2024-08-05
Rischio fascismo, nessuno crede più ai falsi allarmi
Antonio Padellaro (Imagoeconomica)
Antonio Padellaro, ex vicedirettore dell’Espresso e poi direttore dell’Unità e del Fatto quotidiano, è un collega dotato di una certa ironia. Nel suo ultimo libro, Solo la verità lo giuro (Piemme edizioni), racconta di due signori che incontrandolo si sono complimentati con lui, chiamandolo Belpietro.Capita anche a me di essere scambiato per qualche altro frequentatore di talk show e come lui ci rido sopra. Tuttavia Padellaro, nella sua rubrica sul Fatto in cui dà conto della promozione del volume in alcune delle più note località estive, dice anche che agli appuntamenti, a cui di solito accorre una fascia di lettori in linea con il pensiero dell’autore, nessuno richiede la sua opinione sul rischio del ritorno del fascismo in Italia e meno che mai sui pericoli per la democrazia generati dal governo Meloni. «Ciò non significa che il nostro Paese sia al sicuro da derive autoritarie o che possa dormire sonni tranquilli mentre a Palazzo Chigi bivaccano gli eredi di Giorgio Almirante (e del duce)» ammonisce. E poi, dopo aver rivelato tutta la sua inquietudine verso il periodo che sta attraversando il nostro Paese, Padellaro si interroga sul perché nessuno si preoccupi delle ombre che potrebbe inghiottire la nostra fragile Repubblica. Le risposte che l’ex direttore si dà sono interessanti. Prima si chiede se il popolo bue non avverta la minaccia, poi se non sia la rassegnazione «a subire le conseguenze di una incombente dittatura» a determinare l’apatia degli italiani e infine azzarda una terza ipotesi e cioè che l’opinione pubblica si sia assuefatta agli allarmi, tanto da non poterne più. È lui stesso a scrivere che «nell’anno II dell’era di Giorgia sono già un paio di 25 aprile, 25 luglio, 8 settembre e 28 ottobre (Marcia su Roma) che si svolge sempre la stessa scena. Con la sinistra che a ogni ricorrenza sensibile pretende, giustamente, dalla premier una esplicita e non ambigua professione di antifascismo. Mentre, regolarmente, ecco che la premier qualcosa di antifascista dice, ma non abbastanza per superare il severo esame di Schlein e compagni».Ecco, il tema è tutto in questa ultima ipotesi, ma mi permetto di allargare un po’ l’orizzonte dell’ex direttore del Fatto quotidiano. Non è da due anni che la sinistra chiede una professione di antifascismo alla destra, ma da 30. Ricordo quando la delegazione della Lega, per il solo fatto di essere alleata di Forza Italia e di An, e dunque di aver contribuito alla vittoria del Cavaliere, nel 1994 fu cacciata dal corteo del 25 aprile. Come Letizia Moratti e il padre, allontanati a suon di fischi dal corteo nel 2007. E rammento pure la gioia della sinistra italiana quando il ministro belga Elio Di Rupo a Bruxelles rifiutò di stringere la mano a Pinuccio Tatarella, vicepremier del governo Berlusconi, in quanto dirigente del Movimento sociale italiano. È dalla sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto che l’Italia è inseguita dai fantasmi del fascismo. Ed è da allora che a ogni débâcle della sinistra riciccia il pericolo di una deriva autoritaria. Il 25 aprile e le altre date citate da Padellaro (ma io aggiungerei anche il 2 agosto e ogni altro giorno dell’anno in cui ricorra una strage fascista o nazista) sono diventate un appuntamento per celebrare la Resistenza. Ma non quella partigiana, i cui testimoni sono pochi sopravvissuti, ma quella della sinistra, che pur essendo sconfitta e divisa prova a dimostrare dal palco di una commemorazione la propria esistenza e il proprio ruolo nella società. Il 25 aprile, come le altre date, sono diventate un rito collettivo di militanti che non sono maggioranza e non si rassegnano a essere minoranza nel Paese. Il problema è che agli italiani, anche a quelli di sinistra, di tutto ciò non importa nulla, perché nessuno davvero crede al ritorno del fascismo e nemmeno i titoli cubitali di Repubblica sull’argomento riescono a scuotere l’opinione pubblica. Padellaro alla fine dei suoi ragionamenti intorno a fascismo e antifascismo riconosce che probabilmente ciò che sembra importante ai giornalisti non è detto che lo sia anche per i lettori. Azzarderei di più: dopo trent’anni di allarmi, come succede nella famosa favola, la gente non si spaventa più sentendo gridare «Al lupo! Al lupo!». E sarebbe ora che sia i giornali, con i loro titoli fiammeggianti, che i compagni, con i loro appelli sempre più stanchi e logori, ne prendessero atto.