2024-10-19
Re e duchi alla corte della cucina modenese
La maestria dei tortellini fatti a mano (iStock)
Per saziare Carlo Emanuele III vennero inventati al volo da una «rezdora» i maccheroni al pettine. Quelli al torchio, invece, deliziarono il palato di Alfonso d’Este. E poi c’è sua maestà il tortellino che, se avanza, dà vita a un altro piatto: il pasticcio.«Il profumo dei tortellini è al vertice dell’altare gastronomico modenese». A pronunciare questo giudizio lapidario sull’eccellenza del «piccolo ombelico» reso edibile dalle rezdore (le «regine» della casa, ndr) locali non è stato un nativo locale ma Guglielmo Zucconi, grande firma giornalistica del secolo breve.Natali bolognesi, convertito sulla via del turtléin una volta divenuto direttore della Gazzetta di Modena. Convinzione così radicata che mantenne poi anche a Milano, quando venne chiamato a dirigere varie testate, tra cui La domenica del Corriere e Il Giorno. Il segreto sta sicuramente negli ingredienti ma, soprattutto, nella cura con cui viene preparato. Infatti le rezdore devono avere mani calde e asciutte, indice di buona salute, così da sigillare al meglio la sagomatura finale della piccola coccola golosa. La controprova che, se preparati da casalinghe frettolose, dalle mani fredde, i lembi della pasta non si sigillano alla prova del brodo bollente, sfaldandosi durante la cottura, «così da esalare la loro golosa anima», cioè la farcitura. Un tempo erano tradizione delle feste importanti, come Pasqua e Natale, così come di ricorrenze quali battesimi e matrimoni.Ogni famiglia ha i suoi piccoli segreti con alcuni fondamentali. Il brodo possibilmente con carne di cappone. Libertà nella farcitura con suineschi prosciutti e mortadelle, ma anche polpa di vitello o petto di pollo. Poi c’erano i fuori onda pirateschi, come ad esempio presso la comunità ebraica di Finale Emilia, così ben radicata nel territorio da non poterne, in nome della Torah, rigettare sana tradizione, come ci ha raccontato Giovanna Guidetti, l’ostessa de La Fefa, autentico tempio della buona ristorazione locale. «Con un chiodo di garofano per un chilo di macinato si sbianchettavano i retrogusti suini e i tortellini del ghetto non facevano rimpiangere quelli della tradizione locale». La buona regola prevedeva un sano bilanciamento: un tortellino per ogni cucchiaio di brodo. Ma il tocco che fa la differenza è un altro. Metà del brodo «sacrificato» alla cottura della tortella, l’altra metà servita nella calda tazza di supporto, così da poterlo sorbire in purezza, non «intorbidito» dalla pasta o dai frammenti di cottura relativa.Altro «ingrediente» indispensabile è la «canela», sullo Zingarelli italianizzata in mattarello. Un legno liscio di ciliegio che, se ben governato sull’impasto, donava «un disco dorato tondo come la luna e leggero come una carezza», come ben valorizzato da Giovanni Poggi. Canela talmente radicata nella tradizione la cui ecletticità a dimensione familiare è testimoniata da Pulonia, iconica maschera modenese, moglie dell’autorevole Sandrone, contadino furbo e scaltro, ma ligio alle buone regole del focolare. «La casa va avanti con la canela tenuta in cucina», sottolinea Pulonia, «e se il marito è buono gli fate le tagliatelle, se birichino gliela date in testa».Al di là dei dettami di Pulonia, il saper governare bene la canela era la miglior garanzia per le giovani ragazze di diventare brave spose e madri di famiglia. I tortellini hanno diverse modalità di preparazione. «Matti» quando bisognava frenare l’impatto calorico, quindi ripieni di solo pangrattato, oppure a dimensione anfibia, cioè con ripieno di rane, di cui erano ricchi allora i fiumi, cotte ovviamente nel brodo conseguente. Piatto riservato ai convalescenti, in grado di «accontentare l’occhio senza offendere lo stomaco».Con i tortellini avanzati dalle grandi feste seguiva, a Santo Stefano come a Pasquetta, il pasticcio conseguente, non certo un piatto di recupero in quanto necessita di adeguata preparazione, posto che veniva servito per gli ospiti di riguardo, quelli cui si desiderava rendere onore con qualcosa di diverso dai classici tortellini in brodo. L’antologia dei prodotti, frutto del paziente gemellaggio tra canela e rezdora, è ricca anche di altre golose tentazioni. Le tagliatelle non sono tutte eguali. Se tirate grosse e tagliate fini con il coltello, vanno poi servite in brodo. Per godersele asciutte con un buon ragù, invece, vanno tirate sottili e tagliate a banda larga. Ma l’arsenale della brava rezdora modenese disponeva anche di altre armi perigliose per la gola.I maccheroni al pettine hanno una storia lunga. Nelle case di campagna, il pettine era un bastoncino di legno multiuso. Dai padri di famiglia era usato per la tessitura di lino e canapa. In cucina serviva per tirare la pasta con una originale striatura trasversale, utile a trattenere meglio il condimento. Silenziosa tradizione rurale nata per necessità quando Carlo Emanuele III di Savoia, nel 1742 durante l’assedio di Mirandola, si presentò in una modesta locanda locale con un generale austriaco. Non sapendo cosa inventarsi, la rezdora prese in prestito il pettine dalla vicina stalla e si inventò al momento questi originali maccheroni, rigati a contatto con il bastoncino, abbinati a un semplice ragù di innocente galletto sacrificato al volo dal contiguo pollaio. In breve, nelle campagne modenesi, divenne parte del corredo delle brave ragazze da marito, assieme alla canela.Praticamente scomparso con l’arrivo della modernità, venne recuperato negli anni Sessanta dal mirandolese Mario Ferrari che ne avviò una produzione industriale. Affini ai maccheroni pettinati sono quelli al torchio, le cui origini risalgono ad Acquaria, borgo degli Appennini modenesi, Di qui, nel 1511, passò Alfonso d’Este di ritorno da Roma, dove era stato ricevuto da Giulio II. Il duca, accompagnato da Ludovico Ariosto, venne ospitato da una famiglia locale che desiderò offrirgli la loro specialità, ovvero questi maccheroni dall’impasto di macina dura per l’uso di poche uova, così da scendere molto lentamente quando pressata dentro il torchio. Tradizione li vuole serviti con ragù di piccione. Alfonso d’Este si impose d’autorità e se ne fece costruire uno da portare poi nelle sue cucine regali, così da deliziare palati quali quelli di Tiziano Vecellio e Giovanni Bellini. Maccheroni al torchio protagonisti di varie storie, incroci di miseria e nobiltà. Un secolo dopo il passaggio del duca, Acquaria fu preda di una delle tante scorribande di briganti che scorrazzavano tra gli appennini. Furono talmente conquistati da questi maccheroni, serviti con trepidazione dagli spaventati autoctoni, che li esentarono dalle scorribande che svuotavano stalle e cantine, ma a un patto: che, una volta lasciato il borgo, non suonassero le campane per avvertire i borghi vicini della presenza banditesca.Vi sono poi i maltagliati, magistralmente abbinati ai fagioli, da una felice intuizione di Giuditta Fini, moglie di Telesforo, pietra miliare della cucina modenese. Una calamita irresistibile per quella clientela che varcava la soglia di un locale «la cui insegna, dipinta in oro su vetro nero, è come un veliero che naviga incorruttibile» lungo i marosi del tempo. Tale il successo che Telesforo li ribattezzò più nobilmente «alla Ritter», omaggio all’attrice Virginia Ritter che ne era particolarmente golosa. Il segreto? Mangiarli molto tiepidi, «con quel velo sottile in superficie dovuto al lento raffreddarsi del grasso».Ma il lungo e goloso tour pastaiolo modenese non può che tornare alle origini di questa storia, i tortellini. Nel 1960 Giorgio, il figlio di Telesforo e Giuditta, viene chiamato dagli italiani di Providence, negli Usa, per coccolarli con i suoi tortellini. Ma le rigide leggi del tempo non gli permettono di portarseli con sé quindi nasconde nella valigia prosciutto e grana per cinquecento piatti. L’impasto tortello realizzato in loco, con prodotti locali fu un successo tale che, alla fine del convivio, assieme alla sua fidata brigata di cucina, sfila per la città sulle Cadillac , accompagnati dal suono delle fanfare, sfilate di majorettes, onori militari e l’inevitabile pioggia di strisce di carta colorata a decorare il tutto.
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