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2018-04-25
Il bimbo fa il miracolo e sopravvive. Ma il giudice insiste: «Muoia a Liverpool»
ANSA
I medici non se lo sarebbero mai aspettato. Quando lunedì alle 9.17 inglesi (le 22.17 in Italia) hanno staccato il respiratore ad Alfie Evans, erano convinti che in un lampo avrebbe smesso di vivere. Invece il bimbo di 23 mesi, che soffre di una malattia neurologica ed è finito al centro di una battaglia legale e anche etica, li ha smentiti senza riserve. Ha compiuto una specie di miracolo, piccolo come le manine dei bambini della sua età, grande come il cuore dei genitori che da mesi combattono per lui. Dopo lo spegnimento del ventilatore, Alfie Evans ha continuato a respirare, mentre fuori dall'Alder hey hospital di Liverpool circa duecento dei suoi sostenitori manifestavano. All'inizio hanno cercato di far breccia nel centro di cura, anche perché sapevano che all'interno c'erano una trentina di poliziotti a controllare che lo spegnimento delle macchine non venisse interrotto e l'idea di vedere trattata una famiglia come una gang criminale li aveva fatti davvero arrabbiare. Più tardi si sono limitati a rimanere fuori dall'edificio, con le candele accese, in una veglia di riflessione e preghiera. Che a qualcosa è servita, dato che Alfie non ha mollato. Anche per questo tanti parlano di un miracolo.
Quando ieri mattina presto suo padre Tom Evans, che ha 21 anni, ma ha ormai la saggezza dell'uomo vissuto, si è presentato davanti ai microfoni della televisione e ha raccontato che il bimbo aveva passato la notte, per i soldati dell'Alfie's army è stato un successo. La battaglia di mamma e papà non si è mai interrotta. Per tutta la notte si sono alternati a fare la respirazione bocca a bocca al loro primogenito malato, rovesciando su di lui decine di baci insieme all'ossigeno. Dopo sei ore senza respiratore, però, il bimbo ha avuto una crisi. I medici si sono rifiutati di dargli ossigeno e acqua, come prevedeva il protocollo concordato con i giudici. Così il padre di Alfie ha reagito. Si è messo a sedere con i dottori e gli ha detto che stavano commettendo un crimine: affamare un bimbo, privandolo di cibo e idratazione, togliergli l'ossigeno. «Abbiamo avuto un incontro di circa quaranta minuti», ha raccontato Tom Evans, «e alla fine mi hanno detto che avevo ragione e avevo sempre avuto ragione». Per Tom e Kate, Alfie non ha mai dato segni di sofferenza. Di fronte alla loro determinazione, i medici hanno accettato di fornirgli acqua e un po' di ossigeno. Nelle ore di una notte di tensione e speranza, Alfie ha combattuto e poi si è addormentato in braccio alla sua mamma, accoccolato su di lei, come è normale che accada per i figli di questa età. Una scena immortalata in una foto e diffusa sui social media, che deve essere risultata incredibile per i medici che considerano il piccolo malato alla stregua di un vegetale, sul quale non conviene insistere con le cure, perchè sarebbero inutili. «Alfie ha fatto il suo dovere e continua a farlo, mettendocela tutta», ha spiegato ai giornalisti Tom Evans ieri mattina. È stata dura e lo sarà ancora, ora dopo ora, ha bisogno di supporto. Quando i medici si sono convinti a dargli acqua e la mascherina di ossigeno per me è stata una benedizione. Non si tratta di una macchina che lo fa respirare, ma di una forma di ossigenazione per il suo corpo».
L'inattesa reazione del piccolo allo spegnimento delle macchine e la perseveranza dei suoi genitori, comunque, hanno avuto un effetto importante. Il giudice d'appello dell'alta corte britannica Anthony Hayden, lo stesso che lunedì aveva dato il permesso di scollegare il respiratore, ha deciso di convocare d'urgenza una nuova udienza per discutere il caso, invitando a Manchester tutte le parti coinvolte. Nel corso di tre ore di dibattito intense, sono state ripercorse le fasi di questa lunga vicenda, analizzate nel dettaglio le prospettive, le convenienze, i rischi. I genitori di Alfie hanno chiesto, come fanno da settimane, di portare il piccolo in Italia, all'ospedale Bambino Gesù di Roma, che si è offerto di assisterlo e ha dato nuove speranze alla famiglia. I dottori dell'Alder hey hospital non hanno cambiato il loro parere, nonostante la diagnosi sulla malattia del piccolo manchi. Alla fine il giudice Anthony Hayden non ha accettato l'idea di concedere alla famiglia di partire subito per l'Italia. Per ora ha chiesto ai medici dell'Alder hey hospital se Alfie Evans potrebbe lasciare l'ospedale e tornare a casa da mamma e papà. Risposta: non prima di cinque giorni. Una richiesta che si può leggere in due modi. Da un lato si può supporre che, senza cure mediche, il piccolo sia destinato a spegnersi. D'altro canto questa proposta offre anche una chance. Perché una volta dimesso dall'ospedale, il potere dei medici e dei giudici sul futuro del bambino potrebbe venire meno e allora potrebbero essere i genitori a decidere del suo futuro. E un'aeroambulanza per l'Italia sarebbe già pronta a decollare. Ipotesi, finché l'ospedale non fornirà la sua risposta. Di nuovo per Alfie si tratta di attendere. E, ancora di più questa volta, di tenere duro.
Il Vaticano non si rassegna: «Volontà quasi fisica di salvarlo»
Lo sbalordimento provocato dal fatto che il piccolo Alfie Evans ha continuato a respirare da solo, nonostante gli avessero staccato la spina, ha portato il giudice dell'alta corte britannica Anthony Hayden a convocare l'udienza straordinaria di ieri pomeriggio alle 16.30 ora italiana. All'udienza hanno partecipato i legali di tutte le parti, presente anche l'ambasciatore italiano a Londra, Raffaele Trombetta.
Nel dibattimento il giudice Hayden, che ha criticato alcune persone vicine alla famiglia per aver fornito «illusioni», ha escluso che il piccolo Alfie possa essere trasferito a Roma o a Monaco e ha chiesto all'Alder hey hospital se il bambino avrebbe potuto però ritornare a casa. I medici si sono barricati dietro al clima «ostile» che si è venuto a creare intorno all'attività dell'ospedale e per questo hanno affermato di non poter far uscire Alfie prima di 3 o 5 giorni. E comunque quella di «mandarlo a casa non è una decisione che si può prendere su due piedi». Insomma, gli inglesi tengono duro, Alfie non va né a Roma, né a casa, e chiudono ancora la porta ai genitori Thomas e Kate scommettendo sul fatto che comunque la vita del piccolo Evans debba terminare.
Mentre ancora si attendeva il risultato dell'udienza, il Consiglio dei ministri a Palazzo Chigi deliberava «il conferimento della cittadinanza italiana ad Alfie Evans, nato a Liverpool (Gran Bretagna) il 9 maggio 2016». Si forniva così l'atto di ratifica formale alla concessione della cittadinanza al piccolo paziente inglese, «in considerazione dell'eccezionale interesse per la comunità nazionale ad assicurare al minore ulteriori sviluppi terapeutici, nella tutela di preminenti valori umanitari che, nel caso di specie, attengono alla salvaguardia della salute».
Un altro tassello andava al suo posto, mentre si rincorrevano le voci che un aeromobile con i medici dell'ospedale vaticano del Bambino Gesù fosse pronto a Liverpool per trasportare Alfie in Italia. Le cose «possibili e impossibili» per trasferire il bambino sono certamente state fatte, così come richiesto esplicitamente da papa Francesco a Mariella Enoc, presidente dell'ospedale pediatrico vaticano Bambino Gesù.
Il vero punto di svolta dell'azione diplomatica e giuridica deve essere ricercato proprio nella discesa in campo diretta del Papa, è grazie a questa pressione che si è realizzato anche l'intervento del governo italiano con la concessione della cittadinanza. In mattinata c'era stato l'intervento del presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani. «La forza dell'amore», ha dichiarato Tajani, «sta sconfiggendo il cinismo di chi ha staccato la spina. Tutto il mio sostegno ad Alfie e ai suoi straordinari genitori».
L'attività diplomatica messa in campo ai massimi livelli era partita da qualche tempo, come conferma alla Verità Emmanuele Di Leo di Steadfast onlus, e la politica ha risposto. Soprattutto la Lega (che ha parlato di «deriva disumana») e Giorgia Meloni (Alfie è ancora vivo, noi non ci arrendiamo»), hanno fatto sentire la loro voce contribuendo a smuovere le acque. In questo contesto si è inserita la forte azione della segreteria di Stato vaticana che ha attivato l'ospedale Bambino Gesù fino a inviare a Liverpool Mariella Enoc, che proprio ieri mattina ribadiva che «l'équipe del Bambino Gesù è pronta a partire con un aereo fornito dal ministro Pinotti», ma «aspetto una chiamata dalla Difesa perché mettano a disposizione un aereo non tanto per l'aereo quanto per i problemi diplomatici».
Monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi, incaricato direttamente dal Papa durante l'udienza a sorpresa concessa al padre di Alfie il 18 aprile, ha sottolineato come la presenza di Enoc a Liverpool ha espresso da un punto di vista «quasi fisico la volontà della Santa sede e del Pontefice che i genitori di Alfie possono avere la libertà di portare il proprio figlio dove sentono che è necessario per la sua cura».
Ma quell'aereo per trasferire Alfie a Roma non si è mai alzato in volo, come peraltro diverse voci insistevano nel dire che mai gli inglesi avrebbero ceduto e concesso di portare il bambino in Italia.
Lorenzo Bertocchi
Eliminare i più deboli, l’antico sogno degli inglesi

LaPresse
L'ospedale Alder hey di Liverpool ha decretato la fine del «sostegno vitale» al piccolo
Alfie Evans. Un verdetto sconcertante: per un bambino di due anni la morte sarebbe il suo «best interest» contro il volere dei genitori. Come siamo arrivati a questo?
Riccardo Cascioli sulla Nuova Bussola Quotidiana scrive: «A proposito di sentenze sul caso Alfie, molti hanno rievocato le leggi naziste. Ma è una ricostruzione riduttiva, perché la vera origine sta nelle società eugenetiche che sono fiorite all'inizio del '900.» Ed è proprio l'Inghilterra la culla della folle ideologia legata all'eugenetica, parto delle menti di Ernst Haeckel e Fracis Galton, discepoli di Charles Darwin. Cascioli spiega che «poggiandosi sulla scoperta dell'ereditarietà dei geni», Haeckel e Galton cercarono di capire come poter «guidare la selezione naturale in modo da migliorare la razza umana. (…) All'inizio si parlava soprattutto di eugenetica “positiva", ovvero attraverso matrimoni selettivi privilegiando quelli tra i migliori elementi della società. Ma ben presto si passa a quella “negativa", cioè il divieto ai deboli di riprodursi». «Quante sofferenze e quante perdite», scriveva Haeckel nel 1904, «potrebbero venire evitate se si decidesse finalmente di liberare i totalmente incurabili dalle loro indescrivibili sofferenze con una dose di morfina».
All'epoca, queste teorie non erano altro che teorie, appunto, dibattute in claustrofobici salotti frequentati da intellettuali «illuminati». Poi, nel corso del Novecento, sono entrate indisturbate nella nostra quotidianità. Il caso di Alfie ne è una prova. D'altronde fu lo stesso
Galton che, in un articolo uscito sull'American journal of sociology nel luglio 1904, scrisse: «il primo e principale punto è assicurare la generale accettazione intellettuale dell'eugenetica come studio ricco di speranze e della massima importanza. Poi lasciamo che i suoi princìpi penetrino nel cuore della nazione, la quale li metterà in pratica in modi che non possiamo pienamente prevedere».
Fu anche in risposta a questo articolo che
Gilbert Keith Chesterton pubblicò nel 1922 un libro oggi pressoché sconosciuto, intitolato Eugenetica e altri malanni. In questo piccolo volumetto, il grande scrittore inglese mostra ancora una volta la sua vena profetica schierandosi contro le folli idee eugenetiche.
Nel primo capitolo si legge: «esiste oggi un piano d'azione, un indirizzo di pensiero, collettivo e inconfondibile come tutti quelli di cui occorre tener conto per delineare il processo storico. È una realtà concreta come il Movimento di Oxford (…). È chiamata per comodità “eugenetica", e che sia da distruggere mi propongo di dimostrarlo nelle pagine seguenti».
Per
Chesterton l'eugenetica non era una semplice dottrina filosofica, ma un errore, una potenziale causa di danni irreversibili da estirpare alla radice. «La cosa più saggia del mondo è gridare prima del danno» aggiunge, «gridare dopo che il danno è avvenuto non serve a nulla, specie se il danno è una ferita mortale».
Purtroppo il suo monito è rimasto inascoltato, specialmente nella sua Gran Bretagna, come dimostra la vicenda di Alfie. La sua vita è stata ufficialmente giudicata «inutile», come se si trattasse di un vecchio soprammobile, una macchina da rottamare. Un vero e proprio sguardo disumanizzante sulla realtà che ha origine, secondo
Chesterton, nel materialismo, «che trapela dal modo di esprimersi di un uomo, anche se parla di orologi o di gatti o di altre cose lontanissime dalla teologia. La caratteristica dello stile ateo», prosegue, «è di scegliere istintivamente la parola che suggerisce che le cose sono cose morte; che le cose non hanno un'anima».
Nel caso di Alfie, i giudici e i medici che si sono pronunciati per la sospensione del sostegno vitale del bambino hanno avuto la «sfortuna» di imbattersi in due genitori eroici e combattivi. Per fermarli è stato necessario il ricorso alle forze di polizia.
Chesterton non esiterebbe a parlare di una persecuzione perpetrata ai danni della famiglia Evans. In Eugenetica ed altri malanni, infatti, sottolinea: «non ho paura della parola “persecuzione" quando è attribuita alle chiese; e non è minimamente come termine di biasimo che la attribuisco agli uomini di scienza. È un termine di realtà legale. Se esso significa l'imposizione mediante la polizia di una teoria ampiamente contestata e indimostrabile in via definitiva (come l'“inutilità" della vita di un bambino malato, ndr), oggi a perseguitare non sono i nostri preti, ma i nostri dottori».
Le parole del corpulento autore inglese sconvolgono per la loro portata profetica. Oggi sembra davvero di vivere dentro l'incubo prefigurato con dolore da
Chesterton. Come uscirne? Tornando a guardare l'uomo da uomo, come creatura voluta da Dio e da lui dotata di un'anima e una vita inviolabile, perché «la religione» citando ancora una volta Chesterton, «è la difesa pratica di qualsiasi idea morale che debba essere popolare e debba essere battagliera. E il nostro ideale, se vuole sopravvivere, deve essere entrambe le cose».
Michelangelo Socci
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Dopo che gli hanno staccato la spina, il piccolo ha respirato da sé. L'udienza bis è una beffa: può andare a casa, non al Bambino Gesù.Oltre al Vaticano, anche la politica italiana sostiene la famiglia. Giorgia Meloni e la Lega: «Il governo intervenga».L'Inghilterra è la culla del pensiero eugenetico dagli inizi del Novecento. L'utopia? Rafforzare la razza selezionando i migliori.I medici non se lo sarebbero mai aspettato. Quando lunedì alle 9.17 inglesi (le 22.17 in Italia) hanno staccato il respiratore ad Alfie Evans, erano convinti che in un lampo avrebbe smesso di vivere. Invece il bimbo di 23 mesi, che soffre di una malattia neurologica ed è finito al centro di una battaglia legale e anche etica, li ha smentiti senza riserve. Ha compiuto una specie di miracolo, piccolo come le manine dei bambini della sua età, grande come il cuore dei genitori che da mesi combattono per lui. Dopo lo spegnimento del ventilatore, Alfie Evans ha continuato a respirare, mentre fuori dall'Alder hey hospital di Liverpool circa duecento dei suoi sostenitori manifestavano. All'inizio hanno cercato di far breccia nel centro di cura, anche perché sapevano che all'interno c'erano una trentina di poliziotti a controllare che lo spegnimento delle macchine non venisse interrotto e l'idea di vedere trattata una famiglia come una gang criminale li aveva fatti davvero arrabbiare. Più tardi si sono limitati a rimanere fuori dall'edificio, con le candele accese, in una veglia di riflessione e preghiera. Che a qualcosa è servita, dato che Alfie non ha mollato. Anche per questo tanti parlano di un miracolo. Quando ieri mattina presto suo padre Tom Evans, che ha 21 anni, ma ha ormai la saggezza dell'uomo vissuto, si è presentato davanti ai microfoni della televisione e ha raccontato che il bimbo aveva passato la notte, per i soldati dell'Alfie's army è stato un successo. La battaglia di mamma e papà non si è mai interrotta. Per tutta la notte si sono alternati a fare la respirazione bocca a bocca al loro primogenito malato, rovesciando su di lui decine di baci insieme all'ossigeno. Dopo sei ore senza respiratore, però, il bimbo ha avuto una crisi. I medici si sono rifiutati di dargli ossigeno e acqua, come prevedeva il protocollo concordato con i giudici. Così il padre di Alfie ha reagito. Si è messo a sedere con i dottori e gli ha detto che stavano commettendo un crimine: affamare un bimbo, privandolo di cibo e idratazione, togliergli l'ossigeno. «Abbiamo avuto un incontro di circa quaranta minuti», ha raccontato Tom Evans, «e alla fine mi hanno detto che avevo ragione e avevo sempre avuto ragione». Per Tom e Kate, Alfie non ha mai dato segni di sofferenza. Di fronte alla loro determinazione, i medici hanno accettato di fornirgli acqua e un po' di ossigeno. Nelle ore di una notte di tensione e speranza, Alfie ha combattuto e poi si è addormentato in braccio alla sua mamma, accoccolato su di lei, come è normale che accada per i figli di questa età. Una scena immortalata in una foto e diffusa sui social media, che deve essere risultata incredibile per i medici che considerano il piccolo malato alla stregua di un vegetale, sul quale non conviene insistere con le cure, perchè sarebbero inutili. «Alfie ha fatto il suo dovere e continua a farlo, mettendocela tutta», ha spiegato ai giornalisti Tom Evans ieri mattina. È stata dura e lo sarà ancora, ora dopo ora, ha bisogno di supporto. Quando i medici si sono convinti a dargli acqua e la mascherina di ossigeno per me è stata una benedizione. Non si tratta di una macchina che lo fa respirare, ma di una forma di ossigenazione per il suo corpo».L'inattesa reazione del piccolo allo spegnimento delle macchine e la perseveranza dei suoi genitori, comunque, hanno avuto un effetto importante. Il giudice d'appello dell'alta corte britannica Anthony Hayden, lo stesso che lunedì aveva dato il permesso di scollegare il respiratore, ha deciso di convocare d'urgenza una nuova udienza per discutere il caso, invitando a Manchester tutte le parti coinvolte. Nel corso di tre ore di dibattito intense, sono state ripercorse le fasi di questa lunga vicenda, analizzate nel dettaglio le prospettive, le convenienze, i rischi. I genitori di Alfie hanno chiesto, come fanno da settimane, di portare il piccolo in Italia, all'ospedale Bambino Gesù di Roma, che si è offerto di assisterlo e ha dato nuove speranze alla famiglia. I dottori dell'Alder hey hospital non hanno cambiato il loro parere, nonostante la diagnosi sulla malattia del piccolo manchi. Alla fine il giudice Anthony Hayden non ha accettato l'idea di concedere alla famiglia di partire subito per l'Italia. Per ora ha chiesto ai medici dell'Alder hey hospital se Alfie Evans potrebbe lasciare l'ospedale e tornare a casa da mamma e papà. Risposta: non prima di cinque giorni. Una richiesta che si può leggere in due modi. Da un lato si può supporre che, senza cure mediche, il piccolo sia destinato a spegnersi. D'altro canto questa proposta offre anche una chance. Perché una volta dimesso dall'ospedale, il potere dei medici e dei giudici sul futuro del bambino potrebbe venire meno e allora potrebbero essere i genitori a decidere del suo futuro. E un'aeroambulanza per l'Italia sarebbe già pronta a decollare. Ipotesi, finché l'ospedale non fornirà la sua risposta. Di nuovo per Alfie si tratta di attendere. 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Nel dibattimento il giudice Hayden, che ha criticato alcune persone vicine alla famiglia per aver fornito «illusioni», ha escluso che il piccolo Alfie possa essere trasferito a Roma o a Monaco e ha chiesto all'Alder hey hospital se il bambino avrebbe potuto però ritornare a casa. I medici si sono barricati dietro al clima «ostile» che si è venuto a creare intorno all'attività dell'ospedale e per questo hanno affermato di non poter far uscire Alfie prima di 3 o 5 giorni. E comunque quella di «mandarlo a casa non è una decisione che si può prendere su due piedi». Insomma, gli inglesi tengono duro, Alfie non va né a Roma, né a casa, e chiudono ancora la porta ai genitori Thomas e Kate scommettendo sul fatto che comunque la vita del piccolo Evans debba terminare. Mentre ancora si attendeva il risultato dell'udienza, il Consiglio dei ministri a Palazzo Chigi deliberava «il conferimento della cittadinanza italiana ad Alfie Evans, nato a Liverpool (Gran Bretagna) il 9 maggio 2016». Si forniva così l'atto di ratifica formale alla concessione della cittadinanza al piccolo paziente inglese, «in considerazione dell'eccezionale interesse per la comunità nazionale ad assicurare al minore ulteriori sviluppi terapeutici, nella tutela di preminenti valori umanitari che, nel caso di specie, attengono alla salvaguardia della salute». Un altro tassello andava al suo posto, mentre si rincorrevano le voci che un aeromobile con i medici dell'ospedale vaticano del Bambino Gesù fosse pronto a Liverpool per trasportare Alfie in Italia. Le cose «possibili e impossibili» per trasferire il bambino sono certamente state fatte, così come richiesto esplicitamente da papa Francesco a Mariella Enoc, presidente dell'ospedale pediatrico vaticano Bambino Gesù. Il vero punto di svolta dell'azione diplomatica e giuridica deve essere ricercato proprio nella discesa in campo diretta del Papa, è grazie a questa pressione che si è realizzato anche l'intervento del governo italiano con la concessione della cittadinanza. In mattinata c'era stato l'intervento del presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani. «La forza dell'amore», ha dichiarato Tajani, «sta sconfiggendo il cinismo di chi ha staccato la spina. Tutto il mio sostegno ad Alfie e ai suoi straordinari genitori». L'attività diplomatica messa in campo ai massimi livelli era partita da qualche tempo, come conferma alla Verità Emmanuele Di Leo di Steadfast onlus, e la politica ha risposto. Soprattutto la Lega (che ha parlato di «deriva disumana») e Giorgia Meloni (Alfie è ancora vivo, noi non ci arrendiamo»), hanno fatto sentire la loro voce contribuendo a smuovere le acque. In questo contesto si è inserita la forte azione della segreteria di Stato vaticana che ha attivato l'ospedale Bambino Gesù fino a inviare a Liverpool Mariella Enoc, che proprio ieri mattina ribadiva che «l'équipe del Bambino Gesù è pronta a partire con un aereo fornito dal ministro Pinotti», ma «aspetto una chiamata dalla Difesa perché mettano a disposizione un aereo non tanto per l'aereo quanto per i problemi diplomatici». Monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi, incaricato direttamente dal Papa durante l'udienza a sorpresa concessa al padre di Alfie il 18 aprile, ha sottolineato come la presenza di Enoc a Liverpool ha espresso da un punto di vista «quasi fisico la volontà della Santa sede e del Pontefice che i genitori di Alfie possono avere la libertà di portare il proprio figlio dove sentono che è necessario per la sua cura». Ma quell'aereo per trasferire Alfie a Roma non si è mai alzato in volo, come peraltro diverse voci insistevano nel dire che mai gli inglesi avrebbero ceduto e concesso di portare il bambino in Italia. Lorenzo Bertocchi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/alfie-fa-il-miracolo-e-sopravvive-2562997841.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="eliminare-i-piu-deboli-lantico-sogno-degli-inglesi" data-post-id="2562997841" data-published-at="1766436306" data-use-pagination="False"> Eliminare i più deboli, l’antico sogno degli inglesi LaPresse L'ospedale Alder hey di Liverpool ha decretato la fine del «sostegno vitale» al piccolo Alfie Evans. Un verdetto sconcertante: per un bambino di due anni la morte sarebbe il suo «best interest» contro il volere dei genitori. Come siamo arrivati a questo? Riccardo Cascioli sulla Nuova Bussola Quotidiana scrive: «A proposito di sentenze sul caso Alfie, molti hanno rievocato le leggi naziste. Ma è una ricostruzione riduttiva, perché la vera origine sta nelle società eugenetiche che sono fiorite all'inizio del '900.» Ed è proprio l'Inghilterra la culla della folle ideologia legata all'eugenetica, parto delle menti di Ernst Haeckel e Fracis Galton, discepoli di Charles Darwin. Cascioli spiega che «poggiandosi sulla scoperta dell'ereditarietà dei geni», Haeckel e Galton cercarono di capire come poter «guidare la selezione naturale in modo da migliorare la razza umana. (…) All'inizio si parlava soprattutto di eugenetica “positiva", ovvero attraverso matrimoni selettivi privilegiando quelli tra i migliori elementi della società. Ma ben presto si passa a quella “negativa", cioè il divieto ai deboli di riprodursi». «Quante sofferenze e quante perdite», scriveva Haeckel nel 1904, «potrebbero venire evitate se si decidesse finalmente di liberare i totalmente incurabili dalle loro indescrivibili sofferenze con una dose di morfina». All'epoca, queste teorie non erano altro che teorie, appunto, dibattute in claustrofobici salotti frequentati da intellettuali «illuminati». Poi, nel corso del Novecento, sono entrate indisturbate nella nostra quotidianità. Il caso di Alfie ne è una prova. D'altronde fu lo stesso Galton che, in un articolo uscito sull'American journal of sociology nel luglio 1904, scrisse: «il primo e principale punto è assicurare la generale accettazione intellettuale dell'eugenetica come studio ricco di speranze e della massima importanza. Poi lasciamo che i suoi princìpi penetrino nel cuore della nazione, la quale li metterà in pratica in modi che non possiamo pienamente prevedere». Fu anche in risposta a questo articolo che Gilbert Keith Chesterton pubblicò nel 1922 un libro oggi pressoché sconosciuto, intitolato Eugenetica e altri malanni. In questo piccolo volumetto, il grande scrittore inglese mostra ancora una volta la sua vena profetica schierandosi contro le folli idee eugenetiche. Nel primo capitolo si legge: «esiste oggi un piano d'azione, un indirizzo di pensiero, collettivo e inconfondibile come tutti quelli di cui occorre tener conto per delineare il processo storico. È una realtà concreta come il Movimento di Oxford (…). È chiamata per comodità “eugenetica", e che sia da distruggere mi propongo di dimostrarlo nelle pagine seguenti». Per Chesterton l'eugenetica non era una semplice dottrina filosofica, ma un errore, una potenziale causa di danni irreversibili da estirpare alla radice. «La cosa più saggia del mondo è gridare prima del danno» aggiunge, «gridare dopo che il danno è avvenuto non serve a nulla, specie se il danno è una ferita mortale». Purtroppo il suo monito è rimasto inascoltato, specialmente nella sua Gran Bretagna, come dimostra la vicenda di Alfie. La sua vita è stata ufficialmente giudicata «inutile», come se si trattasse di un vecchio soprammobile, una macchina da rottamare. Un vero e proprio sguardo disumanizzante sulla realtà che ha origine, secondo Chesterton, nel materialismo, «che trapela dal modo di esprimersi di un uomo, anche se parla di orologi o di gatti o di altre cose lontanissime dalla teologia. La caratteristica dello stile ateo», prosegue, «è di scegliere istintivamente la parola che suggerisce che le cose sono cose morte; che le cose non hanno un'anima». Nel caso di Alfie, i giudici e i medici che si sono pronunciati per la sospensione del sostegno vitale del bambino hanno avuto la «sfortuna» di imbattersi in due genitori eroici e combattivi. Per fermarli è stato necessario il ricorso alle forze di polizia. Chesterton non esiterebbe a parlare di una persecuzione perpetrata ai danni della famiglia Evans. In Eugenetica ed altri malanni, infatti, sottolinea: «non ho paura della parola “persecuzione" quando è attribuita alle chiese; e non è minimamente come termine di biasimo che la attribuisco agli uomini di scienza. È un termine di realtà legale. Se esso significa l'imposizione mediante la polizia di una teoria ampiamente contestata e indimostrabile in via definitiva (come l'“inutilità" della vita di un bambino malato, ndr), oggi a perseguitare non sono i nostri preti, ma i nostri dottori». Le parole del corpulento autore inglese sconvolgono per la loro portata profetica. Oggi sembra davvero di vivere dentro l'incubo prefigurato con dolore da Chesterton. Come uscirne? Tornando a guardare l'uomo da uomo, come creatura voluta da Dio e da lui dotata di un'anima e una vita inviolabile, perché «la religione» citando ancora una volta Chesterton, «è la difesa pratica di qualsiasi idea morale che debba essere popolare e debba essere battagliera. E il nostro ideale, se vuole sopravvivere, deve essere entrambe le cose». Michelangelo Socci
(IStock)
Senza il pandoro, così come senza il panettone, non sarebbe Natale. È però un fatto che il pandoro è considerato un di più, un elemento dolce ancillare del panettone. Se il pandoro può mancare sulla tavola natalizia, non lo può il panettone. In realtà questa subordinazione del pandoro al panettone è abbastanza ingiusta. Il pandoro non è un dolce meno saporito del panettone, da un punto di vista tecnico non è meno complesso e dal punto di vista gustativo come il panettone soddisfa il bisogno di abbondanza, così il pandoro soddisfa quello di leggerezza, offrendo al gusto un sapore univoco non complicato da sospensioni come sono le uvette e i canditi nel panettone tradizionale e tutte quelle che passano per la mente del creatore nel panettone di ricerca. E leggera è anche la consistenza, che ricorda più una torta, un pan di Spagna o una torta paradiso, più che un pane addolcito e (assai) lievitato come invece fa il panettone. Questa nettezza di gusto lo rende aperto ad abbinamenti estemporanei: tipico di bambini e golosi è il sandwich di pandoro che si realizza con due fette di pandoro e un ripieno dolce che può andare dalla tavoletta di cioccolato al torrone.
La storia anzi la probabile storia del pandoro ci porta indietro fino agli antichi Romani. Plinio il Vecchio, infatti, raccontando le abitudini culinarie dell’antica Roma parla di un panis preparato abitualmente con fior di farina, burro e olio da Virgilius Stephanus Senex. Marco Gavio Apicio parla di un pane da liberare della crosta e poi imbibire di latte, friggere e cospargere di miele, perciò dorato. Da questi esempi di panis dorato antico-romano secondo molti deriva il levà veronese, anch’esso un pane dolce, di occasione festiva, ma più dolce del suo avo, con tanto di copertura di glassa con mandorle. Pare che nella corte veneziana il levà, come altri dolci locali, fosse ricoperto di sottilissime foglie d’oro zecchino e perciò fosse chiamato pane de oro. Dal levà deriverebbe il nadalin, nome veneto del dolce natalino ossia di Natale che si chiamerebbe così proprio perché sarebbe nato a Natale del XIII secolo per festeggiare l’investitura dei Della Scala a Signori di Verona. Il nadalin presenta un impasto morbido, una cupola decorativa di crosticina e frutta secca e una forma a stella di otto punte. Dal 2012 è anche un prodotto De.Co. del Comune di Verona, con tanto di ricette ufficiali per le due versioni, quella con lievito di birra oppure quella con lievito madre.
Questi i presunti prototipi - finora - del pandoro. Zoomiamo, quindi, sul pandoro. Del pandoro come lo conosciamo oggi abbiamo una data ufficiale di nascita. È il 14 ottobre 1894, il giorno in cui il pasticcere Domenico Melegatti brevetta la ricetta e il nome del suo dolce, Pandoro, ottenendo poi l’attestato di privativa industriale del ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia qualche tempo dopo: il 20 marzo 1895 il ministero di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia, infatti, rilascia l’«attestato di privativa industriale della durata di anni tre per un brevetto designato col titolo Pandoro (dolce speciale)». La nascita del Pandoro con tanto di data presenta anche una… annunciazione! E già, in perfetto calco del paradigma religioso natalizio di nascita precedentemente annunciata. Sul quotidiano veronese L’Arena del 21 e 22 marzo 1894 (sei mesi prima del brevetto) compare l’avviso pubblicitario di annuncio del prodotto: «Il Pasticcere Melegatti… avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato l’autore lo reputa degno del primo posto nomandolo Pan d’oro». Nel depositare il brevetto il nome perde la sua composizione triplice e diventa un tutt’uno, quel «Pandoro» che, come succede alle grande invenzioni, per antonomasia, da nome proprio poi diventerà nome generico. Oggi pandoro è un marchionimo (così si chiamano i nomi originati da marchi) ovvero un tipo di dolce che tutti i pasticceri artigianali e industriali realizzano, non solo Melegatti e non solo i pasticceri di professione, essendo tanti i cucinieri casalinghi che si dilettano a impastare e cucinare pandori e panettoni in casa per le feste natalizie. Il Pandoro di Melegatti è un dolce ispirato alla morbidezza del levà, grazie ad un impasto diverso e allo stampo di cottura, ideato sempre da Domenico Melegatti, spiega il sito Internet dell’azienda, con forma di stella troncoconica a otto punte, brevettato anch’esso. La forma a stella del pandoro ricorda certamente quella del nadalin, rispetto al quale però è assai più alto e privo di qualsiasi topping. Secondo lo studioso Andrea Brugnoli il pandoro potrebbe però trovare altre fonti, ovvero il pane di Natale del monastero di San Giuseppe a Fidenzio: nei registri dell’economato del ministero il 21 dicembre 1790 si acquistano 500 uova, tantissimo burro e tantissimo altro zucchero. Altra fonte di ispirazione per Brugnoli sarebbe il Pan d’Oro che nel 1871 Cesare Capri di Verona porta ad un’esposizione pasticcera regionale presentandolo come «panettone di pasta dolce». Non si sa e in fondo non è nemmeno così interessante saperlo, essendo il pandoro talmente perfetto da interessarci dalla sua nascita ufficiale in poi. Tornando alla questione linguistica, perché il nome pandoro passi da proprio a generico bisogna attendere il 1927. In quell’anno, entra nella quinta edizione dell’importantissimo - per la costruzione della lingua italiana - Dizionario moderno di Alfredo Panzini. La voce «pandoro» nel dizionario recita: «Dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d’uovo».
Voi siete team pandoro, team panettone o team entrambi? In tutti i casi vi, anzi ci, sarà utile una breve disamina nutrizionale del pandoro, per capire cosa mangeremo quando lo mangeremo alla tavola natalizia. Non si può certamente sostenere che il pandoro sia dietetico. Si tratta al contrario di un dolce generoso di zuccheri e grassi saturi, che sono i macronutrienti tipici delle festività, ma anche quelli che dobbiamo tenere a bada. Generoso, conseguentemente, di calorie: 100 g ne hanno tra 390 e 435. Considerato che da un pandoro di 1 kg traiamo 8 fette (sono le 8 punte) si capisce come ogni fetta pesi 125 grammi. Se ragioniamo sui 100 g, abbiamo tra i 49 e i 53 g di carboidrati di cui tra 22 e 26,5 di zuccheri. Considerato che il pandoro si mangia alla fine di un pasto in cui i primi piatti sono sontuosi e abbondanti anch’essi e che questo pasto festivo e festoso si ripete (il cenone della Vigilia, il Pranzo del Natale, il Pranzo di Santo Stefano, minimo) si capisce come introiettare ulteriori 400 calorie circa composte per lo più di carboidrati e tra questi di zuccheri sia un elemento da tenere attenzionato, cercando dunque di non mangiare troppo nel resto delle giornate festive. I carboidrati sono solo l’inizio. Abbiamo tra 20 e 21 grammi di grassi, di cui tra 10 e 13 sono saturi e sono dovuti all’abbondanza di tuorlo d’uovo e burro. Infine abbiamo tra 7 e 8 grammi di proteine che sì, abbassano lievemente l’indice glicemico del dolce e si affiancano anche all’indice lipidico, tuttavia - com’è ovvio - non li annulla. In definitiva, chi è a dieta e chi deve limitare fortemente i grassi saturi, magari perché ipercolesterolemico, ipertrigliceridico o afflitto da altra patologia del metabolismo dei grassi e in generale del metabolismo dovrebbe mangiare giusto un pezzetto, forse evitare il pandoro. Non ne deve abusare nemmeno chi ha una forma e una salute perfette, perché - ricordiamoci - un eccesso di grassi saturi fa ingrassare e aumenta il rischio cardiovascolare, oltre a sovraffaticare l’apparato digestivo. Nel caso si voglia o si desideri un consumo più virtuoso, il consiglio è quello di optare o per il panettone o per il pandoro e non mangiare entrambi alla fine dello stesso pasto, per il dispiacere del team che definiremo «entrambi e pure uno insieme all’altro». Altri consigli: mangiare mezza fetta di pandoro anziché una fetta intera, stare molto leggeri per quanto riguarda grassi e zuccheri al pasto successivo o precedente, fare una bella passeggiata dopo il pranzo della festa. Il consiglio più strong di tutti è quello di non mangiare proprio il pandoro, ma come si fa? Quello semi strong è di non mangiarlo a fine pasto, ma a merenda (con un tè o un caffè rigorosamente senza zucchero) o a colazione. Tuttavia noi preferiamo pensare che mangiare il pandoro a fine pasto vuol dire anche seguire una tradizione e quindi vi riproponiamo il «trucchetto» di mangiarne, magari, mezza fetta.
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La decisione del tribunale di La Spezia che consente a una minorenne di assumere un nome maschile è contestabile. E quando si parla di transizioni chirurgiche bisogna sapere che le difficoltà sono tantissime.
Il tributo alle vittime della strage di Bondi beach a Sydney (Ansa)
Era evidente che l’antisemitismo da un momento all’altro sarebbe esploso con morti ammazzati. Nessuno si faccia illusioni: è solo l’inizio. Sono colpevoli i giornali che hanno riportato slogan genocidi, i politici e i cardinali che ripetono le menzogne di Hamas, i media che, grazie anche al fiume di denaro che da decenni arriva dal mondo islamico, hanno demonizzato lo Stato di Israele, i governanti che hanno permesso che la bandiera delle belve di Hamas sventolasse addirittura su palazzi di sedi istituzionali, tutti coloro che l’hanno appesa o messa sui social. Chiunque gridi slogan come «globalizzare l’intifada», sta invocando più morti ammazzati.
Ancora più sconvolgente dell’attentato antisemita in Australia sono i commenti sui social ai post che danno la notizia.
L’antisemitismo si è rifugiato nelle fogne nel 1945, il nazismo gli aveva tolto ogni dignità, e nelle fogne è rimasto fino al 1975. Fino a quella data sapevamo che Israele era dalla parte della ragione, che la sua nascita non solo era legittima, ma era un raggio di giustizia nella storia. Se guardiamo una carta geografica, dal Marocco all’Indonesia è tutto islam. Ovunque sono state annientate le civiltà precedenti, al punto tale che non ce ne ricordiamo, per cui non lo riconosciamo nemmeno per quello che è: dannato colonialismo genocidiario.
Nel 1453 cade Costantinopoli, quella che noi chiamiamo Turchia era il cristiano Impero romano d’Oriente. L’Afghanistan era una culla del buddismo. Siria e Nord Africa erano culle del cristianesimo, civilissime e verdi. L’islam distrugge tutte le civiltà precedenti. Il Bangladesh, una delle culle dell’induismo, è stato reso privo di induisti nel 1971, grazie a violenze spaventose seguite dalla più grande pulizia etnica di tutta la storia dell’umanità, 10 milioni di profughi induisti hanno lasciato la terra dei loro padri. Gli induisti sono stati convinti ad andarsene con sistemi energici e creativi: donne stuprate, bambini col cranio fracassato, uomini, ragazzi e bambini costretti a calarsi le brache e, nel caso non fossero circoncisi, castrati.
Poi il popolo di Israele ritorna alla terra di suoi padri. Si tratta di un fazzoletto di terra, senza una goccia di petrolio, ma è considerato un’onta imperdonabile. Quello di Israele è l’unico popolo tra quelli occupati dall’islam che sia riuscito a riconquistare la terra dei suoi padri interamente occupata. In mano all’islam era una terra di sassi e scorpioni, quando diventa Israele diventa un giardino. Nel 1975 la narrazione cambia. Israele ha incredibilmente vinto la guerra del ’48 e quella dei 6 giorni. Riesce a vincere dopo alcune sconfitte iniziali la guerra del Kippur. L’islam perde la speranza di una vittoria militare seguita dalla distruzione di Israele, e la strategia diventa mediatica.
Attraverso la corruzione di burocrati europei e dell’Onu, testate giornalistiche, campus statunitensi, università europee e poi ogni tipo di scuola, con la complicità del Partito comunista sovietico e di tutti i suoi fratellini nel mondo occidentale, grazie a fiumi di petrodollari, Israele è stato sempre più demonizzato mentre il vittimismo palestinese è diventato una nuova religione. Questo ha portato inevitabilmente alla beatificazione anche del terrorismo contro i cristiani, contro di noi. Sacerdoti e vescovi apprezzano gli imam più violenti, ignorano i martiri cristiani della Nigeria, decine e decine di migliaia di morti, rapimenti, stupri, mutilati e feriti, chiese distrutte, scuole vandalizzate, ma ignorano anche le violenze dei palestinesi contro i cristiani. A Betlemme i cristiani erano l’80% della popolazione prima di finire sotto l’amministrazione palestinese. Ora sono il 20%. La diminuzione è ottenuta mediante una serie di angherie che finiscono per suggerire l’idea di un trasferimento altrove, in termini tecnici si chiama pulizia etnica, e mediante il rapimento di ragazzine preadolescenti, prelevate all’uscita dalla scuola, e costrette a sposare un islamico, in termine tecnico si chiama stupro etnico. L’unico Stato in Medio Oriente dove il numero di cristiani aumenta costantemente è Israele, in tutti gli altri sta drammaticamente diminuendo.
Il vittimismo palestinese è elemento fondamentale, insieme alla denatalità, per la islamizzazione dell’Europa. L’antisemitismo, manifesto dal 1975, è esploso il 7 ottobre del 2023. Le cause dell’antisemitismo sono molteplici. La più apparentemente banale è la coscienza della superiorità culturale ebraica. I numeri sono impietosi. Gli ebrei sono lo 0,2% della popolazione mondiale. Il 20% dei premi Nobel sono stati attribuiti ad ebrei. Se guardiamo solo i premi Nobel per la fisica, la statistica sale al 35%. Il 50% dei campioni di scacchi è costituito da ebrei. Tra le motivazioni di questo successo c’è una potente identità etnica, il popolo eletto, coloro che parlavano con Dio e ne hanno avuto 10 comandamenti.
Fondamentale è il maggior quantitativo di studi, tenendo presente che ogni cosa che studiamo aumenta le sinapsi che abbiamo nel cervello. La stragrande maggioranza degli ebrei conosce almeno due lingue, l’ebraico, linguisticamente complesso che si scrive da destra a sinistra, e poi la lingua gentile del popolo ospitante o comunque l’inglese. Questa ricchezza linguistica si raggiunge attraverso lo studio e quindi aumenta le sinapsi. La religione ebraica è studio. La innegabile superiorità culturale ebraica genera due sentimenti negativi, l’invidia, una delle emozioni più potentemente distruttive, e il terrore del complotto, e qui arriviamo a un’altra causa di antisemitismo.
Sono più in gamba di noi in molti campi dello scibile umano, conoscono una lingua strana con cui possono comunicare tra di loro, ergo fanno continuamente complotti a nostro danno. In questa teoria gli ebrei sono descritti come assolutamente geniali da un lato e contemporaneamente i più idioti del reame: con tutta la loro incredibile potenza, tutto quello che ottengono è di essere costantemente odiati, di subire persecuzioni come nessun altro, non poter girare per la strada con una kippà o una stella di Davide, avere uno Staterello di 19.000 chilometri quadrati senza una goccia di petrolio che tutti vogliono distruggere.
C’è un antisemitismo cristiano che ha nutrito secoli di pogrom. Molti cristiani ritengono che Gesù Cristo sia stato ucciso dagli ebrei, che sia morto per volontà del Sinedrio. Gesù Cristo è andato alla morte per prendere su di sé i nostri peccati per volontà di Dio. Il popolo eletto ha avuto il compito di custodire la sua nascita e quello di custodire la sua morte. Quello che molti rimproverano agli ebrei è il loro non convertirsi al cristianesimo. In un certo senso questo loro rifiuto è «un continuo uccidere Cristo». Noi cristiani abbiamo avuto il compito da Cristo e da San Paolo di amare gli ebrei e convertirli. Con lunghi atroci secoli di persecuzioni e di odio abbiamo reso impossibile una conversione che in realtà è ovvia.
Ora il vaso di Pandora è scoperchiato. Giustificando, anzi amando, il terrorismo palestinese abbiamo sdoganato quello contro di noi. Anche gli assassinati del Bataclan avevano «rubato la terra ai palestinesi»? Per evitarci la tentazione dell’islamofobia ci è stato celato che a molte vittime del Bataclan sono stati cavati gli occhi e tagliati i genitali, come non ci hanno raccontato le sevizie durate ore con cui sono stati massacrati i nove italiani della strage di Dacca, luglio 2016. C’era anche una donna incinta. Ci hanno nascosto che cosa le hanno fatto perché altrimenti ci viene l’islamofobia.
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Le tecnologie nucleari rappresentano un pilastro fondamentale per affiancare le fonti rinnovabili, garantendo energia continua anche quando sole e vento non sono disponibili. Oltre a fornire elettricità affidabile, il nucleare contribuisce alla sicurezza del sistema elettrico e all’indipendenza energetica nazionale, elementi essenziali per sostenere la transizione energetica.
Negli ultimi anni, i reattori modulari di nuova generazione (SMR/AMR) hanno ridefinito l’equilibrio tra costi e benefici della produzione nucleare. Pur richiedendo investimenti iniziali significativi, questi impianti offrono vantaggi strutturali che li rendono sempre più sostenibili e competitivi nel lungo periodo. I capitali richiesti sono infatti sensibilmente inferiori rispetto ai grandi impianti tradizionali: si stimano 2-3 miliardi di euro per un reattore da 300 MWe contro i 12 e i 15 miliardi di euro per produrre 1.000 megawatt di potenza (1 GWe).
La standardizzazio dei moduli e l’assemblaggio in fabbrica garantiscono efficienza industriale, riducendo tempi, costi e complessità progettuale. Inoltre, con una vita operativa prevista di oltre 60 anni e un costo globale di produzione prevedibile, il nucleare modulare assicura energia affidabile a costi stabili, riducendo l’esposizione alla volatilità dei mercati energetici.
Il nucleare è già una realtà consolidata: nell’Unione europea sono operativi circa 100 reattori, con oltre 12 Paesi che stanno rilanciando questa tecnologia. Anche in Italia, l’aggiornamento del Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030) al 2024 prevede uno scenario con una potenza nucleare installata tra gli 8 e i 16 GW al 2050, pari a circa l’11-22% del fabbisogno nazionale.
A supporto dello sviluppo della filiera nazionale, è nata Nuclitalia società costituita da Enel, Ansaldo Energia e Leonardo che si occuperà dello studio di tecnologie avanzate e dell’analisi delle opportunità di mercato nel settore del nuovo nucleare. Il suo obiettivo è valutare le tecnologie più promettenti, costruire una filiera innovativa e sostenibile e sviluppare partnership industriali e di co-design, valorizzando le competenze delle industrie italiane. Inoltre, Nuclitalia monitora e partecipa attivamente ai programmi internazionali di R&D sulle tecnologie di IV generazione, per garantire un approccio integrato e avanzato al nucleare del futuro.
In sintesi, il nucleare modulare offre all’Italia la possibilità di affiancare le rinnovabili con energia stabile e programmabile, favorendo sicurezza energetica e sviluppo industriale. Con SMR e AMR, il Paese può costruire una filiera nazionale competitiva e sicura, contribuendo in modo concreto alla transizione energetica e all’indipendenza energetica.
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