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2022-02-21
Alla canna del GAS
Ansa
È illusorio riempirsi la bocca con progetti futuribili, come lo sfruttamento massiccio dei nostri giacimenti di metano, o l’incremento delle fonti rinnovabili, che chissà, se e quando potranno essere realizzati. Siamo alla canna del gas, è il caso di dirlo. L’Europa da tempo ha rinunciato a una propria autonomia energetica, in nome della difesa dell’ambiente, ma non potendo fare a meno di alimentare le proprie industrie e non potendosi affidare esclusivamente al vento o al sole, è diventata sempre più dipendente da chi l’energia ha continuato a produrla, senza porsi tante domande sull’impatto ambientale. Così mentre la Ue chiudeva i giacimenti, la Russia si faceva avanti per soddisfare la domanda crescente di elettricità e gas. In Italia questa politica ecologista è stata perseguita in modo demagogico: per soddisfare tutti, alla fine si è arrivati a una sorta di immobilismo. L’espansione delle fonti rinnovabili procede a rilento ma nel frattempo si è rinunciato a sfruttare le risorse sotterranee.
La metà dell’energia elettrica nel nostro Paese si produce con il gas. Un altro 10% viene dal nucleare francese, da noi sempre criticato ma che ci ha fatto comodo. Il 41% del gas di provenienza europea ci è fornito da Mosca che possiede le maggiori riserve conosciute e approvvigiona la Ue da oltre 50 anni. Quest’inverno la Russia ha già tagliato le forniture all’Italia e al resto dell’Europa, fatta eccezione per la Germania. Il calo deciso dal colosso pubblico Gazprom, primo fornitore di gas al nostro Paese, ha coinciso con le tensioni sull’Ucraina determinando l’impennata dei prezzi dell’energia. Secondo Gazprom, il flusso è sceso da dicembre a gennaio del 43% passando da 2,62 miliardi di metri cubi a fine 2021 a 1,5 miliardi a gennaio.
Dal 1° gennaio al 31 dicembre 2021 il nostro Paese ha estratto dai giacimenti nazionali appena 3,34 miliardi di metri cubi di gas, il 18,6% in meno rispetto al 2020 quando c’era già stato un crollo a causa delle restrizioni pandemiche. È il minimo dal 1954. A inizio 2000 le estrazioni ammontavano a 20 miliardi di metri cubi l’anno. Ma al calo non ha corrisposto una diminuzione dei consumi. Bruciamo il 7,2% in più di metano e quindi siamo stati costretti ad aumentare le importazioni: +10%, cioè 72,7 miliardi di metri cubi.
Dove prende il gas l’Italia? Secondo il censimento del ministero della Transizione ecologica, i nostri due fornitori principali di gas sono la Russia (29,06 miliardi di metri cubi) e l’Algeria (21,16). L’Algeria ha quasi raddoppiato il flusso dai 12 miliardi del 2020. Terza fonte, con 7,31 miliardi di metri cubi (+7,5%), è il gas liquefatto estratto in Qatar e sbarcato nel terminale di rigassificazione al largo del delta del Po controllato da Exxon Mobil (70,7%) con Qatar Petroleum (22%) e Snam (7,3%). Nel bilancio energetico 2021 compaiono poi i 7,21 miliardi di metri cubi affluiti dall’Azerbaigian attraverso il Tap, il metanodotto che giunge in Puglia e che il M5s, nella campagna elettorale del 2018, avrebbe voluto cancellare. Altri Paesi fornitori sono la Libia (3 miliardi di metri cubi), l’Olanda e la Norvegia (2 miliardi di metri cubi ciascuna). Dai giacimenti del Mare del Nord il gas raggiunge l’Italia al confine svizzero di Passo Gries, in val d’Ossola, dove c’è l’interconnessione con la rete nazionale di Transitgas.
La rete di trasporto nazionale, gestita dalla società Snam rete gas, è collegata con le linee di importazione dalla Russia, dal Nord Europa e dal Nord Africa attraverso 9 punti di entrata. Questi sono in corrispondenza di sei metanodotti situati a Tarvisio, Gorizia, Passo Gries, Mazara del Vallo, Gela e Melendugno, e di tre rigassificatori di gas naturale liquefatto (Gnl) a Panigaglia, Rovigo e Livorno. Nei rigassificatori arriva il gas trasportato via mare. Rispetto al 2020 le importazioni sono aumentate del 6,8%. Una percentuale che sembra destinata a crescere.
Il prezzo di mercato del gas importato oscilla tra i 50 e i 70 centesimi al metro cubo, 10 volte tanto il costo di estrazione del metano in Italia che si aggira sui 5 centesimi al metro cubo. Secondo il documento Pitesai, il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee introdotto dal governo Conte 1 per lo sfruttamento dei giacimenti nazionali, nel sottosuolo italiano si trovano circa 92 miliardi di metri cubi di gas. Il ministro Roberto Cingolani ha chiarito che per lo sfruttamento non si tratterebbe di piazzare nuove trivelle, ma di sfruttare i giacimenti esistenti, riducendo in questo modo le forniture dall’estero. L’obiettivo è il raddoppio della produzione, arrivando al 10% del fabbisogno nazionale.
I maggiori giacimenti sono sotto l’Adriatico. A 40 chilometri da Venezia ci sono 50 miliardi di metri cubi di gas. Bacini metaniferi sono stati individuati anche a Piacenza, in Basilicata, in Sicilia, nello Jonio. Non si trivella perché prevale l’ambientalismo estremo. Gli ecologisti hanno ventilato il pericolo che le estrazioni nell’Adriatico possano creare fenomeni di subsidenza mettendo a rischio Venezia. Il presidente di Nomisma energia, Davide Tabarelli, ha invece sottolineato che in Italia nei 200 pozzi attivi non si sono mai registrati fenomeni di pericolosità negli ultimi 50 anni. Anche il Pitesai, nonostante contenga numerosi paletti come il divieto di avviare nuove trivellazioni, ha già incontrato l’altolà degli ambientalisti. La prospettiva è che per incrementare le estrazioni ci vorranno anni, se non decenni, tra veti incrociati e crociate ecologiste. Intanto dall’altra parte dell’Adriatico, in Croazia, è stata avviata una strategia che punta a rendere il Paese un hub degli idrocarburi nei Balcani. E uno dei capitoli è proprio la trivellazione dell’Adriatico.
«Le fonti rinnovabili non risolvono nulla. Con il sole e il vento bollette più care»
«Adesso mi aspetto che qualche anima candida si alzi e dica che se l’Italia avesse investito di più nelle fonti rinnovabili, ora non sarebbe alla mercé della Russia e le bollette sarebbero più basse. Ma a costoro, che forse non hanno idea di come funzioni il mercato del metano, rispondo che con le rinnovabili la bolletta sarebbe ancor più alta. Non solo il prezzo dell’elettricità lo farebbe comunque il gas, ma sull’utente verrebbero scaricati i costi degli incentivi per costruire altre pale e altri pannelli». Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito energetico e presidente dell’Istituto Alti studi in geopolitica (Isag) spiega cosa sta accadendo: «L’Italia produce il 47% dell’elettricità con il gas e c’è chi sostiene che se avessimo più rinnovabili oggi pagheremmo meno. Non è così. La Germania copre solo il 12% del fabbisogno con le centrali a gas, ma il prezzo dell’elettricità non si discosta molto da quello italiano».
Come è possibile?
«Possiamo installare tutte le rinnovabili che ci pare, ma senza capacità di accumulo, senza le batterie, il prezzo continuano a farlo i fossili. Nonostante che la Germania produca quasi il 50% dell’elettricità con fonti rinnovabili e quasi il 60% della potenza installata sia rinnovabile, pale e pannelli decidono il prezzo di mercato solo 872 ore l’anno su 8.760. L’energia rinnovabile determina il prezzo dell’elettricità solamente quando è così abbondante da saturare il mercato. Ma questo accade quando la domanda è più bassa: nel Nord Europa, l’eolico funziona bene di notte quando c’è più vento».
Le nostre riserve di gas potrebbero soddisfare il fabbisogno nazionale?
«No. Se sfruttassimo al massimo i giacimenti, copriremmo poco più di un anno. Spalmando le riserve su 5-6 anni, si potrebbe ridurre di un po’ la dipendenza dal gas russo. Quello che si immagina è di mitigare il rischio, non di azzerare le importazioni da Mosca. C’è chi suggerisce il raddoppio del Tap, il gasdotto che viene dall’Arzebaigian ma in questa fase è difficile immaginare progetti di questo genere. Più in generale, il gas non manca ma vuoi per ragioni politiche, penso all’Iran, vuoi per ragioni infrastrutturali, penso al Qatar, non è semplice diversificare il paniere europeo».
Allora come se ne esce?
«Per il momento mettendo a sistema le riserve nazionali e potenziando la produzione di biogas, che è carbon neutral: così potremmo ridurre la dipendenza dall’estero. Ma bisogna prendere la questione molto seriamente. La produzione di biogas prevede una rete diffusa. L’Italia è già un grosso produttore di biometano, circa 2 miliardi di metri cubi l’anno, ma la produzione si concentra in poche regioni. Esportare il modello Lombardia non è semplice».
E ripartire con lo sfruttamento dei giacimenti?
«Ci vogliono anni anche immaginando tempi rapidi per le autorizzazioni. In generale è una strategia che ha un senso ma non nell’ottica di questa crisi: sarebbe in grado di ridurre le importazioni del 25% per meno di 10 anni».
Quanto sarebbe il risparmio?
«Bisogna vedere se le normative Ue permettono all’Italia di fare contratti privilegiati con l’Eni».
Lo sfruttamento dei giacimenti di gas non vanno in direzione opposta alla transizione ecologica?
«Proprio così. A seguito dei due choc petroliferi l’Europa ha reagito diversificando il paniere dei fornitori. Prima il petrolio veniva tutto dal Medio Oriente, poi lo si è andato cercare altrove. Ora si potrebbe fare lo stesso, ma la transizione ecologica impone un percorso diverso. In Olanda una sentenza ha imposto alla Shell il taglio del 45% delle emissioni universali rispetto al 2019 entro il 2030 in ossequio agli accordi sul clima. Se Shell non riesce a ribaltare quel giudizio rischia di chiudere».
Quindi non conviene cercare e sfruttare nuovi giacimenti di gas.
«Persino in Namibia un tribunale ha bloccato le esplorazioni petrolifere. Bisogna poi considerare che le banche hanno alzato i tassi dei finanziamenti per le esplorazioni di giacimenti del gas perché considerate a rischio di blocco. Gli investimenti sono ai minimi storici, meno del 50% di quelli effettuati nel 2014, a fronte di una domanda di gas notevolmente più alta. A parte il 2020, la domanda di gas aumenta tutti gli anni. La strategia schizofrenica della transizione ecologica rischia di paralizzare l’economia mondiale. Voglio proprio vedere che cosa farà la Germania dopo che avrà chiuso le centrali a carbone».
In che misura il gas è fondamentale per produrre energia elettrica?
«In Europa l’elettricità si produce con le “vecchie” fonti rinnovabili, cioè le centrali idroelettriche e a biomassa, che coprono tra il 5 e il 20% del fabbisogno; con le nuove rinnovabili, ovvero eolico e fotovoltaico, che fanno il 10-20% del paniere elettrico; poi c’è un po’ di nucleare. Il resto viene tutto dal gas e dal carbone, che compongono oltre il 50% del paniere elettrico di tutti gli Stati europei».
L’Italia è stata pioniere nella conversione dal carbone al gas ma ora siamo penalizzati.
«Abbiamo le centrali più moderne ed efficienti. I tedeschi hanno previsto un passaggio dai fossili alle rinnovabili senza step intermedi e hanno convinto il mondo che questa è la strada giusta. Così si moltiplicano i messaggi che la vera svolta sono l’eolico e il fotovoltaico. Ma se anche avessimo installato tanti impianti di rinnovabili, il prezzo lo farebbe comunque il gas. E sapete perché? Il sistema elettrico deve avere una fonte flessibile al suo interno per rispondere alla fluttuazione della domanda. Le rinnovabili non sono modulabili a nostro piacimento ma dipendono dal meteo, dal vento e dal sole, e devono essere sempre affiancate da una fonte fossile».
«Deve partire il Nord Stream 2 ma i verdi in Germania dicono no»
«Se anche avessimo a disposizione 10 milioni di metri cubi l’anno di gas da estrazione dei giacimenti nazionali, non risolveremmo il problema. I prezzi si decidono livello internazionale, in Germania, dove, al confine con l’Olanda, c’è un sistema di tubi di gas, un’interconnessione, hub, dove si formano i prezzi Ttf (title of transfer facility, ndr). L’Italia è dipendente per il 96% dei suoi consumi di gas dall’estero e ridurre del 10% questa quota non fa la differenza». È lo scenario che delinea Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia.
Quali sono i nostri principali fornitori di gas?
«L’Italia consuma 76 miliardi di metri cubi di gas l’anno, pari al 37% del totale dei consumi di energia del Paese. È la prima fonte, più ancora anche del petrolio. Il 40% di questo gas viene dalla Russia, il 27% dall’Algeria, il 10% ciascuno da Azerbaigian e Qatar, il resto da Libia, Norvegia e Olanda. Il 96% del fabbisogno viene dall’estero. Solo 3,3 miliardi di metri cubi sono estratti dal sottosuolo nazionale. Qualora fossimo in grado di raddoppiare la produzione, la situazione non cambierebbe in modo sostanziale. Inoltre, ci sono enormi difficoltà ad aumentare l’estrazione. Non è chiaro dove si può fare e dove è vietato».
Come giudica il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai) approvato dal ministero della Transizione ecologica?
«Con queste regole ci vorranno anni, se non decenni, per produrre più gas in Italia: ce lo dimostra l’esperienza degli ultimi 20-30 anni. Anche se tecnicamente un raddoppio dell’estrazione da 3 a 6 miliardi di metri cubi sarebbe possibile in un anno. Nel 2021 la produzione nazionale di gas ha raggiunto il minimo dal 1954 a 3 miliardi di metri cubi. Il picco è stato toccato nel 1991 con 21 miliardi di metri cubi e potrebbe oggi facilmente arrivare a 10 miliardi di metri cubi in più all’anno. Bloccando l’estrazione, in dieci anni abbiamo lasciato sotto terra qualcosa come 80 miliardi di euro».
Quale è la soluzione a breve termine?
«Bisogna far partire il Nord Stream 2, portato avanti dall’ex cancelliera tedesca Angela Merkel e bloccato dal nuovo governo di Berlino dove il ministro degli Esteri è la leader verde Annalena Baerbock. Bruxelles dovrebbe intervenire e proporre ai Paesi un allentamento dei vincoli ambientali sulle emissioni di CO2, per consentire il consumo di combustibili fossili diversi dal gas, in particolare il carbone. È assurdo che il Nord Steam 2 sia ancora chiuso. Gli Usa sono interessati alla stabilità in Europa e se noi andiamo in crisi economica, con il secondo maggiore debito del mondo, è un problema anche per gli Usa. Certo, ovvio che occorre diversificare le fonti e andare a prendere il gas altrove, per esempio dall’Egitto».
L’Italia sarà mai indipendente da un punto di vista energetico?
«In questi anni abbiamo sprecato tanto, potevamo estrarre il gas che abbiamo sotto i piedi, mentre l’abbiamo data vinta agli ambientalisti. Questi sono veri delitti economici. L’Italia non riuscirà a essere indipendente dall’approvvigionamento dall’estero. Le fonti rinnovabili non bastano. Il problema è che affidiamo la politica energetica ai sindaci e agli enti locali. E poi facciamo poco stoccaggio. Quando questa crisi sarà finita, serviranno negoziati diversi anche con la Russia, per capire perché non ha fatto niente per calmierare i prezzi lo scorso inverno. Sarebbe auspicabile avere anche un mercato spot tutto italiano, un sogno tutto italiano che dobbiamo ancora rincorrere. Ma una vera alternativa energetica non esiste nel breve termine. O meglio, al momento l’unica soluzione è consumare meno, ma questa non è efficienza, è povertà».
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Metà dell’elettricità che serve all’Italia si ottiene dal metano. Che per il 95,5% viene importato, a prezzi non decisi da noi. Contro l’aumento della produzione interna si battono sindaci e ambientalisti. E la transizione ecologica peggiora la situazione.«Le fonti rinnovabili non risolvono nulla. Con il sole e il vento bollette più care». Il ricercatore Enrico Mariutti: «Gli incentivi ricadrebbero sugli utenti e senza accumulatori i valori rimangono decisi dai combustibili fossili». «Deve partire il Nord Stream 2 ma i verdi in Germania dicono no». Il presidente di Nomisma energia Davide Tabarelli: «Assurdo che il collegamento sia ancora chiuso».Lo speciale comprende tre articoli. È illusorio riempirsi la bocca con progetti futuribili, come lo sfruttamento massiccio dei nostri giacimenti di metano, o l’incremento delle fonti rinnovabili, che chissà, se e quando potranno essere realizzati. Siamo alla canna del gas, è il caso di dirlo. L’Europa da tempo ha rinunciato a una propria autonomia energetica, in nome della difesa dell’ambiente, ma non potendo fare a meno di alimentare le proprie industrie e non potendosi affidare esclusivamente al vento o al sole, è diventata sempre più dipendente da chi l’energia ha continuato a produrla, senza porsi tante domande sull’impatto ambientale. Così mentre la Ue chiudeva i giacimenti, la Russia si faceva avanti per soddisfare la domanda crescente di elettricità e gas. In Italia questa politica ecologista è stata perseguita in modo demagogico: per soddisfare tutti, alla fine si è arrivati a una sorta di immobilismo. L’espansione delle fonti rinnovabili procede a rilento ma nel frattempo si è rinunciato a sfruttare le risorse sotterranee.La metà dell’energia elettrica nel nostro Paese si produce con il gas. Un altro 10% viene dal nucleare francese, da noi sempre criticato ma che ci ha fatto comodo. Il 41% del gas di provenienza europea ci è fornito da Mosca che possiede le maggiori riserve conosciute e approvvigiona la Ue da oltre 50 anni. Quest’inverno la Russia ha già tagliato le forniture all’Italia e al resto dell’Europa, fatta eccezione per la Germania. Il calo deciso dal colosso pubblico Gazprom, primo fornitore di gas al nostro Paese, ha coinciso con le tensioni sull’Ucraina determinando l’impennata dei prezzi dell’energia. Secondo Gazprom, il flusso è sceso da dicembre a gennaio del 43% passando da 2,62 miliardi di metri cubi a fine 2021 a 1,5 miliardi a gennaio.Dal 1° gennaio al 31 dicembre 2021 il nostro Paese ha estratto dai giacimenti nazionali appena 3,34 miliardi di metri cubi di gas, il 18,6% in meno rispetto al 2020 quando c’era già stato un crollo a causa delle restrizioni pandemiche. È il minimo dal 1954. A inizio 2000 le estrazioni ammontavano a 20 miliardi di metri cubi l’anno. Ma al calo non ha corrisposto una diminuzione dei consumi. Bruciamo il 7,2% in più di metano e quindi siamo stati costretti ad aumentare le importazioni: +10%, cioè 72,7 miliardi di metri cubi.Dove prende il gas l’Italia? Secondo il censimento del ministero della Transizione ecologica, i nostri due fornitori principali di gas sono la Russia (29,06 miliardi di metri cubi) e l’Algeria (21,16). L’Algeria ha quasi raddoppiato il flusso dai 12 miliardi del 2020. Terza fonte, con 7,31 miliardi di metri cubi (+7,5%), è il gas liquefatto estratto in Qatar e sbarcato nel terminale di rigassificazione al largo del delta del Po controllato da Exxon Mobil (70,7%) con Qatar Petroleum (22%) e Snam (7,3%). Nel bilancio energetico 2021 compaiono poi i 7,21 miliardi di metri cubi affluiti dall’Azerbaigian attraverso il Tap, il metanodotto che giunge in Puglia e che il M5s, nella campagna elettorale del 2018, avrebbe voluto cancellare. Altri Paesi fornitori sono la Libia (3 miliardi di metri cubi), l’Olanda e la Norvegia (2 miliardi di metri cubi ciascuna). Dai giacimenti del Mare del Nord il gas raggiunge l’Italia al confine svizzero di Passo Gries, in val d’Ossola, dove c’è l’interconnessione con la rete nazionale di Transitgas.La rete di trasporto nazionale, gestita dalla società Snam rete gas, è collegata con le linee di importazione dalla Russia, dal Nord Europa e dal Nord Africa attraverso 9 punti di entrata. Questi sono in corrispondenza di sei metanodotti situati a Tarvisio, Gorizia, Passo Gries, Mazara del Vallo, Gela e Melendugno, e di tre rigassificatori di gas naturale liquefatto (Gnl) a Panigaglia, Rovigo e Livorno. Nei rigassificatori arriva il gas trasportato via mare. Rispetto al 2020 le importazioni sono aumentate del 6,8%. Una percentuale che sembra destinata a crescere.Il prezzo di mercato del gas importato oscilla tra i 50 e i 70 centesimi al metro cubo, 10 volte tanto il costo di estrazione del metano in Italia che si aggira sui 5 centesimi al metro cubo. Secondo il documento Pitesai, il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee introdotto dal governo Conte 1 per lo sfruttamento dei giacimenti nazionali, nel sottosuolo italiano si trovano circa 92 miliardi di metri cubi di gas. Il ministro Roberto Cingolani ha chiarito che per lo sfruttamento non si tratterebbe di piazzare nuove trivelle, ma di sfruttare i giacimenti esistenti, riducendo in questo modo le forniture dall’estero. L’obiettivo è il raddoppio della produzione, arrivando al 10% del fabbisogno nazionale. I maggiori giacimenti sono sotto l’Adriatico. A 40 chilometri da Venezia ci sono 50 miliardi di metri cubi di gas. Bacini metaniferi sono stati individuati anche a Piacenza, in Basilicata, in Sicilia, nello Jonio. Non si trivella perché prevale l’ambientalismo estremo. Gli ecologisti hanno ventilato il pericolo che le estrazioni nell’Adriatico possano creare fenomeni di subsidenza mettendo a rischio Venezia. Il presidente di Nomisma energia, Davide Tabarelli, ha invece sottolineato che in Italia nei 200 pozzi attivi non si sono mai registrati fenomeni di pericolosità negli ultimi 50 anni. Anche il Pitesai, nonostante contenga numerosi paletti come il divieto di avviare nuove trivellazioni, ha già incontrato l’altolà degli ambientalisti. La prospettiva è che per incrementare le estrazioni ci vorranno anni, se non decenni, tra veti incrociati e crociate ecologiste. Intanto dall’altra parte dell’Adriatico, in Croazia, è stata avviata una strategia che punta a rendere il Paese un hub degli idrocarburi nei Balcani. 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Non solo il prezzo dell’elettricità lo farebbe comunque il gas, ma sull’utente verrebbero scaricati i costi degli incentivi per costruire altre pale e altri pannelli». Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito energetico e presidente dell’Istituto Alti studi in geopolitica (Isag) spiega cosa sta accadendo: «L’Italia produce il 47% dell’elettricità con il gas e c’è chi sostiene che se avessimo più rinnovabili oggi pagheremmo meno. Non è così. La Germania copre solo il 12% del fabbisogno con le centrali a gas, ma il prezzo dell’elettricità non si discosta molto da quello italiano». Come è possibile? «Possiamo installare tutte le rinnovabili che ci pare, ma senza capacità di accumulo, senza le batterie, il prezzo continuano a farlo i fossili. Nonostante che la Germania produca quasi il 50% dell’elettricità con fonti rinnovabili e quasi il 60% della potenza installata sia rinnovabile, pale e pannelli decidono il prezzo di mercato solo 872 ore l’anno su 8.760. L’energia rinnovabile determina il prezzo dell’elettricità solamente quando è così abbondante da saturare il mercato. Ma questo accade quando la domanda è più bassa: nel Nord Europa, l’eolico funziona bene di notte quando c’è più vento». Le nostre riserve di gas potrebbero soddisfare il fabbisogno nazionale? «No. Se sfruttassimo al massimo i giacimenti, copriremmo poco più di un anno. Spalmando le riserve su 5-6 anni, si potrebbe ridurre di un po’ la dipendenza dal gas russo. Quello che si immagina è di mitigare il rischio, non di azzerare le importazioni da Mosca. C’è chi suggerisce il raddoppio del Tap, il gasdotto che viene dall’Arzebaigian ma in questa fase è difficile immaginare progetti di questo genere. Più in generale, il gas non manca ma vuoi per ragioni politiche, penso all’Iran, vuoi per ragioni infrastrutturali, penso al Qatar, non è semplice diversificare il paniere europeo». Allora come se ne esce? «Per il momento mettendo a sistema le riserve nazionali e potenziando la produzione di biogas, che è carbon neutral: così potremmo ridurre la dipendenza dall’estero. Ma bisogna prendere la questione molto seriamente. La produzione di biogas prevede una rete diffusa. L’Italia è già un grosso produttore di biometano, circa 2 miliardi di metri cubi l’anno, ma la produzione si concentra in poche regioni. Esportare il modello Lombardia non è semplice». E ripartire con lo sfruttamento dei giacimenti? «Ci vogliono anni anche immaginando tempi rapidi per le autorizzazioni. In generale è una strategia che ha un senso ma non nell’ottica di questa crisi: sarebbe in grado di ridurre le importazioni del 25% per meno di 10 anni». Quanto sarebbe il risparmio? «Bisogna vedere se le normative Ue permettono all’Italia di fare contratti privilegiati con l’Eni». Lo sfruttamento dei giacimenti di gas non vanno in direzione opposta alla transizione ecologica? «Proprio così. A seguito dei due choc petroliferi l’Europa ha reagito diversificando il paniere dei fornitori. Prima il petrolio veniva tutto dal Medio Oriente, poi lo si è andato cercare altrove. Ora si potrebbe fare lo stesso, ma la transizione ecologica impone un percorso diverso. In Olanda una sentenza ha imposto alla Shell il taglio del 45% delle emissioni universali rispetto al 2019 entro il 2030 in ossequio agli accordi sul clima. Se Shell non riesce a ribaltare quel giudizio rischia di chiudere». Quindi non conviene cercare e sfruttare nuovi giacimenti di gas. «Persino in Namibia un tribunale ha bloccato le esplorazioni petrolifere. Bisogna poi considerare che le banche hanno alzato i tassi dei finanziamenti per le esplorazioni di giacimenti del gas perché considerate a rischio di blocco. Gli investimenti sono ai minimi storici, meno del 50% di quelli effettuati nel 2014, a fronte di una domanda di gas notevolmente più alta. A parte il 2020, la domanda di gas aumenta tutti gli anni. La strategia schizofrenica della transizione ecologica rischia di paralizzare l’economia mondiale. Voglio proprio vedere che cosa farà la Germania dopo che avrà chiuso le centrali a carbone». In che misura il gas è fondamentale per produrre energia elettrica? «In Europa l’elettricità si produce con le “vecchie” fonti rinnovabili, cioè le centrali idroelettriche e a biomassa, che coprono tra il 5 e il 20% del fabbisogno; con le nuove rinnovabili, ovvero eolico e fotovoltaico, che fanno il 10-20% del paniere elettrico; poi c’è un po’ di nucleare. Il resto viene tutto dal gas e dal carbone, che compongono oltre il 50% del paniere elettrico di tutti gli Stati europei». L’Italia è stata pioniere nella conversione dal carbone al gas ma ora siamo penalizzati. «Abbiamo le centrali più moderne ed efficienti. I tedeschi hanno previsto un passaggio dai fossili alle rinnovabili senza step intermedi e hanno convinto il mondo che questa è la strada giusta. Così si moltiplicano i messaggi che la vera svolta sono l’eolico e il fotovoltaico. Ma se anche avessimo installato tanti impianti di rinnovabili, il prezzo lo farebbe comunque il gas. E sapete perché? Il sistema elettrico deve avere una fonte flessibile al suo interno per rispondere alla fluttuazione della domanda. Le rinnovabili non sono modulabili a nostro piacimento ma dipendono dal meteo, dal vento e dal sole, e devono essere sempre affiancate da una fonte fossile». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/alla-canna-del-gas-2656749236.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="deve-partire-il-nord-stream-2-ma-i-verdi-in-germania-dicono-no" data-post-id="2656749236" data-published-at="1645391013" data-use-pagination="False"> «Deve partire il Nord Stream 2 ma i verdi in Germania dicono no» «Se anche avessimo a disposizione 10 milioni di metri cubi l’anno di gas da estrazione dei giacimenti nazionali, non risolveremmo il problema. I prezzi si decidono livello internazionale, in Germania, dove, al confine con l’Olanda, c’è un sistema di tubi di gas, un’interconnessione, hub, dove si formano i prezzi Ttf (title of transfer facility, ndr). L’Italia è dipendente per il 96% dei suoi consumi di gas dall’estero e ridurre del 10% questa quota non fa la differenza». È lo scenario che delinea Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia. Quali sono i nostri principali fornitori di gas? «L’Italia consuma 76 miliardi di metri cubi di gas l’anno, pari al 37% del totale dei consumi di energia del Paese. È la prima fonte, più ancora anche del petrolio. Il 40% di questo gas viene dalla Russia, il 27% dall’Algeria, il 10% ciascuno da Azerbaigian e Qatar, il resto da Libia, Norvegia e Olanda. Il 96% del fabbisogno viene dall’estero. Solo 3,3 miliardi di metri cubi sono estratti dal sottosuolo nazionale. Qualora fossimo in grado di raddoppiare la produzione, la situazione non cambierebbe in modo sostanziale. Inoltre, ci sono enormi difficoltà ad aumentare l’estrazione. Non è chiaro dove si può fare e dove è vietato». Come giudica il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai) approvato dal ministero della Transizione ecologica? «Con queste regole ci vorranno anni, se non decenni, per produrre più gas in Italia: ce lo dimostra l’esperienza degli ultimi 20-30 anni. Anche se tecnicamente un raddoppio dell’estrazione da 3 a 6 miliardi di metri cubi sarebbe possibile in un anno. Nel 2021 la produzione nazionale di gas ha raggiunto il minimo dal 1954 a 3 miliardi di metri cubi. Il picco è stato toccato nel 1991 con 21 miliardi di metri cubi e potrebbe oggi facilmente arrivare a 10 miliardi di metri cubi in più all’anno. Bloccando l’estrazione, in dieci anni abbiamo lasciato sotto terra qualcosa come 80 miliardi di euro». Quale è la soluzione a breve termine? «Bisogna far partire il Nord Stream 2, portato avanti dall’ex cancelliera tedesca Angela Merkel e bloccato dal nuovo governo di Berlino dove il ministro degli Esteri è la leader verde Annalena Baerbock. Bruxelles dovrebbe intervenire e proporre ai Paesi un allentamento dei vincoli ambientali sulle emissioni di CO2, per consentire il consumo di combustibili fossili diversi dal gas, in particolare il carbone. È assurdo che il Nord Steam 2 sia ancora chiuso. Gli Usa sono interessati alla stabilità in Europa e se noi andiamo in crisi economica, con il secondo maggiore debito del mondo, è un problema anche per gli Usa. Certo, ovvio che occorre diversificare le fonti e andare a prendere il gas altrove, per esempio dall’Egitto». L’Italia sarà mai indipendente da un punto di vista energetico? «In questi anni abbiamo sprecato tanto, potevamo estrarre il gas che abbiamo sotto i piedi, mentre l’abbiamo data vinta agli ambientalisti. Questi sono veri delitti economici. L’Italia non riuscirà a essere indipendente dall’approvvigionamento dall’estero. Le fonti rinnovabili non bastano. Il problema è che affidiamo la politica energetica ai sindaci e agli enti locali. E poi facciamo poco stoccaggio. Quando questa crisi sarà finita, serviranno negoziati diversi anche con la Russia, per capire perché non ha fatto niente per calmierare i prezzi lo scorso inverno. Sarebbe auspicabile avere anche un mercato spot tutto italiano, un sogno tutto italiano che dobbiamo ancora rincorrere. Ma una vera alternativa energetica non esiste nel breve termine. O meglio, al momento l’unica soluzione è consumare meno, ma questa non è efficienza, è povertà».
Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 17 dicembre con Flaminia Camilletti
Ansa
«La polizia aveva l’incarico di essere presente durante il festival», ha spiegato Minns a Sky News Australia. «Da quanto mi risulta, c’erano due agenti nel parco all’inizio della sparatoria. Altri erano nelle vicinanze e un’auto è arrivata poco dopo». Parole che hanno alimentato ulteriormente le polemiche: come si può ritenere adeguata una simile presenza in un contesto di allerta elevata e con un pubblico così numeroso?
Con il passare delle ore, intanto, emergono nuovi elementi sul profilo degli attentatori, Sajid Akram, 50 anni, e suo figlio Naveed, 24. I due hanno aperto il fuoco durante la celebrazione di Hanukkah, colpendo indiscriminatamente i presenti prima di essere neutralizzati: Sajid è morto durante l’azione, mentre Naveed è rimasto gravemente ferito, è sopravvissuto e ieri si è svegliato dal coma. Lontani dall’immagine stereotipata del terrorista clandestino, i due conducevano una vita apparentemente ordinaria. Sajid Akram gestiva un piccolo esercizio di frutta e verdura, mentre Naveed lavorava come operaio fino a pochi mesi fa e, già nel 2019, era finito sotto osservazione delle forze dell’ordine per frequentazioni con ambienti radicalizzati legati a una moschea estremista di Sydney, gravitanti attorno alla figura di Isaak El Matari, jihadista australiano noto agli apparati di sicurezza. Una svolta delle indagini è arrivata ieri quando fonti dell’antiterrorismo hanno riferito all’Abc che Naveed Akram è un seguace di Wisam Haddad, predicatore salafita ferocemente antisemita di Sydney apertamente schierato su posizioni pro Isis, del quale vi abbiamo parlato ieri. Haddad, attraverso i suoi legali, ha immediatamente respinto ogni accusa di coinvolgimento diretto nell’attacco.
Sul fronte internazionale, Nuova Delhi ha fatto sapere che Sajid Akram era nato a Hyderabad ed era arrivato in Australia nel 1998 con un visto per motivi di studio. Pur avendo fatto ritorno in India solo poche volte, aveva mantenuto la cittadinanza indiana. Naveed, invece, nato a Sydney nel 2001, è cittadino australiano. Secondo le autorità indiane, Sajid non avrebbe più intrattenuto rapporti con il Paese d’origine. Un altro tassello chiave riguarda il recente viaggio dei due uomini nelle Filippine. Le autorità australiane hanno confermato che padre e figlio hanno trascorso l’intero mese di novembre a Mindanao, indicando come meta finale la città di Davao. Sono rientrati il 28 novembre via Manila, prima di fare ritorno a Sydney. Mindanao è da decenni teatro di insurrezioni armate e ospita gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e, in misura minore, allo Stato Islamico. «Le ragioni del viaggio e le attività svolte restano oggetto di indagine», ha precisato il commissario di polizia del New South Wales, Mal Lanyon.
La mattina dell’attacco, i due avrebbero detto ai familiari di voler andare a pescare. In realtà si sono diretti in un appartamento preso in affitto, dove avevano accumulato armi acquistate legalmente e ordigni artigianali, poi disinnescati dagli artificieri.
Il premier australiano, Antony Albanese, ha attribuito il movente all’ideologia dello Stato Islamico, citando il ritrovamento di bandiere dell’Isis. Eppure, a differenza di altri attentati, l’organizzazione jihadista non ha rivendicato l’azione. Contrariamente a quanto si tende a credere lo Stato islamico non è una sigla simbolica aperta a chiunque decida di agire in suo nome. È - e continua a essere, nonostante la perdita del controllo territoriale in Siria e Iraq - un’organizzazione strutturata, dotata di una rigida catena di comando, di regole operative precise e di una dottrina definita sulla legittimità delle azioni armate. Proprio per questo motivo l’Isis non rivendica mai attentati compiuti da singoli individui non inseriti in una rete riconosciuta.
Sempre ieri è stato diffuso un video registrato da una dashcam, trasmesso da 7News, che mostra una violenta colluttazione tra Sajid Akram e un uomo in maglietta viola nei pressi di un ponte pedonale, poco prima dell’inizio della sparatoria. L’uomo e la donna presenti nella scena sono stati identificati come Boris e Sofia Gurman, coppia ebreo-russa residente a Bondi. Boris, 69 anni, e Sofia, 61, sono stati i primi a perdere la vita. Il loro tentativo disperato di fermare gli attentatori avrebbe però rallentato l’azione, contribuendo a salvare altre vite. Un dettaglio che restituisce tutta la drammaticità di una tragedia segnata dalle incredibili falle nella sicurezza.
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Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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