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2020-06-29
Ecco chi vuole svendere l’Italia
Un po' di propensione alla svendita del Paese, un po' di autorazzismo, un po' di retorica del vincolo esterno, e forse un po' di desiderio di proporsi al sovrano straniero come viceré, come funzionari delegati alla gestione della «provincia» italiana.
Si pensi al Mes. Non dispiaccia a Federico Fubini, prima firma del Corriere, che ieri ha provato a garantire che non ci sarebbero altri vincoli, controlli, condizioni. Ah sì? Peccato che basti farsi un giro sul sito www.esm.europa.eu per scoprire che i Paesi richiedenti saranno sottoposti a enhanced surveillance (sorveglianza rafforzata). Peccato che sia fissato l'early warning system, per monitorare la capacità del Paese di ripagare il prestito. E peccato soprattutto che restino vivi il Trattato Mes e il Regolamento 472 del 2013 che nessuno ha abrogato né modificato: dunque, chiacchiere a parte, nulla vieta che in futuro possano essere imposte «misure correttive», magari quando a Palazzo Chigi ci sarà un governo sgradito all'Ue. Controprova? Se questo Mes è così sexy, come mai la Francia non lo vuole, la Spagna non lo vuole, il Portogallo non lo vuole, la Grecia non lo vuole?
Dicono gli eurolirici: ma è Angela Merkel che ce lo consiglia. Resta da capire se questa Merkel sia un'omonima della Merkel che dichiarò la morte politica di un governo italiano legittimamente scelto dagli elettori scambiandosi risatine sarcastiche insieme a Nicolas Sarkozy. Tocca dunque a lei, o tocca comunque a un leader straniero decidere cosa l'Italia debba fare? Attendiamo fiduciosi che ci si indichi l'articolo della Costituzione che fissa questa regola.
La realtà è che l'approccio del mainstream politico e mediatico italiano all'Ue è ormai dogmatico, religioso, non più fattuale né razionale: un catechismo, una materia di culto. E invece l'Ue è un'arena politica dura e difficile, dove - come in ogni consesso umano e in ogni epoca storica - c'è chi cerca di imporre agli altri la propria agenda e i propri interessi. Ha certamente senso stare in quell'arena, ma senza sudditanza e senza umiliarsi.
A meno che (ecco l'autorazzismo) non ci sia una valutazione che non si ha il coraggio di esplicitare. Per alcuni politici e osservatori, gli italiani vanno rieducati attraverso la frusta del vincolo esterno: occorre cioè che qualcuno - da Bruxelles - ci insegni la durezza del vivere, a suon di tasse e tagli. Per carità: non c'è alcun dubbio sul fatto che, nei decenni, tanti disastri siano stati compiuti dai governi italiani. Ma questa non è una buona ragione per farci commissariare da una Troika reale, o da un surrogato italico della Troika, una specie di auto Troika.
In questa operazione di svendita della sovranità nazionale, da qualche tempo c'è una new entry, e cioè la Cina. Se n'è avuto il riscontro definitivo attraverso l'atteggiamento assolutorio che autorità politiche ed «esperti» hanno avuto verso Pechino in tutta la vicenda del coronavirus. E c'è ancora chi cerca colpevoli altrove. Ieri, intervistato su Repubblica, ha provveduto l'ineffabile Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute. Il titolo sembrava incoraggiante: «Ok riaprire, ma non a chi ha lasciato propagare l'epidemia». Il lettore avrà pensato: «Beh, finalmente ce l'ha con il regime comunista di Xi Jinping». E invece no, ecco l'ultima arrampicata di Ricciardi per dire che è sempre colpa di Donald Trump: «La Cina ha fatto una strategia di contenimento, mentre gli Usa hanno lasciato dilagare l'epidemia». Ma, presa la rincorsa, Ricciardi non si ferma più e certifica come credibili i dati cinesi: «La Cina in questo momento non avrebbe nessun interesse a truccare i dati». Ma guarda: il Paese che tutti giudicano colpevole della pandemia, secondo Ricciardi, non avrebbe interesse a tentare di ridimensionare le sue responsabilità. In che mani siamo…
Il «Corriere» rilancia la campagna suicida a favore dei soldi Mes
«Penso al Mes senza condizionalità», dice Nicola Zingaretti. Ecco, bravo, pensaci, verrebbe da rispondergli perché quella roba lì non esiste. Fare propaganda e finire di crederci è tutto un attimo, avrebbe cantato Anna Oxa. «Gli Stati membri la cui moneta è l'euro possono istituire un meccanismo di stabilità (il Mes appunto, ndr)», recita il comma 3 dell'articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell'Ue, che chiude: «La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell'ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità».
Mentre Giuseppe Conte prova a ridire no al Mes dopo una lunga altalena, ieri è Federico Fubini sul Corriere a difendere il Mes. Obiettare che «“i trattati non sono cambiati" è l'argomento dei più disinformati, che non sanno più cosa inventarsi per difendere una posizione precostituita». E qui andrebbero conosciuti non solo i trattati ma pure il regolamento 472 del 2013 che disciplina l'operatività del Mes. Il titolo parla da solo: «Rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri nella zona euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria».
La premessa recita che gli Stati che chiedono di essere assistiti dal Mes sono sottoposti alla sorveglianza rafforzata, tipo Grecia. Comunque sia, lo Stato che ricorre al Mes informa l'«Eurogruppo, il commissario per gli affari economici e monetari e la Bce» mentre la Commissione valuterà «la sostenibilità del debito pubblico». Cosa peraltro già fatta, come sottolinea Fubini. L'articolo più controverso del regolamento è però il settimo, sui programmi di aggiustamento macroeconomico. Esso prescrive che tali piani dipendano sempre dalla solita analisi di sostenibilità del debito. Se questo venisse successivamente dichiarato non sostenibile, i famigerati programmi sarebbero pronti a ripartire. Invece l'articolo 14 stabilisce come uno Stato membro può essere soggetto a «sorveglianza post-programma finché non avrà rimborsato almeno il 75% del debito contratto con il Mes».
In pratica il Paese sorvegliato deve sottostare a periodiche valutazioni di Commissione, Bce e Fmi (la Troika) che potrebbero imporre «misure correttive». La stessa Commissione, per mano di Gentiloni, ha ribadito il concetto lo scorso 8 maggio: «Gli Stati membri dell'area dell'euro rimarranno impegnati a rafforzare i fondamenti economici e finanziari, coerentemente con i quadri di coordinamento e sorveglianza economica e fiscale dell'Ue». La premessa 13 del Trattato istitutivo del Mes, del resto, precisa come i suoi crediti «fruiranno dello status di creditore privilegiato» con ciò trasformando tutti i Btp in circolazione in subordinati. Avete presente Banca Etruria? Ecco, quella roba li.
Ma alla fine, ecco citato un caso di successo. Cipro - che nel 2012 ha subìto il taglio dei depositi bancari grazie anche all'intervento del Mes - sta ipotizzando di ricorrervi ancora. «Subito il costo del suo debito è sceso, perché ciò ha rassicurato gli investitori» sottolinea Fubini. Peccato che Cipro abbia un debito pubblico complessivo di 21 miliardi. Meno dell'ultima emissione del solo Btp Italia. Di questi, 16 miliardi sono già privilegiati (cioè in caso di default vengono pagati prima perché sono appunto quelli del Mes) o in caso di uscita dall'euro non potrebbero essere ridenominati in nuova moneta.
E l’editore Cairo licenzia il giornalista non asservito all’Ue
Tira aria di burrasca al Corriere della Sera. Secondo Senza Bavaglio, l'editore della testata, Urbano Cairo, ha interrotto senza preavviso il rapporto di lavoro con Ivo Caizzi, corrispondente da Bruxelles da trent'anni per il quotidiano alla cui direzione, tra l'altro, il giornalista si era candidato senza successo nel 2015. Il siluramento - avallato dal direttore Luciano Fontana - sarebbe avvenuto senza la consultazione della rappresentanza sindacale e senza apparenti motivazioni (sebbene il governo abbia bloccato i licenziamenti senza giusta causa fino ad agosto). In tutto questo, Caizzi avrebbe ricevuto la comunicazione dell'estromissione mentre si trovava chiuso in casa a Bruxelles, a causa del lockdown. Il Comitato di redazione sosterrà il collega, in quanto il suo licenziamento non avrebbe avuto luogo «nell'ambito delle comuni facoltà previste dall'ordinamento legislativo».
L'aspetto forse più curioso di questa vicenda risiede nella fretta con cui Cairo ha scelto di risolvere il rapporto di lavoro. Non soltanto perché nel 2015 - come riportò Linkiesta - aveva orgogliosamente affermato di aver tagliato gli sprechi a La 7 senza aver licenziato nessuno. Ma anche perché aveva sul tavolo soluzioni meno traumatiche. L'editore avrebbe potuto attendere la scadenza del contratto da corrispondente per poi non rinnovarlo. E il giornalista non sarebbe lontano dalla pensione.
Eppure Cairo ha optato per una drastica rapidità. A voler pensar male, si potrebbe ritenere che l'editore abbia tenuto conto dei (relativamente) recenti attriti, consumatisi tra Caizzi e i vertici della redazione. A fine dicembre 2018, il corrispondente aveva inviato una lettera al Cdr molto dura verso Fontana e - indirettamente - il vicedirettore Federico Fubini. Nella missiva - pubblicata dalla Verità all'inizio del gennaio successivo - Caizzi chiedeva «di verificare e valutare il comportamento del direttore nella copertura della trattativa tra Unione europea e Italia sulla manovra di bilancio 2019». La ragione del contendere risiedeva principalmente nella prima pagina del primo novembre 2018, in cui il Corriere aveva parlato di una «procedura d'infrazione» europea contro l'Italia: una procedura bollata da Caizzi come «inesistente». Egli chiedeva di verificare «se il comportamento del direttore Fontana sia stato corretto», «se si può aprire la prima pagina del Corriere con “una notizia che non c'è" del genere», «se il direttore non debba limitarsi a imporre la sua linea attraverso editoriali, opinioni e commenti», «se l'attendibilità del Corriere non vada difesa meglio, almeno per ridurre le perdite di copie».
La questione investiva anche Fubini che dell'articolo del 1° novembre era l'autore. Come riferì Prima comunicazione, «Fubini non viene mai citato nella mail al Cdr, ma Caizzi mette in evidenza un suo articolo del 7 novembre in cui si nega una possibile soluzione di compromesso sul bilancio del governo Conte, smentendo quanto scritto nei giorni precedenti dallo stesso Caizzi». Gli articoli contestati riguardavano le trattative che - nell'autunno 2018 - l'allora governo italiano M5s-Lega) aveva condotto con Bruxelles sulla legge di bilancio e un deficit al 2,4%. L'accusa innescò la piccata reazione di Fontana che, in una lettera, dichiarò: «È davvero inverosimile che si giudichi il risultato finale (l'accordo tra Italia e Ue) per dire che i passi iniziali verso la procedura d'infrazione non fossero veri (tra l'altro raccontati da tutti i giornali del mondo e respinti all'inizio dal nostro governo che affermava non avrebbe mai cambiato il numerino del 2,4%). Come se in mezzo e nella trattativa non fosse accaduto nulla». Scontro su tutta la linea, insomma. Non è pertanto da escludere che - dietro la mossa di Cairo -questa complicata vicenda possa aver giocato un ruolo significativo.
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Riduci
I «competenti» sognano l'euroschiavitù. E Walter Ricciardi vuol spalancare i confini ai cinesi.Come sempre, si sorvola sulle condizioni che saranno imposte per ottenere i fondi speciali. Nicola Zingaretti corre a dare manforte.Urbano Cairo caccia Ivo Caizzi dal Corriere: un anno fa denunciò la pubblicazione di notizie false ma gradite a Bruxelles. Con l'ok del direttore.Lo speciale contiene tre articoli.Un po' di propensione alla svendita del Paese, un po' di autorazzismo, un po' di retorica del vincolo esterno, e forse un po' di desiderio di proporsi al sovrano straniero come viceré, come funzionari delegati alla gestione della «provincia» italiana. Si pensi al Mes. Non dispiaccia a Federico Fubini, prima firma del Corriere, che ieri ha provato a garantire che non ci sarebbero altri vincoli, controlli, condizioni. Ah sì? Peccato che basti farsi un giro sul sito www.esm.europa.eu per scoprire che i Paesi richiedenti saranno sottoposti a enhanced surveillance (sorveglianza rafforzata). Peccato che sia fissato l'early warning system, per monitorare la capacità del Paese di ripagare il prestito. E peccato soprattutto che restino vivi il Trattato Mes e il Regolamento 472 del 2013 che nessuno ha abrogato né modificato: dunque, chiacchiere a parte, nulla vieta che in futuro possano essere imposte «misure correttive», magari quando a Palazzo Chigi ci sarà un governo sgradito all'Ue. Controprova? Se questo Mes è così sexy, come mai la Francia non lo vuole, la Spagna non lo vuole, il Portogallo non lo vuole, la Grecia non lo vuole? Dicono gli eurolirici: ma è Angela Merkel che ce lo consiglia. Resta da capire se questa Merkel sia un'omonima della Merkel che dichiarò la morte politica di un governo italiano legittimamente scelto dagli elettori scambiandosi risatine sarcastiche insieme a Nicolas Sarkozy. Tocca dunque a lei, o tocca comunque a un leader straniero decidere cosa l'Italia debba fare? Attendiamo fiduciosi che ci si indichi l'articolo della Costituzione che fissa questa regola. La realtà è che l'approccio del mainstream politico e mediatico italiano all'Ue è ormai dogmatico, religioso, non più fattuale né razionale: un catechismo, una materia di culto. E invece l'Ue è un'arena politica dura e difficile, dove - come in ogni consesso umano e in ogni epoca storica - c'è chi cerca di imporre agli altri la propria agenda e i propri interessi. Ha certamente senso stare in quell'arena, ma senza sudditanza e senza umiliarsi. A meno che (ecco l'autorazzismo) non ci sia una valutazione che non si ha il coraggio di esplicitare. Per alcuni politici e osservatori, gli italiani vanno rieducati attraverso la frusta del vincolo esterno: occorre cioè che qualcuno - da Bruxelles - ci insegni la durezza del vivere, a suon di tasse e tagli. Per carità: non c'è alcun dubbio sul fatto che, nei decenni, tanti disastri siano stati compiuti dai governi italiani. Ma questa non è una buona ragione per farci commissariare da una Troika reale, o da un surrogato italico della Troika, una specie di auto Troika. In questa operazione di svendita della sovranità nazionale, da qualche tempo c'è una new entry, e cioè la Cina. Se n'è avuto il riscontro definitivo attraverso l'atteggiamento assolutorio che autorità politiche ed «esperti» hanno avuto verso Pechino in tutta la vicenda del coronavirus. E c'è ancora chi cerca colpevoli altrove. Ieri, intervistato su Repubblica, ha provveduto l'ineffabile Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute. Il titolo sembrava incoraggiante: «Ok riaprire, ma non a chi ha lasciato propagare l'epidemia». Il lettore avrà pensato: «Beh, finalmente ce l'ha con il regime comunista di Xi Jinping». E invece no, ecco l'ultima arrampicata di Ricciardi per dire che è sempre colpa di Donald Trump: «La Cina ha fatto una strategia di contenimento, mentre gli Usa hanno lasciato dilagare l'epidemia». Ma, presa la rincorsa, Ricciardi non si ferma più e certifica come credibili i dati cinesi: «La Cina in questo momento non avrebbe nessun interesse a truccare i dati». Ma guarda: il Paese che tutti giudicano colpevole della pandemia, secondo Ricciardi, non avrebbe interesse a tentare di ridimensionare le sue responsabilità. In che mani siamo… <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/alfieri-del-salvastati-e-valletti-di-pechino-gli-autorazzisti-svenderebbero-il-paese-2646283978.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-corriere-rilancia-la-campagna-suicida-a-favore-dei-soldi-mes" data-post-id="2646283978" data-published-at="1593377943" data-use-pagination="False"> Il «Corriere» rilancia la campagna suicida a favore dei soldi Mes «Penso al Mes senza condizionalità», dice Nicola Zingaretti. Ecco, bravo, pensaci, verrebbe da rispondergli perché quella roba lì non esiste. Fare propaganda e finire di crederci è tutto un attimo, avrebbe cantato Anna Oxa. «Gli Stati membri la cui moneta è l'euro possono istituire un meccanismo di stabilità (il Mes appunto, ndr)», recita il comma 3 dell'articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell'Ue, che chiude: «La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell'ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità». Mentre Giuseppe Conte prova a ridire no al Mes dopo una lunga altalena, ieri è Federico Fubini sul Corriere a difendere il Mes. Obiettare che «“i trattati non sono cambiati" è l'argomento dei più disinformati, che non sanno più cosa inventarsi per difendere una posizione precostituita». E qui andrebbero conosciuti non solo i trattati ma pure il regolamento 472 del 2013 che disciplina l'operatività del Mes. Il titolo parla da solo: «Rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri nella zona euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria». La premessa recita che gli Stati che chiedono di essere assistiti dal Mes sono sottoposti alla sorveglianza rafforzata, tipo Grecia. Comunque sia, lo Stato che ricorre al Mes informa l'«Eurogruppo, il commissario per gli affari economici e monetari e la Bce» mentre la Commissione valuterà «la sostenibilità del debito pubblico». Cosa peraltro già fatta, come sottolinea Fubini. L'articolo più controverso del regolamento è però il settimo, sui programmi di aggiustamento macroeconomico. Esso prescrive che tali piani dipendano sempre dalla solita analisi di sostenibilità del debito. Se questo venisse successivamente dichiarato non sostenibile, i famigerati programmi sarebbero pronti a ripartire. Invece l'articolo 14 stabilisce come uno Stato membro può essere soggetto a «sorveglianza post-programma finché non avrà rimborsato almeno il 75% del debito contratto con il Mes». In pratica il Paese sorvegliato deve sottostare a periodiche valutazioni di Commissione, Bce e Fmi (la Troika) che potrebbero imporre «misure correttive». La stessa Commissione, per mano di Gentiloni, ha ribadito il concetto lo scorso 8 maggio: «Gli Stati membri dell'area dell'euro rimarranno impegnati a rafforzare i fondamenti economici e finanziari, coerentemente con i quadri di coordinamento e sorveglianza economica e fiscale dell'Ue». La premessa 13 del Trattato istitutivo del Mes, del resto, precisa come i suoi crediti «fruiranno dello status di creditore privilegiato» con ciò trasformando tutti i Btp in circolazione in subordinati. Avete presente Banca Etruria? Ecco, quella roba li. Ma alla fine, ecco citato un caso di successo. Cipro - che nel 2012 ha subìto il taglio dei depositi bancari grazie anche all'intervento del Mes - sta ipotizzando di ricorrervi ancora. «Subito il costo del suo debito è sceso, perché ciò ha rassicurato gli investitori» sottolinea Fubini. Peccato che Cipro abbia un debito pubblico complessivo di 21 miliardi. Meno dell'ultima emissione del solo Btp Italia. Di questi, 16 miliardi sono già privilegiati (cioè in caso di default vengono pagati prima perché sono appunto quelli del Mes) o in caso di uscita dall'euro non potrebbero essere ridenominati in nuova moneta. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/alfieri-del-salvastati-e-valletti-di-pechino-gli-autorazzisti-svenderebbero-il-paese-2646283978.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="e-leditore-cairo-licenzia-il-giornalista-non-asservito-allue" data-post-id="2646283978" data-published-at="1593377943" data-use-pagination="False"> E l’editore Cairo licenzia il giornalista non asservito all’Ue Tira aria di burrasca al Corriere della Sera. Secondo Senza Bavaglio, l'editore della testata, Urbano Cairo, ha interrotto senza preavviso il rapporto di lavoro con Ivo Caizzi, corrispondente da Bruxelles da trent'anni per il quotidiano alla cui direzione, tra l'altro, il giornalista si era candidato senza successo nel 2015. Il siluramento - avallato dal direttore Luciano Fontana - sarebbe avvenuto senza la consultazione della rappresentanza sindacale e senza apparenti motivazioni (sebbene il governo abbia bloccato i licenziamenti senza giusta causa fino ad agosto). In tutto questo, Caizzi avrebbe ricevuto la comunicazione dell'estromissione mentre si trovava chiuso in casa a Bruxelles, a causa del lockdown. Il Comitato di redazione sosterrà il collega, in quanto il suo licenziamento non avrebbe avuto luogo «nell'ambito delle comuni facoltà previste dall'ordinamento legislativo». L'aspetto forse più curioso di questa vicenda risiede nella fretta con cui Cairo ha scelto di risolvere il rapporto di lavoro. Non soltanto perché nel 2015 - come riportò Linkiesta - aveva orgogliosamente affermato di aver tagliato gli sprechi a La 7 senza aver licenziato nessuno. Ma anche perché aveva sul tavolo soluzioni meno traumatiche. L'editore avrebbe potuto attendere la scadenza del contratto da corrispondente per poi non rinnovarlo. E il giornalista non sarebbe lontano dalla pensione. Eppure Cairo ha optato per una drastica rapidità. A voler pensar male, si potrebbe ritenere che l'editore abbia tenuto conto dei (relativamente) recenti attriti, consumatisi tra Caizzi e i vertici della redazione. A fine dicembre 2018, il corrispondente aveva inviato una lettera al Cdr molto dura verso Fontana e - indirettamente - il vicedirettore Federico Fubini. Nella missiva - pubblicata dalla Verità all'inizio del gennaio successivo - Caizzi chiedeva «di verificare e valutare il comportamento del direttore nella copertura della trattativa tra Unione europea e Italia sulla manovra di bilancio 2019». La ragione del contendere risiedeva principalmente nella prima pagina del primo novembre 2018, in cui il Corriere aveva parlato di una «procedura d'infrazione» europea contro l'Italia: una procedura bollata da Caizzi come «inesistente». Egli chiedeva di verificare «se il comportamento del direttore Fontana sia stato corretto», «se si può aprire la prima pagina del Corriere con “una notizia che non c'è" del genere», «se il direttore non debba limitarsi a imporre la sua linea attraverso editoriali, opinioni e commenti», «se l'attendibilità del Corriere non vada difesa meglio, almeno per ridurre le perdite di copie». La questione investiva anche Fubini che dell'articolo del 1° novembre era l'autore. Come riferì Prima comunicazione, «Fubini non viene mai citato nella mail al Cdr, ma Caizzi mette in evidenza un suo articolo del 7 novembre in cui si nega una possibile soluzione di compromesso sul bilancio del governo Conte, smentendo quanto scritto nei giorni precedenti dallo stesso Caizzi». Gli articoli contestati riguardavano le trattative che - nell'autunno 2018 - l'allora governo italiano M5s-Lega) aveva condotto con Bruxelles sulla legge di bilancio e un deficit al 2,4%. L'accusa innescò la piccata reazione di Fontana che, in una lettera, dichiarò: «È davvero inverosimile che si giudichi il risultato finale (l'accordo tra Italia e Ue) per dire che i passi iniziali verso la procedura d'infrazione non fossero veri (tra l'altro raccontati da tutti i giornali del mondo e respinti all'inizio dal nostro governo che affermava non avrebbe mai cambiato il numerino del 2,4%). Come se in mezzo e nella trattativa non fosse accaduto nulla». Scontro su tutta la linea, insomma. Non è pertanto da escludere che - dietro la mossa di Cairo -questa complicata vicenda possa aver giocato un ruolo significativo.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Riduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Riduci
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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