
Dopo Unicredit, l'istituto di Victor Massiah programma un 10% di uscite, 2.360 ricollocamenti e il taglio di 175 filiali. L'obiettivo è arrivare snelli e con più margini al giro di valzer delle nozze (non solo Mps) spinto dalla Bce.Unicredit ha fatto da apripista e ora tocca a Ubi mettere mano all'organico. Annunciando, con il piano industriale al 2022, una riduzione di personale per circa 2.030 risorse, incluse le 300 oggetto dell'accordo sindacale del dicembre 2019, garantendo tuttavia un parziale ricambio generazionale. Cui si aggiunge, su un totale di 20.200 dipendenti, la riqualificazione di circa 2.360 persone «liberate dalla digitalizzazione dei processi», si legge nella nota, che saranno formate e ricollocate. È inoltre prevista la chiusura di 175 filiali non strategiche e gli sportelli «full cash» saranno ridotti del 35 per cento.A distanza di pochi giorni il totale dei tagli annunciati da due delle big italiane del credito fa: 8.000 dipendenti e 625 filiali in meno. Il cammino, sembra, ormai segnato. Per motivi diversi. Da mesi, se non anni, Francoforte invoca una riduzione del numero di istituti e un consolidamento per rafforzare quelli più piccoli. Ma per partecipare al futuro valzer delle fusioni ed essere invitate in pista le banche devono diventare agili e più snelle. L'intero sistema bancario deve, inoltre, fare i conti anche con l'era dei tassi negativi, i postumi della crisi e il Fintech. E più le banche sono grosse, meglio potranno sfruttare la leva tecnologica.La caccia della redditività ora passa dai comparti come il private banking e il wealth management che richiedono nuove competenze soprattutto nell'analisi dei dati che arriveranno da sistemi di intelligenza artificiale. Mentre il profilo professionale di impiegato di rete è destinato a scomparire, sacrificato sull'altare delle nuove tecnologie e dell'automazione di tutte le operazioni. «Il piano è stand alone», ha detto ieri l'ad di Ubi, Victor Massiah. Che tradotto significa: per ora balliamo da soli. Ma «se ci fossero opportunità» saranno valutate. «Non è che tutte le fusioni funzionano, statisticamente ne funziona una su due», ha aggiunto. Quanto alla percorribilità di un matrimonio con Mps l'ad ha ricordato che Ubi viene «tirata per la giacchetta» su questo fronte dal 2014. «Questo non esclude che alla fine si possa andare a nozze con loro o con altri, ma anche in questo caso serve che siano rispettate due condizioni: creazione di valore e semplicità di governance». Come per esempio, l'uscita dello Stato dal capitale del Monte entro il 2021. Secondo gli analisti il Banco Bpm, Ubi e Bper sono tutti potenziali partner di Mps per la creazione del futuro terzo polo bancario, con possibili sinergie al di sopra del 10%. Per migliorare l'efficienza è necessario però alzare i ricavi e ridurre i costi. L'aumento di taglia è quindi una soluzione chiave per risolvere i problemi delle banche di medie dimensioni. Consolidare è facile da dirsi sulla carta, ma complicato da farsi. Anche perché non tutti gli ad sono pronti a fare le valigie. Né tutti i soci di banche storicamente radicate sul territorio, ciascuno portatore di interessi diversi, digeriranno facilmente nuove rivoluzioni accettando pesanti diluizioni. Lo stesso Massiah deve fare i conti con le «sentinelle» interne. Lo scorso 2 febbraio il patto di consultazione di Ubi che riunisce Fondazioni e grandi famiglie imprenditoriali ha alzato la vice candidandosi a rivestire un ruolo di primo piano nei destini futuri della banca. Il Car, come è stato battezzato il patto, si propone di dare «stabilità e coesione» agli assetti proprietari di Ubi, forte di quasi il 20% del capitale e intende diventare un interlocutore stabile del management, dal quale si attende condivisione delle strategie e a cui chiede di portare avanti «una filosofia di successo sostenibile», ha spiegato Mario Cera, che con Giandomenico Genta e Armando Santus compone il comitato direttivo del Car. L'obiettivo è anche avere voce in capitolo sulle eventuali mosse del risiko: tra Mps, Banco Bpm e Bper, il patto non esclude nessuno ma pone già dei paletti. «Per guardare a Siena», ha sottolineato Genta la settimana scorsa, «la banca andrebbe "ripulita" da Npl e rischi legali. Banco Bpm darebbe una svolta di carattere nazionale ma potrebbe costare un aumento da 3 miliardi e migliaia di esuberi». Bper sembra meglio posizionata: «richiederebbe un aumento più contenuto, ha un azionariato più affine, con la Fondazione di Sardegna che affianca Unipol, e ha meno sovrapposizioni», anche se si tratta di «una banca regionale». Ma l'ultima parola spetta a Francoforte. E non a Brescia o a Bergamo. Nel frattempo, il mercato brinda al nuovo piano di Massiah: il titolo Ubi ha infatti chiuso la seduta in Borsa con un balzo del 5,5% a 3,49 euro. In particolare, è stato apprezzato il cambio di marcia della banca e il dividendo annunciato dai vertici «costantemente in crescita» da qui al 2022 con un payout medio del 40% grazie al target di utile netto pari a 665 milioni.
Zohran Mamdani (Ansa)
Nella religione musulmana, la «taqiyya» è una menzogna rivolta agli infedeli per conquistare il potere. Il neosindaco di New York ne ha fatto buon uso, associandosi al mondo Lgbt che, pur incompatibile col suo credo, mina dall’interno la società occidentale.
Le «promesse da marinaio» sono impegni che non vengono mantenuti. Il detto nasce dalle numerose promesse fatte da marinai ad altrettanto numerose donne: «Sì, certo, sei l’unica donna della mia vita; Sì, certo, ti sposo», salvo poi salire su una nave e sparire all’orizzonte. Ma anche promesse di infiniti Rosari, voti di castità, almeno di non bestemmiare, perlomeno non troppo, fatte durante uragani, tempeste e fortunali in cambio della salvezza, per essere subito dimenticate appena il mare si cheta. Anche le promesse elettorali fanno parte di questa categoria, per esempio le promesse con cui si diventa sindaco.
Ecco #DimmiLaVerità del 10 novembre 2025. Il deputato di Sud chiama Nord Francesco Gallo ci parla del progetto del Ponte sullo Stretto e di elezioni regionali.
Donald Trump (Ansa)
La Corte Suprema degli Stati Uniti si appresta a pronunciarsi sulla legittimità di una parte dei dazi, che sono stati imposti da Donald Trump: si tratterà di una decisione dalla portata storica.
Al centro del contenzioso sono finite le tariffe che il presidente americano ha comminato ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa). In tal senso, la questione riguarda i dazi imposti per il traffico di fentanyl e quelli che l’inquilino della Casa Bianca ha battezzato ad aprile come “reciproci”. È infatti contro queste tariffe che hanno fatto ricorso alcune aziende e una dozzina di Stati. E, finora, i tribunali di grado inferiore hanno dato torto alla Casa Bianca. I vari casi sono quindi stati accorpati dalla Corte Suprema che, a settembre, ha deciso di valutarli. E così, mercoledì scorso, i togati hanno ospitato il dibattimento sulla questione tra gli avvocati delle parti. Adesso, si attende la decisione finale, che non è tuttavia chiaro quando sarà emessa: solitamente, la Corte Suprema impiega dai tre ai sei mesi dal dibattimento per pronunciarsi. Non è tuttavia escluso che, vista la delicatezza e l’urgenza del dossier in esame, possa stavolta accelerare i tempi.






