura di almeno quattro figli hanno l’esenzione a vita dalla tassa sui redditi. Per le madri sotto i 40 anni che si sposano per la prima volta c’è a disposizione un prestito a interessi ridotti di 31.500 euro: un terzo del debito verrà estinto alla nascita del secondo figlio, mentre gli interessi verranno cancellati alla nascita del terzo.
Sempre in tema di prestiti statali, c’è un programma apposito per le famiglie con almeno due bimbi, affinché possano comprare la casa dove vivere. Dopo la nascita del secondogenito, il governo assegnerà 3.150 euro come contributo per il mutuo e dopo il terzo bambino si arriva a 12.580 euro di sovvenzione. Ogni nuovo arrivato in famiglia permetterà alla famiglia di ricevere un assegno aggiuntivo di oltre 3.000 euro. Tra le altre facilitazioni ci sono il congedo parentale per i nonni fino al terzo compleanno dei nipoti; il potenziamento della rete degli asili pubblici con la creazione di 21.000 nuovi posti entro la fine di quest’anno; un sussidio di 7.862 euro per l’acquisto di un’automobile da sette posti per le famiglie numerose.
E sempre nella stessa ottica, da febbraio 2020 il governo ungherese offre gratuitamente alle coppie i trattamenti di fecondazione assistita. Come ricordava ieri lo stesso Corriere della Sera, è «considerevole l’investimento finanziario per l’attuazione del piano: il 6,2% del Pil del Paese è destinato a favore delle politiche familiari e della natalità». E il governo di Budapest ha stanziato circa 9,7 miliardi di euro nel solo 2022.
Ma a giugno del 2020, Orbán si è «macchiato» di una modifica della Costituzione con la quale si definisce la famiglia come quella composta da una donna come madre e un uomo come padre, vietando di fatto le adozioni da parte di coppie del medesimo sesso e complicando le adozioni da parte dei single.
Per questo motivo, gli esempi citati da Salvini hanno fatto imbestialire il Pd e gli ultras di quella che a volte sembra sì una famiglia «allargata», ma a tutti meno che ai figli. Il capogruppo alla Camera Debora Serracchiani inorridisce: «Sono andata a leggere quella legge: il modello Orbán che piace tanto a Salvini non si occupa di quello che serve veramente alle donne e alle famiglie (tutte le famiglie), ma sembra riportarci indietro di decenni negando diritti che evidentemente per Salvini non sono scontati». Per l’esponente lettiana, quelle misure a favore delle donne che fanno più figli sono per una «famiglia etero, benedetta da Santa romana Chiesa», imperniata su madri e mogli «angeli del focolare». Il male assoluto, par di capire. Rincara la dose Lia Quartapelle: «L’Italia come l’Ungheria. Questa l’idea di Salvini per il futuro. Se si vogliono aiutare le famiglie davvero, ci sono altri modelli europei a cui ispirarsi, tra cui la Francia».
Fatto sta che gli allarmi, anche dal fronte economico, si susseguono da mesi. Lo scorso 24 maggio, il presidente Istat Giancarlo Blangiardo ha fatto notare da Parma che «a livello nazionale la demografia è debole. Lo era prima del Covid e ora si è ulteriormente indebolita. Sul fronte natalità, lo scorso anno i nuovi nati sono stati 399.000, il numero più basso di sempre». Le previsioni da qui al 2070, dicono che la popolazione italiana potrebbe passare da 59,2 a 47,6 milioni. Pochi giorni dopo, in occasione dell’assemblea annuale di Banca d’Italia, il governatore Ignazio Visco ha spiegato che la crescita della produttività dipende fortemente dalle dinamiche demografiche e quindi nei prossimi anni si assisterà a una continua riduzione della forza lavoro e delle prospettive di sviluppo economico dell’Italia.
Sul fronte del lavoro, uno studio di via Nazionale segnala inoltre un altro grave problema: il tasso di attività femminile è pari al 55% in Italia, contro una media europea del 68%, ed è inferiore di 18 punti percentuali rispetto a quella degli uomini. Angeli del focolare loro malgrado?
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In gioco ci sono due visioni dell’uomo: si corra al seggio e non si disperdano suffragi. Dopo l’assurda polemica sull’aborto, la sinistra si scaglia sugli aiuti alle famiglie. Della crisi delle nascite non gliene importa nulla: vogliono nozze gay, gender a scuola, eutanasia e cannabis.Il Pd e la stampa di sinistra trasecolano perché, contro la denatalità, Matteo Salvini propone il modello Ungheria. Un Paese che investe il 6,2% del Pil per genitori, figli, nonni e asili. E facilita l’acquisto di abitazioni e auto.Lo speciale contiene due articoli.Gianfranco Amato, presidente dell’Associazione giuristi per la vitaStrane queste elezioni balneari del 2022. Tra le tante cose che quadrano poco vi è da annoverare anche l’eccessivo entusiasmo che circola tra le fila del centrodestra. Un entusiasmo amplificato da sondaggi presi come l’oracolo di Delfi. La realtà è che la coalizione di centrodestra non ha la vittoria in tasca come cercano far credere i dati in circolazione, e coloro che li agitano strumentalmente per paventare il pericolo fascista. Chi davvero si intende di politica sa che, di solito, le elezioni le vincono quelli che hanno paura di perderle. E oggi il Partito democratico, con i vari satelliti di sinistra, ha il terrore di perdere il potere. Quindi verrà utilizzato qualsiasi mezzo, senza esclusione di colpi, pur di non uscire dalla stanza dei bottoni in cui comandano da più di un decennio senza aver vinto un’elezione.Ci sono due grandi pericoli all’orizzonte per lo schieramento di centrodestra. L’astensionismo e la dispersione del voto per uno di quei partitini che, verosimilmente, non raggiungeranno mai lo sbarramento del 3%. Il punto è che se il centrodestra non dovesse raggiungere il premio di maggioranza, proprio grazie all’astensionismo e alla dispersione del voto, lo scenario che si verificherebbe è facilissimo da delineare. Partito democratico, grillini, sinistra e magari anche la coppia Carlo Calenda e Matteo Renzi si metteranno insieme per formare un governo. E sarà la fine. Sì, perché non avremo soltanto l’approvazione del ddl Zan sull’omofobia, ma anche il cosiddetto «matrimonio egualitario», cioè non più l’unione civile ma il matrimonio a tutti gli effetti tra omosessuali, la conseguente adozione dei minori a coppie dello stesso sesso, l’eutanasia, l’utero in affitto, la legalizzazione della cannabis, la scuola d’infanzia obbligatoria in pieno stile bolscevico, il gender nelle scuole, e tutta una serie di devianze che Letta continua a rivendicare con orgoglio. Non avremo l’agenda Draghi, avremo l’agenda Zan. Avremo la realizzazione definitiva di quella rivoluzione antropologica contro cui da più di dieci anni combattono molti protagonisti coraggiosi del mondo pro life e pro family.Ecco perché questa campagna elettorale ha un’importanza fondamentale. In un certo senso la stessa importanza che ebbero le elezioni del 18 aprile 1948. Allora, si trattò di difendere la libertà dal pericolo del regime comunista sovietico, oggi si tratta di difendere una visione dell’uomo.Vorrei poi anche ricordare, a tanti amici, una promessa fatta da Enrico Letta. Se la sinistra dovesse andare al potere, grazie all’astensionismo o la dispersione dei voti degli ex elettori del centrodestra, Roberto Speranza verrà confermato quale ministro della Salute. Chi si astiene, o dà il consenso a un partitino fuori coalizione, sottraendo voti al centrodestra, rischia di votare indirettamente Speranza ministro della Salute, se il centrodestra non dovesse raggiungere il premio di maggioranza. Ecco perché occorre votare un partito della coalizione di centrodestra. E non si tratta di uno spot elettorale. Questa esigenza è dettata da due fattori: fermare la deriva zapaterista della sinistra, e consentire finalmente di avere un governo di centrodestra davvero politico. Non l’accrocco indigeribile del governo gialloblù, costretto dal mancato raggiungimento del premio di maggioranza, e neanche il cosiddetto governo Draghi di unità nazionale - o pseudo tecnico - che ha fatto scelte in termini di libertà del tutto esecrabili. Solo un governo esclusivamente politico, non condizionato da compromessi impossibili o da fattori e pressioni imposte dall’esterno, può dare una garanzia da questo punto di vista.Se qualcuno vuol sapere quale potrebbe essere lo scenario in caso di vittoria del centrodestra per quanto riguarda la questione obblighi vaccinali, green pass, eccetera, legga l’ottima intervista rilasciata il 6 agosto scorso alla Verità da Massimiliano Romeo, presidente dei senatori della Lega. Occorre votare un partito della coalizione di centrodestra. Chi invece si astiene, o spreca il voto, è come se votasse Roberto Speranza ministro della Salute.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/altro-che-draghi-agenda-zan-2657946646.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="meno-tasse-mutui-agevolati-congedi-ecco-l-inferno-pro-family-di-orban" data-post-id="2657946646" data-published-at="1661485929" data-use-pagination="False"> Meno tasse, mutui agevolati, congedi. Ecco l’«inferno» pro family di Orbán Dall’alto del nostro nulla, critichiamo pure. In Italia gli aiuti alle famiglie e la lotta alla denatalità sono all’anno zero, ma se Matteo Salvini osa citare quello che di concreto ha fatto il governo ungherese per riempire le culle e aiutare le donne, apriti cielo. «Un modello misogino e omofobo», tuona la Stampa degli Agnelli Elkann, e pazienza se quella pioggia di esenzioni e prestiti concessi da Viktor Orbán a partire dal 2019 farebbero molto comodo anche da noi e alle grandi imprese che da mesi lamentano il calo delle nascite nella Penisola. Che cosa è successo è molto semplice. Mercoledì, intervistato da Radio 24 del Sole 24 Ore, il capo della Lega è andato al lato pratico della faccenda e ha affermato: «Non c’è alcun dubbio che la legge più avanzata per la famiglia, quella che sta dando i migliori risultati a livello europeo, sia quella dell’Ungheria». «Ma non lo dico perché c’è Orbán», ha subito aggiunto Salvini, «perché se fosse in Francia direi in Francia». Con la radio della Confindustria, preoccupata della denatalità italica, il capo del Carroccio ha parlato di «tantissimi aiuti e incentivi economici veri», citando le esenzioni fiscali per le donne dopo il terzo figlio e i congedi parentali per i nonni. Ma si tratta solo di alcune delle misure messe in campo dall’Ungheria, a partire dalla prima legge del 2019, sotto le insegne della lotta al calo demografico e della difesa della famiglia tradizionale, basata su uomo e donna, legge che ha attirato critiche dell’Unione europea e di molti «progressisti» in vari Paesi. Prima di riprendere il tema del «modello omofobo e misogino» di Budapest, ecco in che consistono le misure che sarebbe utile poter discutere anche in Italia, a prescindere da come la si pensi su gender e dintorni. Tutte le donne che partoriscono e si prendono cura di almeno quattro figli hanno l’esenzione a vita dalla tassa sui redditi. Per le madri sotto i 40 anni che si sposano per la prima volta c’è a disposizione un prestito a interessi ridotti di 31.500 euro: un terzo del debito verrà estinto alla nascita del secondo figlio, mentre gli interessi verranno cancellati alla nascita del terzo. Sempre in tema di prestiti statali, c’è un programma apposito per le famiglie con almeno due bimbi, affinché possano comprare la casa dove vivere. Dopo la nascita del secondogenito, il governo assegnerà 3.150 euro come contributo per il mutuo e dopo il terzo bambino si arriva a 12.580 euro di sovvenzione. Ogni nuovo arrivato in famiglia permetterà alla famiglia di ricevere un assegno aggiuntivo di oltre 3.000 euro. Tra le altre facilitazioni ci sono il congedo parentale per i nonni fino al terzo compleanno dei nipoti; il potenziamento della rete degli asili pubblici con la creazione di 21.000 nuovi posti entro la fine di quest’anno; un sussidio di 7.862 euro per l’acquisto di un’automobile da sette posti per le famiglie numerose. E sempre nella stessa ottica, da febbraio 2020 il governo ungherese offre gratuitamente alle coppie i trattamenti di fecondazione assistita. Come ricordava ieri lo stesso Corriere della Sera, è «considerevole l’investimento finanziario per l’attuazione del piano: il 6,2% del Pil del Paese è destinato a favore delle politiche familiari e della natalità». E il governo di Budapest ha stanziato circa 9,7 miliardi di euro nel solo 2022. Ma a giugno del 2020, Orbán si è «macchiato» di una modifica della Costituzione con la quale si definisce la famiglia come quella composta da una donna come madre e un uomo come padre, vietando di fatto le adozioni da parte di coppie del medesimo sesso e complicando le adozioni da parte dei single. Per questo motivo, gli esempi citati da Salvini hanno fatto imbestialire il Pd e gli ultras di quella che a volte sembra sì una famiglia «allargata», ma a tutti meno che ai figli. Il capogruppo alla Camera Debora Serracchiani inorridisce: «Sono andata a leggere quella legge: il modello Orbán che piace tanto a Salvini non si occupa di quello che serve veramente alle donne e alle famiglie (tutte le famiglie), ma sembra riportarci indietro di decenni negando diritti che evidentemente per Salvini non sono scontati». Per l’esponente lettiana, quelle misure a favore delle donne che fanno più figli sono per una «famiglia etero, benedetta da Santa romana Chiesa», imperniata su madri e mogli «angeli del focolare». Il male assoluto, par di capire. Rincara la dose Lia Quartapelle: «L’Italia come l’Ungheria. Questa l’idea di Salvini per il futuro. Se si vogliono aiutare le famiglie davvero, ci sono altri modelli europei a cui ispirarsi, tra cui la Francia». Fatto sta che gli allarmi, anche dal fronte economico, si susseguono da mesi. Lo scorso 24 maggio, il presidente Istat Giancarlo Blangiardo ha fatto notare da Parma che «a livello nazionale la demografia è debole. Lo era prima del Covid e ora si è ulteriormente indebolita. Sul fronte natalità, lo scorso anno i nuovi nati sono stati 399.000, il numero più basso di sempre». Le previsioni da qui al 2070, dicono che la popolazione italiana potrebbe passare da 59,2 a 47,6 milioni. Pochi giorni dopo, in occasione dell’assemblea annuale di Banca d’Italia, il governatore Ignazio Visco ha spiegato che la crescita della produttività dipende fortemente dalle dinamiche demografiche e quindi nei prossimi anni si assisterà a una continua riduzione della forza lavoro e delle prospettive di sviluppo economico dell’Italia. Sul fronte del lavoro, uno studio di via Nazionale segnala inoltre un altro grave problema: il tasso di attività femminile è pari al 55% in Italia, contro una media europea del 68%, ed è inferiore di 18 punti percentuali rispetto a quella degli uomini. Angeli del focolare loro malgrado?
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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