Il mese scorso una banda di musulmani appartenenti ai militanti Fulani ha fatto irruzione nel villaggio di Sobame Da, in Mali. Le fonti ufficiali contano 95 vittime, uccisi perché cristiani. Amadou Togo, sopravvissuto all'attentato, racconta che «non hanno risparmiato nessuno. Donne, bambini, anziani». Di questo massacro - un terzo del villaggio è stato trucidato - nessuno ha parlato né scritto. È un fatto curioso, dato che su media e social network stazionano sempre masse di zelanti umanitaristi.
Con l'infuriare del caso Sea Watch, ancora una volta, abbiamo visto di tutto e di più, dalle mobilitazioni pro immigrati del Pd agli elogi sperticati per la comandante Carola Rackete.
In tutta quest'indignazione generale porsi delle domande sulla sincerità di certe posizioni è inevitabile. L'ha fatto l'intellettuale di sinistra Federico Rampini nel libro La notte della sinistra. «Quel che sta accadendo davvero in Africa» scrive, «non pare interessare nessuno, neanche i più progressisti. Da quando “aiutarli a casa loro" è diventato uno slogan di destra (incredibile ma vero), alla sinistra più militante interessano solo le imbarcazioni che solcano il Mediterraneo. E non importa se in termini numerici questi disperati sono una frazione minuscola degli stessi profughi che rimangono in Africa. In Etiopia, per esempio: 4 milioni di rifugiati nazionali ed esteri, fuori dalla portata della Sea Watch e delle altre Ong impegnate nel Mediterraneo. Ma sia chiaro», conclude, «sono ovviamente più numerosi quelli che lavorano sul campo, ma per loro la visibilità mediatica è pari a zero».
E chissà che il clamore e l'indignazione di molti intellettuali non nascondano davvero un certo narcisismo, un autocompiacimento umanitario a buon mercato, l'autocontemplazione dei propri buoni sentimenti progressisti e alla fine la ricerca di un po' di visibilità mediatica. Dovrebbe far riflettere la pagina che Fëdor Dostoevskij - formidabile esploratore dei meandri della psiche umana - dedicava nei Demoni a un certo Karmazinov.
«Circa un anno fa», scrive Dostoevskij, «lessi in una rivista un suo saggio, scritto con enormi pretese di poesia ingenua e per giunta psicologica. Egli descriveva il naufragio di un piroscafo, in un luogo presso la costa inglese, di cui era stato testimone e nel quale aveva visto come venivano salvati i naufraghi e tratti a riva gli annegati. Tutto questo saggio, abbastanza lungo ed eloquente, l'aveva scritto con l'unico scopo di mettere in mostra se stesso. Si leggeva infatti fra le righe: “Interessatevi di me, guardate com'ero in quei momenti! Che v'importa di questo mare, della tempesta, degli scogli, della nave in frantumi? Tutto questo ve l'ho descritto a sufficienza con la mia penna potente. Perché guardate quell'annegata col bimbo morto fra le braccia morte? Guardate piuttosto me, come non ho potuto reggere a quello spettacolo e mi sono girato dall'altra parte. Ecco che gli volto la schiena; eccomi pieno di orrore e incapace di guardarmi indietro; socchiudo gli occhi: com'è interessante, non è vero?" ».
- Dopo che gli hanno staccato la spina, il piccolo ha respirato da sé. L'udienza bis è una beffa: può andare a casa, non al Bambino Gesù.
- Oltre al Vaticano, anche la politica italiana sostiene la famiglia. Giorgia Meloni e la Lega: «Il governo intervenga».
- L'Inghilterra è la culla del pensiero eugenetico dagli inizi del Novecento. L'utopia? Rafforzare la razza selezionando i migliori.
I medici non se lo sarebbero mai aspettato. Quando lunedì alle 9.17 inglesi (le 22.17 in Italia) hanno staccato il respiratore ad Alfie Evans, erano convinti che in un lampo avrebbe smesso di vivere. Invece il bimbo di 23 mesi, che soffre di una malattia neurologica ed è finito al centro di una battaglia legale e anche etica, li ha smentiti senza riserve. Ha compiuto una specie di miracolo, piccolo come le manine dei bambini della sua età, grande come il cuore dei genitori che da mesi combattono per lui. Dopo lo spegnimento del ventilatore, Alfie Evans ha continuato a respirare, mentre fuori dall'Alder hey hospital di Liverpool circa duecento dei suoi sostenitori manifestavano. All'inizio hanno cercato di far breccia nel centro di cura, anche perché sapevano che all'interno c'erano una trentina di poliziotti a controllare che lo spegnimento delle macchine non venisse interrotto e l'idea di vedere trattata una famiglia come una gang criminale li aveva fatti davvero arrabbiare. Più tardi si sono limitati a rimanere fuori dall'edificio, con le candele accese, in una veglia di riflessione e preghiera. Che a qualcosa è servita, dato che Alfie non ha mollato. Anche per questo tanti parlano di un miracolo.
Quando ieri mattina presto suo padre Tom Evans, che ha 21 anni, ma ha ormai la saggezza dell'uomo vissuto, si è presentato davanti ai microfoni della televisione e ha raccontato che il bimbo aveva passato la notte, per i soldati dell'Alfie's army è stato un successo. La battaglia di mamma e papà non si è mai interrotta. Per tutta la notte si sono alternati a fare la respirazione bocca a bocca al loro primogenito malato, rovesciando su di lui decine di baci insieme all'ossigeno. Dopo sei ore senza respiratore, però, il bimbo ha avuto una crisi. I medici si sono rifiutati di dargli ossigeno e acqua, come prevedeva il protocollo concordato con i giudici. Così il padre di Alfie ha reagito. Si è messo a sedere con i dottori e gli ha detto che stavano commettendo un crimine: affamare un bimbo, privandolo di cibo e idratazione, togliergli l'ossigeno. «Abbiamo avuto un incontro di circa quaranta minuti», ha raccontato Tom Evans, «e alla fine mi hanno detto che avevo ragione e avevo sempre avuto ragione». Per Tom e Kate, Alfie non ha mai dato segni di sofferenza. Di fronte alla loro determinazione, i medici hanno accettato di fornirgli acqua e un po' di ossigeno. Nelle ore di una notte di tensione e speranza, Alfie ha combattuto e poi si è addormentato in braccio alla sua mamma, accoccolato su di lei, come è normale che accada per i figli di questa età. Una scena immortalata in una foto e diffusa sui social media, che deve essere risultata incredibile per i medici che considerano il piccolo malato alla stregua di un vegetale, sul quale non conviene insistere con le cure, perchè sarebbero inutili. «Alfie ha fatto il suo dovere e continua a farlo, mettendocela tutta», ha spiegato ai giornalisti Tom Evans ieri mattina. È stata dura e lo sarà ancora, ora dopo ora, ha bisogno di supporto. Quando i medici si sono convinti a dargli acqua e la mascherina di ossigeno per me è stata una benedizione. Non si tratta di una macchina che lo fa respirare, ma di una forma di ossigenazione per il suo corpo».
L'inattesa reazione del piccolo allo spegnimento delle macchine e la perseveranza dei suoi genitori, comunque, hanno avuto un effetto importante. Il giudice d'appello dell'alta corte britannica Anthony Hayden, lo stesso che lunedì aveva dato il permesso di scollegare il respiratore, ha deciso di convocare d'urgenza una nuova udienza per discutere il caso, invitando a Manchester tutte le parti coinvolte. Nel corso di tre ore di dibattito intense, sono state ripercorse le fasi di questa lunga vicenda, analizzate nel dettaglio le prospettive, le convenienze, i rischi. I genitori di Alfie hanno chiesto, come fanno da settimane, di portare il piccolo in Italia, all'ospedale Bambino Gesù di Roma, che si è offerto di assisterlo e ha dato nuove speranze alla famiglia. I dottori dell'Alder hey hospital non hanno cambiato il loro parere, nonostante la diagnosi sulla malattia del piccolo manchi. Alla fine il giudice Anthony Hayden non ha accettato l'idea di concedere alla famiglia di partire subito per l'Italia. Per ora ha chiesto ai medici dell'Alder hey hospital se Alfie Evans potrebbe lasciare l'ospedale e tornare a casa da mamma e papà. Risposta: non prima di cinque giorni. Una richiesta che si può leggere in due modi. Da un lato si può supporre che, senza cure mediche, il piccolo sia destinato a spegnersi. D'altro canto questa proposta offre anche una chance. Perché una volta dimesso dall'ospedale, il potere dei medici e dei giudici sul futuro del bambino potrebbe venire meno e allora potrebbero essere i genitori a decidere del suo futuro. E un'aeroambulanza per l'Italia sarebbe già pronta a decollare. Ipotesi, finché l'ospedale non fornirà la sua risposta. Di nuovo per Alfie si tratta di attendere. E, ancora di più questa volta, di tenere duro.
Il Vaticano non si rassegna: «Volontà quasi fisica di salvarlo»
Nel dibattimento il giudice Hayden, che ha criticato alcune persone vicine alla famiglia per aver fornito «illusioni», ha escluso che il piccolo Alfie possa essere trasferito a Roma o a Monaco e ha chiesto all'Alder hey hospital se il bambino avrebbe potuto però ritornare a casa. I medici si sono barricati dietro al clima «ostile» che si è venuto a creare intorno all'attività dell'ospedale e per questo hanno affermato di non poter far uscire Alfie prima di 3 o 5 giorni. E comunque quella di «mandarlo a casa non è una decisione che si può prendere su due piedi». Insomma, gli inglesi tengono duro, Alfie non va né a Roma, né a casa, e chiudono ancora la porta ai genitori Thomas e Kate scommettendo sul fatto che comunque la vita del piccolo Evans debba terminare.
Mentre ancora si attendeva il risultato dell'udienza, il Consiglio dei ministri a Palazzo Chigi deliberava «il conferimento della cittadinanza italiana ad Alfie Evans, nato a Liverpool (Gran Bretagna) il 9 maggio 2016». Si forniva così l'atto di ratifica formale alla concessione della cittadinanza al piccolo paziente inglese, «in considerazione dell'eccezionale interesse per la comunità nazionale ad assicurare al minore ulteriori sviluppi terapeutici, nella tutela di preminenti valori umanitari che, nel caso di specie, attengono alla salvaguardia della salute».
Un altro tassello andava al suo posto, mentre si rincorrevano le voci che un aeromobile con i medici dell'ospedale vaticano del Bambino Gesù fosse pronto a Liverpool per trasportare Alfie in Italia. Le cose «possibili e impossibili» per trasferire il bambino sono certamente state fatte, così come richiesto esplicitamente da papa Francesco a Mariella Enoc, presidente dell'ospedale pediatrico vaticano Bambino Gesù.
Il vero punto di svolta dell'azione diplomatica e giuridica deve essere ricercato proprio nella discesa in campo diretta del Papa, è grazie a questa pressione che si è realizzato anche l'intervento del governo italiano con la concessione della cittadinanza. In mattinata c'era stato l'intervento del presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani. «La forza dell'amore», ha dichiarato Tajani, «sta sconfiggendo il cinismo di chi ha staccato la spina. Tutto il mio sostegno ad Alfie e ai suoi straordinari genitori».
L'attività diplomatica messa in campo ai massimi livelli era partita da qualche tempo, come conferma alla Verità Emmanuele Di Leo di Steadfast onlus, e la politica ha risposto. Soprattutto la Lega (che ha parlato di «deriva disumana») e Giorgia Meloni (Alfie è ancora vivo, noi non ci arrendiamo»), hanno fatto sentire la loro voce contribuendo a smuovere le acque. In questo contesto si è inserita la forte azione della segreteria di Stato vaticana che ha attivato l'ospedale Bambino Gesù fino a inviare a Liverpool Mariella Enoc, che proprio ieri mattina ribadiva che «l'équipe del Bambino Gesù è pronta a partire con un aereo fornito dal ministro Pinotti», ma «aspetto una chiamata dalla Difesa perché mettano a disposizione un aereo non tanto per l'aereo quanto per i problemi diplomatici».
Monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi, incaricato direttamente dal Papa durante l'udienza a sorpresa concessa al padre di Alfie il 18 aprile, ha sottolineato come la presenza di Enoc a Liverpool ha espresso da un punto di vista «quasi fisico la volontà della Santa sede e del Pontefice che i genitori di Alfie possono avere la libertà di portare il proprio figlio dove sentono che è necessario per la sua cura».
Ma quell'aereo per trasferire Alfie a Roma non si è mai alzato in volo, come peraltro diverse voci insistevano nel dire che mai gli inglesi avrebbero ceduto e concesso di portare il bambino in Italia.
Lorenzo Bertocchi
Eliminare i più deboli, l’antico sogno degli inglesi

LaPresse
Riccardo Cascioli sulla Nuova Bussola Quotidiana scrive: «A proposito di sentenze sul caso Alfie, molti hanno rievocato le leggi naziste. Ma è una ricostruzione riduttiva, perché la vera origine sta nelle società eugenetiche che sono fiorite all'inizio del '900.» Ed è proprio l'Inghilterra la culla della folle ideologia legata all'eugenetica, parto delle menti di Ernst Haeckel e Fracis Galton, discepoli di Charles Darwin. Cascioli spiega che «poggiandosi sulla scoperta dell'ereditarietà dei geni», Haeckel e Galton cercarono di capire come poter «guidare la selezione naturale in modo da migliorare la razza umana. (…) All'inizio si parlava soprattutto di eugenetica “positiva", ovvero attraverso matrimoni selettivi privilegiando quelli tra i migliori elementi della società. Ma ben presto si passa a quella “negativa", cioè il divieto ai deboli di riprodursi». «Quante sofferenze e quante perdite», scriveva Haeckel nel 1904, «potrebbero venire evitate se si decidesse finalmente di liberare i totalmente incurabili dalle loro indescrivibili sofferenze con una dose di morfina».
All'epoca, queste teorie non erano altro che teorie, appunto, dibattute in claustrofobici salotti frequentati da intellettuali «illuminati». Poi, nel corso del Novecento, sono entrate indisturbate nella nostra quotidianità. Il caso di Alfie ne è una prova. D'altronde fu lo stesso Galton che, in un articolo uscito sull'American journal of sociology nel luglio 1904, scrisse: «il primo e principale punto è assicurare la generale accettazione intellettuale dell'eugenetica come studio ricco di speranze e della massima importanza. Poi lasciamo che i suoi princìpi penetrino nel cuore della nazione, la quale li metterà in pratica in modi che non possiamo pienamente prevedere».
Fu anche in risposta a questo articolo che Gilbert Keith Chesterton pubblicò nel 1922 un libro oggi pressoché sconosciuto, intitolato Eugenetica e altri malanni. In questo piccolo volumetto, il grande scrittore inglese mostra ancora una volta la sua vena profetica schierandosi contro le folli idee eugenetiche.
Nel primo capitolo si legge: «esiste oggi un piano d'azione, un indirizzo di pensiero, collettivo e inconfondibile come tutti quelli di cui occorre tener conto per delineare il processo storico. È una realtà concreta come il Movimento di Oxford (…). È chiamata per comodità “eugenetica", e che sia da distruggere mi propongo di dimostrarlo nelle pagine seguenti».
Per Chesterton l'eugenetica non era una semplice dottrina filosofica, ma un errore, una potenziale causa di danni irreversibili da estirpare alla radice. «La cosa più saggia del mondo è gridare prima del danno» aggiunge, «gridare dopo che il danno è avvenuto non serve a nulla, specie se il danno è una ferita mortale».
Purtroppo il suo monito è rimasto inascoltato, specialmente nella sua Gran Bretagna, come dimostra la vicenda di Alfie. La sua vita è stata ufficialmente giudicata «inutile», come se si trattasse di un vecchio soprammobile, una macchina da rottamare. Un vero e proprio sguardo disumanizzante sulla realtà che ha origine, secondo Chesterton, nel materialismo, «che trapela dal modo di esprimersi di un uomo, anche se parla di orologi o di gatti o di altre cose lontanissime dalla teologia. La caratteristica dello stile ateo», prosegue, «è di scegliere istintivamente la parola che suggerisce che le cose sono cose morte; che le cose non hanno un'anima».
Nel caso di Alfie, i giudici e i medici che si sono pronunciati per la sospensione del sostegno vitale del bambino hanno avuto la «sfortuna» di imbattersi in due genitori eroici e combattivi. Per fermarli è stato necessario il ricorso alle forze di polizia.
Chesterton non esiterebbe a parlare di una persecuzione perpetrata ai danni della famiglia Evans. In Eugenetica ed altri malanni, infatti, sottolinea: «non ho paura della parola “persecuzione" quando è attribuita alle chiese; e non è minimamente come termine di biasimo che la attribuisco agli uomini di scienza. È un termine di realtà legale. Se esso significa l'imposizione mediante la polizia di una teoria ampiamente contestata e indimostrabile in via definitiva (come l'“inutilità" della vita di un bambino malato, ndr), oggi a perseguitare non sono i nostri preti, ma i nostri dottori».
Le parole del corpulento autore inglese sconvolgono per la loro portata profetica. Oggi sembra davvero di vivere dentro l'incubo prefigurato con dolore da Chesterton. Come uscirne? Tornando a guardare l'uomo da uomo, come creatura voluta da Dio e da lui dotata di un'anima e una vita inviolabile, perché «la religione» citando ancora una volta Chesterton, «è la difesa pratica di qualsiasi idea morale che debba essere popolare e debba essere battagliera. E il nostro ideale, se vuole sopravvivere, deve essere entrambe le cose».
Michelangelo Socci
Nell'ipocrisia di quella nuova religione imperiale che è il «politically correct», i due campioni che s'impongono – almeno sui media - sono Barack Obama e Giorgio Mario Bergoglio.
Infatti ieri – il gran sacerdote dell'ideologia dominante, Eugenio Scalfari – li ha celebrati insieme, con grande uso di incenso, per due loro discorsi dal «medesimo contenuto».
La sintesi dell'omelia scalfariana è la seguente: «Entrambi i discorsi chiedono di lottare contro la violenza e la tirannide, per far trionfare la pace, la libertà e l'uguaglianza».
Infatti Obama ha fatto quel discorso pacifista all'Onu poche ore dopo che la sua aviazione – che si trova abusivamente in Siria – aveva compiuto una strage di soldati siriani (ne ha ammazzati 63), sostenendo ipocritamente che è stato «un errore» (senza peraltro scusarsi). Di fatto spazzando via così la tregua e rischiando di dar fuoco alle polveri di una guerra più vasta.
Mentre Bergoglio ha pronunciato le sue parole – per la pace, come dice Scalfari – alla parata sincretista di Assisi, dove il Papa argentino aveva invitato tutti i capi religiosi, tranne il Dalai Lama per non dispiacere al regime comunista cinese. Questo per dire quanto si voglia «far trionfare la pace e la libertà», come dice Scalfari.
Del resto basterebbe considerare l'atteggiamento di Obama verso il regime saudita o quello pachistano e l'atteggiamento di Bergoglio verso i regimi cinese e cubano, per capire se davvero possiamo considerarli due paladini della lotta alla tirannide.
Nel discorso di Assisi – andando sempre a caccia di slogan – Francesco ha affermato che «solo la pace è santa, non la guerra». Una banalità che – a ben vedere – è anche falsa, perché le dittature più disumane – come la suddetta Cina o la Corea del Nord o i regimi islamisti – vivono in regime di «pace», in quanto reprimono crudelmente ogni dissenso e ogni opposizione, ma non si vede cosa abbia di santo questa loro «pace». Invece talvolta è moralmente giusto impugnare le armi per difendere la propria terra, per difendere gli innocenti e gli indifesi.
Non è forse giusto – ad esempio – che il popolo curdo combatta contro l'Isis che minaccia di infliggergli gli orrori che ha inflitto agli yazidi (e soprattutto alle yazide)? E noi italiani il 25 aprile di ogni anno non celebriamo forse la lotta armata all'occupatore nazista, fatta da resistenti italiani, dalle truppe alleate e dall'esercito italiano del governo del Sud?
E coloro che – su esortazione dei papi del tempo – combatterono a Lepanto o sotto le mura di Vienna per impedire ai Turchi di invadere l'Europa e ridurla come avevano ridotto Bisanzio, non combatterono forse una guerra giusta?
Naturalmente ha del tutto ragione il Papa quando afferma che «non si uccide in nome di Dio», ma anche questa è una mezza verità (quindi una falsità) se non si aggiunge che ci sono religioni che si impongono così, con la forza e la violenza.
Affermare, per esempio, come fanno Obama e il Papa, che l'Isis non è musulmano è una grande menzogna (come ha spiegato padre Samir, un grande esperto di Islam).
Non si combatte veramente il terrorismo se non si riconosce anzitutto la verità dei fatti. Tanto meno lo si combatte se si minimizza e quasi si giustificano certe reazioni, come quando il Papa, dopo la strage di Charlie Hebdo, fece quell'infelice dichiarazione sul «pugno» che spetta a chi offende la mamma.
O quando, di ritorno da Cracovia, non volendo qualificare come islamico il terrorismo ha affermato che «tutti i giorni sui giornali» legge di «violenze in Italia ad opera di Cattolici battezzati».
O addirittura quando, in un'intervista alla Croix del 17 Maggio scorso, dichiarava che «l'idea di conquista è inerente all'anima dell'islam. Ma si potrebbe interpretare, con la stessa idea di conquista, la fine del vangelo di Matteo, dove Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni».
Si minimizza e si banalizza il crimine del terrorismo anche quando si dichiara (come Papa Bergoglio alla Giornata mondiale della gioventù) che «le chiacchiere sono una forma di terrorismo». Se tutto è terrorismo, nulla è terrorismo.
Lo scorso 22 settembre nella Sala Clementina rivolgendosi ai giornalisti, Francesco è tornato a parlare di «terrorismo» anche in riferimento alla stampa e ha aggiunto: «Il giornalismo non può diventare un'arma di distruzione di persone e addirittura di popoli. Né deve alimentare la paura davanti a cambiamenti o fenomeni come le migrazioni forzate dalla guerra o dalla fame».
Se si cade sotto questi anatemi solo perché si vorrebbe limitare e contenere la marea migratoria, allora si capisce che c'è pure un secondo motivo per cui il Papa non vuole avere a che fare col Dalai Lama, il quale in un'intervista ad un giornale tedesco ha affermato che, nonostante la comprensibile compassione che si prova di fronte ai migranti, «sono troppi. L'Europa e la Germania non possono diventare arabe».
Del resto anche la posizione che gli Stati Uniti di Obama hanno assunto nella guerra in Siria, e in genere verso i Paesi musulmani, non può certo essere qualificata come lotta senza quartiere al terrorismo, alla tirannide e come difesa dei diritti umani. La presidenza di Obama non sarà ricordata come un contributo alla stabilità e alla pace. Nonostante Scalfari.




