2023-04-24
Alberto Brambilla: «Ecco perché non ci servono migranti»
Alberto Brambilla (Imagoeconomica)
L’esperto: «Le aziende chiedono più stranieri, ma gli italiani senza un lavoro sono 13 milioni. Molto più che in altri Paesi europei. Bisogna cambiare il sistema di sussidi. La natalità? Dal 2045 riprenderà a crescere».Professor Alberto Brambilla - docente ed esperto di welfare nonché presidente di Itinerari Previdenziali - siamo in piena emergenza lavoro. Ma a mancare sono i lavoratori, non il lavoro. Concorda? «Assolutamente sì! La cosa che mi ha proprio stupito non è stato tanto il cosiddetto decreto flussi 2023 grazie al quale sono stati di fatto regolarizzati 83.750 extracomunitari. Quanto, soprattutto, le affermazioni di Confindustria e di Coldiretti. Queste hanno detto che se non troviamo 100.000 persone che lavorino nei settori turismo e agricoltura, le relative filiere si fermeranno».Cosa la stupisce?«Da una nostra ricerca su dati Istat, emerge che in Italia gli individui in età da lavoro sono 36 milioni circa. Quelli che lavorano non arrivano a 23,3 milioni. Ma come è possibile che su 13 milioni di potenziali occupati non si trovino 100.000 persone che vadano a lavorare con un contratto peraltro regolare?».Come se lo spiega?«Ho fatto una controprova. L'Istat ci dice che gli italiani in povertà assoluta (che arrivano a malapena alla seconda settimana) sono 5,6 milioni. Quasi triplicati rispetto al 2008 nonostante abbiamo raddoppiato la spesa per l’assistenza sociale. Gli italiani in povertà relativa (che arrivano alla terza settimana o poco più) sono 8,6 milioni. In tutto 14,3 milioni di persone che dicono di fare fatica a mangiare e che non hanno i soldi per curarsi e in tantissimi fanno la coda alle Caritas per mangiare. Possibile che anche su 14,3 milioni non troviamo 90-100.000 persone che vadano a lavorare? Ai miei tempi il mio povero papà lavorava in Pirelli e per mantenere i bambini dopo 9 ore di nerofumo faceva un secondo lavoro. È pericoloso non capire questi numeri!».La Francia ha più o meno gli stessi abitanti dell’Italia. Ma i francesi che lavorano sono 34 milioni. Più di dieci milioni che in Italia. Lo afferma lei!«È cosi e anche in Germania abbiamo la stessa situazione. 81 milioni di abitanti e gli occupati sono 41 milioni. È vero, lì ci sono i mini-job che prevedono un orario ridotto (da 4 a 6 ore al giorno). Ma rimane il fatto che da loro mediamente lavora tra il 52% ed il 55% della popolazione contro il nostro 39%».Allargando lo sguardo in Europa?«Fino a ieri secondo Eurostat l’Italia era il penultimo Paese come tasso di occupazione. Ora siamo gli ultimi superati pure dalla Grecia. Il nostro tasso di occupazione è pari al 60% della popolazione di riferimento, quella che va da 15 a 64 anni, anche se in Italia l’età legale per andare in pensione è a 67 anni. Ma il tasso di occupazione medio europeo è pari al 71%. In Olanda si arriva addirittura all’80%. E l’Ocse ci dice, giustamente, che in Italia dovremmo avere almeno quattro milioni di lavoratori in più».Mi verrebbe da pensare che il nostro problema sia un sistema di assistenza che di fatto - fra reddito di cittadinanza e Naspi - disincentiva la ricerca attiva del lavoro.«Esattamente; il problema è solo questo! Prenda ad esempio i lavoratori stagionali quali, ad esempio, i balneari. Prima del Jobs Act noi avevamo la seguente situazione: lavoravano grosso modo sei mesi e nei successivi sei erano assistiti dall’indennità di disoccupazione. Con la riforma Renzi-Poletti si è ridotta la Naspi: se hai lavorato nell’ultimo periodo 8 mesi al massimo puoi fare 4 mesi e l’ex ministro Orlando la voleva riportare al 100% del tempo lavorato: in questo modo c’è gente che da 20 anni prima lavorava la metà dell’anno e poi era a carico Inps, ora un terzo, e di questi lavoratori tra le varie casse integrazioni e sussidi ne abbiamo circa 5 milioni che lavorano alcuni mesi e poi arrivano a fine anno con il sussidio di disoccupazione. Una follia italiana. Peraltro, Paesi come Francia e Germania hanno un servizio di collocamento molto più efficiente rispetto al nostro e fatti ripetitivi di questo tipo non esistono».Quanto costa l’assistenza in Italia?«Nel 2008 spendevamo 73 miliardi; nel 2022 quasi 150 miliardi più circa 11,5 miliardi da parte degli enti locali, che però è una stima in quanto in Italia nel 2023 manca ancora una completa contabilità nazionale: nei comuni, ad esempio, il costo dell’automobile utilizzata dall’assistente sociale sta nel parco macchine, l’assistente nei costi del personale e cibo, e altri presidi sanitari per indigenti e anziani fra i materiali di consumo. Ogni anno immettiamo nell’economia 160 miliardi esenti da tasse e da dichiarazione dei redditi da tassazione per assistenza; in più 165 miliardi al netto dell’Irpef per le pensioni. In tutto 325 miliardi di risorse destinate agli italiani oltre a Cig, bonus (tantissimi) e Naspi. Chi lo fa fare di cercare un lavoro?».Quasi la metà del bilancio pubblico mentre Elon Musk dice che l’Italia sta scomparendo.«Lui farebbe bene a pensare ai missili che lancia nello spazio ma esplodono in volo».Non esiste un problema di denatalità in Italia?«Considero il fenomeno, così come l’invecchiamento della popolazione, all’interno di un ciclo storico. Fatto prima da una grande accelerazione e poi da una grande decelerazione. Consideriamo prima il fenomeno a livello globale e poi a livello italiano. Nel 1945 sulla Terra eravamo poco meno di due miliardi di persone; in 78 anni abbiamo superato gli 8 miliardi. Ma per dare da mangiare a tutti questi cristiani servono esseri viventi animali: secondo la Fao, 1,4 miliardi di bovini, 1,7 miliardi di ovini e caprini, la maggior parte in allevamenti intensivi, incivili e responsabili di oltre il 30% dell’emissione di gas serra. Calcolandone le biomasse (il peso) è come se sulla Terra fossimo in 33 miliardi di unità». Rimane il fatto che in Italia non si fanno figli. Influisce il nostro sistema di assistenza?«Tutti si svegliano adesso. Consideri che con un tasso di crescita del 2% annuo una data popolazione in 35 anni raddoppia. I rischi sono altri come quelli legati al clima: le Nazioni Unite ci dicono che avremo 260 milioni di migranti climatici più altri 300-400 milioni di migranti economici; questi sono i problemi per Italia e Europa».Mi sta sempre più convincendo che questo è un problema, però.«In Italia come nel resto del mondo sviluppato più aumenta l’istruzione e l’autonomia delle donne meno figli si fanno; il 60% degli studenti universitari (compresi i miei) sono ragazze. Parlando con loro mi dicono che a 24 anni dopo la laurea non intendono diventare subito madri. Vogliono avere il diritto di fare la stessa carriera dei colleghi maschi. Non fare le casalinghe. Se fanno un figlio a 26 anni possono avere tutti gli asili nido del mondo. Ma il figlio è loro. In tanti Paesi occidentali si prendono iniziative per stimolare la natalità. Dal Copulation Day al Copulation Holiday. Ferie pagate per darsi da fare a letto e fare figli. Sono tutte fallite. In Corea del Sud hanno speso inutilmente 120 miliardi. Gli incentivi per il secondo e terzo figlio in Cina non hanno funzionato. Putin ha pensato a veri e propri premi. Come faceva Mussolini. La verità è che più le donne sono acculturate e meno figli fanno. Le ragazze in Kenya o Tanzania che si fermano alla scuola primaria fanno più di due figli. Se si fermano alla secondaria è difficile che arrivino a due figli. Le ragazze che vanno all’università ancora di meno. Non ci pensano proprio a tornare nei villaggi natii».Intuisco che non gradisce la trovata del ministro di Giorgetti: «due figli e niente tasse».«Uno scivolone. Il fisco dovrebbe essere neutrale in ogni tipo di scelta. Figurarsi se mi piace la prospettiva di far pagare più tasse al single».Quindi il problema della denatalità è irrisolvibile?«Ma si arriva ad una soluzione. Tanto per cominciare in Italia dovremmo prenderci cura seriamente della popolazione che sta invecchiando con cicli di prevenzione sanitaria accurati. Perché comunque ancora oggi a 65 anni molte persone sono in grado di lavorare ancora bene e tanto e fare volontariato pur di avere un ruolo sociale. Rimane il fatto che l’istruzione femminile è il modo migliore per fermare a livello mondiale l’esplosione demografica. Dove questa aumenta la popolazione smette di aumentare. La Cina nel 2064 avrà meno di 900 milioni di abitanti. L’Italia nel 2045 avrà 54 milioni di abitanti rispetto agli attuali 58,6 milioni. E quello sarà il picco dell’invecchiamento. Dopodiché la popolazione inizierà di nuovo a crescere».Eh?«Guardi, la demografia è una scienza esatta. Nel dopoguerra sono nati i baby boomers con tassi di natalità anche sopra il 2% (800.000 nascite all’anno). La mortalità infantile si è azzerata rispetto ai 400 decessi ogni mille nati nei primi dieci anni di vita. Infine l’aspettativa di vita in media è aumentata di quasi 20 anni. Poi pian piano i tassi di natalità si sono ridotti all’attuale 1,24% per donna. La popolazione invecchia e diminuisce fino al 2045. Quando i boomers passeranno a miglior vita, la popolazione aumenterà di nuovo e si ringiovanirà. Saremo 4-5 milioni in meno ma forse vivremo meglio. Nel 2045 gli attuali 400.000 nati ogni anno che ci sembrano così pochi faranno di nuovo crescere la popolazione. Questa è come fosse un palloncino: non può gonfiarsi o sgonfiarsi più di tanto».Tridico ha detto che gli immigrati ci pagano le pensioni...«Pura ideologia. Su 23 milioni di lavoratori gli immigrati sono 2,9 milioni. Questi accumulano la pensione col metodo contributivo. Sono soldi che dovremo restituire quando vanno in pensione. Infine, due immigrati su tre non lavorano. Ma hanno ovviamente bisogno di servizi quali scuola e sanità. Contributi pensionistici al massimo stimati in 12 miliardi (Fondazione Moressa) oppure 8 (Boeri) vanno confrontati con una spesa per servizi stimabile in 30 miliardi».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)