2020-02-24
Aiuto, ci stiamo perdendo l'autonomia
Il governo lavora per affossare le richieste dei governatori del Nord. Ma all'estero è uno dei pochi sistemi che funzionano.L'ex ministro Erika Stefani: «L'esecutivo non fa che perdere tempo, Boccia parla ma è tutto fermo per non produrre ulteriori attriti in questa maggioranza. Ma così si ignora la voce del popolo che ha enormi aspettative».Lo speciale contiene due articoli«L'autonomia alle regioni? La darò io nel modo giusto». Così aveva promesso nel suo roadshow nei territori del Nord (neanche fosse un proconsole di Domiziano imperatore) prima di Natale. Ma il modo giusto del ministro Francesco Boccia è il famoso sistema mago Silvan: risolvere il problema facendolo scomparire dai radar. Così è stato e l'autonomia di chi l'aveva chiesta con il referendum (Lombardia e Veneto) e di chi l'aveva negoziata con una certa condiscendenza per affinità politiche (l'Emilia Romagna) è tornata a essere un miraggio all'orizzonte.Al governo giallorosso, impegnato sui decisivi fronti della sopravvivenza, dell'annuncio fine a sé stesso e dell'appeasement all'Europa sui migranti, delle richieste dei cittadini lombardi, veneti ed emiliani non importa nulla. Ma nello stile andreottiano di Giuseppe Conte non è necessario dirlo, basta farlo capire con il silenzio. E tenere aperto il ministero delle Autonomie e Affari regionali, solo per poter dire: siete nei nostri pensieri. Quella che avrebbe potuto essere una primavera di novità, un primo reale rilancio del Paese al traino di regioni locomotiva, rimane un inverno del nostro scontento, un'ipotesi di accordo che vede ogni volta i governatori stilare il protocollo, portare la penna stilografica. E il governo non firmare. Boccia si ferma alle frasi a effetto come «Vedrete che farò io ciò che non è riuscita a fare la ministra leghista Erika Stefani», «Siamo pronti a concedere l'autonomia differenziata». Ma nulla si muove perché il Pd vuole così. A differenza del Movimento 5 stelle, che due anni fa aveva appoggiato il referendum in Lombardia e Veneto (anche se una volta al governo ha dovuto subire il pressing difensivo del Quirinale), il centrosinistra ha sempre osteggiato un'autonomia vera. Il Pd nordista e postfordista ha sempre avuto due tabù: il federalismo compiuto e le partite Iva. Due totem intangibili che negli ultimi vent'anni sono costati perdita di consenso e legnate elettorali, ma invano. Il pregiudizio resta, e l'autonomia studiata da Boccia - fra pesi e contrappesi - è l'immagine di questa contraddizione. È il modo migliore per continuare a frenare la spinta del diciassettesimo Land della Germania (la Lombardia, con il pil superiore a quello della Baviera), per appesantire ogni gesto, ogni movimento con la burocrazia centrale. Dietro un malinteso senso della solidarietà (gli ospedali e le università del Nord, soprattutto di Milano, sono già i meglio funzionanti e i più utilizzati d'Italia) si vuole nascondere e negare la necessità di una maggiore libertà di manovra per garantire competitività imprenditoriale.L'autonomia abbandonata in un angolo come un cassonetto dell'immondizia alla Garbatella è la fotografia di una sciatteria politica senza speranza. Ma anche quella proposta da Boccia, che ha nei Comuni il centro nevralgico del sistema, non è vera autonomia. «Quel testo è irricevibile», aveva tuonato Luca Zaia. La bozza quadro stabiliva di affidare ai Comuni le funzioni amministrative, di coinvolgere le Città metropolitane, di affidare a un commissario ministeriale la definizione dei Lep (i livelli essenziali di prestazione da attuare con il principio dì sussidiarietà), di prevedere vincoli a favore delle regioni più svantaggiate. Sussidiarietà, solidarietà e perequazione, con il denaro trasferito direttamente da chi ha di più a chi ha di meno. Uno stupendo protocollo da onlus, un cordone sanitario per bloccare immediatamente con la mano sinistra ciò che si sta per concedere con la destra. Con un problema insuperabile: se Lombardia e Veneto volessero garantire più servizi ai cittadini dovrebbero farlo a parità di costo o alzando la pressione fiscale. Come dire, ripartire da zero.Mentre i 15 milioni di abitanti di Lombardia e Veneto continuano a spingere, rappresentati da Attilio Fontana e Luca Zaia, i 4,5 milioni di emiliani e romagnoli hanno rinfoderato le speranze dopo la vittoria di Stefano Bonaccini nella corsa alla regione. Proprio lui che aveva fatto scomparire dai manifesti con il suo nome il simbolo del Pd per non confondersi con la casta della politica, il giorno dopo il voto è rientrato nei ranghi, fedele alla linea. E l'autonomia non è più una priorità, forse neppure per il Centrodestra. Fratelli d'Italia è statalista per evoluzione naturale. E dentro la pancia della Lega, quella storica e postbossiana, gira un altro motivo frenante: neppure Matteo Salvini, dopo avere varato con enorme successo la Lega nazionale (dal 4% al 32%, ha ragione lui a prescindere) sarebbe più così entusiasta di una mossa percepita come localistica.Così l'autonomia è tornata a essere un'apparizione scomparente, con o senza le uscite carsiche di Boccia. E sul tema, a forma di pietra tombale, non poteva non arrivare la sentenza delle Sardine, ormai attesa dalle quattro sinistre di governo (copyright di Silvio Berlusconi) come una pronuncia di Cassazione, come una fideistica espressione dell'oracolo Mattia Santori: «Significa divario, ingiustizia e falsa narrazione di un Sud che ha tutte le potenzialità per ripartire. L'autonomia non ci piace». È il segno dei tempi, chi vale zero ha l'ultima parola. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/aiuto-ci-stiamo-perdendo-lautonomia-2645227702.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="con-la-riforma-chi-sbaglia-va-a-casa-per-questo-non-vogliono-approvarla" data-post-id="2645227702" data-published-at="1764254659" data-use-pagination="False"> «Con la riforma chi sbaglia va a casa. Per questo non vogliono approvarla» «La mia impressione è che si vogliano allungare i tempi per non fare nulla e mandare l'autonomia in soffitta. Credo che il ministro Boccia voglia scansare altre occasioni di conflittualità nella maggioranza». Erika Stefani è stata sulle barricate per la riforma sulle autonomie quando era ministro degli Affari regionali nel precedente governo. E ora come senatore della Lega, ma soprattutto come veneta, tiene a precisare: «È un impegno personale che continuo a sentire, nonostante il ruolo di opposizione non offra grandi spazi di manovra». Ma «c'è un esito referendario importante che dove avere una risposta: o siamo una democrazia monca?». I referendum di Lombardia e Veneto hanno ancora un valore? «Al passaggio delle consegne con il ministro Boccia, gli ho ricordato che non si può ignorare la voce del popolo. L'autonomia inizialmente era un sogno, poi, quando è stata inserita nel programma del primo governo Conte, è diventata un'enorme aspettativa. I referendum l'avevano fatta diventare una legittima pretesa. Ora, a due anni dalle consultazioni popolari del novembre 2017, diventa un diffida. Io sono veneta e quando torno a casa vedo tanta disillusione». Boccia nella relazione presentata in Commissione affari costituzionali dice che c'è un disegno di legge quadro. Qualcosa si muove? «Questo disegno di legge non è mai arrivato né alla Affari costituzionali né nella Bilancio. Se c'è, come mai non è in discussione? Il ministro con un decreto il 3 dicembre scorso ha istituito una commissione di studio composta da esperti. Non so su che cosa stiano lavorando. Anch'io avevo creato un comitato di studiosi e non di parte politica. Sta ripercorrendo i miei stessi passi come gli incontri tecnici di mediazione: così si vanifica tutto il lavoro fatto». Il M5s che posizione ha preso? «Non pervenuto. Non è mai chiaro: un giorno erano per il sì, un giorno sulle barricate per il no. Oggi sono dilaniati, divisi su tutto. Sarebbe interessante chiederlo a loro. Soprattutto ai 5 stelle veneti». La cautela del Pd è anche determinata dal timore di creare altre occasioni di frizione con i 5 stelle, o no? «Non lo escludo. E comunque si continua a eludere il problema principale». Cioè? «Mi riferisco al sistema di federalismo fiscale che si vuole adottare. O ci sono altre soluzioni? Ce lo facciano sapere. Nel momento in cui vengono decise le competenze da attribuire alle Regioni che le possono esercitare in modo esclusivo, quali risorse possono utilizzare? Le competenze saranno trasferite a costo zero? Oppure le risorse sono determinate? E come? Ci sono tanti interrogativi che attendono una risposta. Adottiamo il costo storico oppure andiamo verso la definizione dei fabbisogni e dei costi standard? Va anche deciso come trattare l'eventuale risparmio di spesa, cioè se va allo Stato o al bilancio della Regione. Finché non si affrontano questi temi è difficile andare avanti». È un po' gelosa che qualcun altro possa intestarsi una riforma epocale? «Mi creda, nessuna gelosia. Però so quali sono le problematiche, dove è la complessità. Le mie critiche nascono dalla consapevolezza che il tema dell'autonomia non può essere affrontato se manca una solidità nell'azione di governo. Questa maggioranza litiga su ogni argomento, e mi chiedo come possa trovare la forza per fare una grande riforma». Avete intenzione di prendere alcune iniziative per mantenere alta l'attenzione? «Nel precedente governo non c'era momento della discussione che non fosse raccontato dai media. Ora i riflettori si sono abbassati e questo forse è il segnale che si vuole insabbiare tutto. La Lega continua a svolgere un'azione di informazione sui territori sui vantaggi di una riforma, necessaria anche per il rilancio del Sud. L'autonomia va spiegata ai calabresi, ai campani, a chi ancora non è d'accordo. Bisogna fare capire che con l'autonomia chi fa politica e amministra diventa responsabile al 100% nel bene e nel male. Chi amministra male andrebbe finalmente a casa. È per questo che essa fa così paura».
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La consulenza super partes parla chiaro: il profilo genetico è compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio. Un dato che restringe il cerchio, mette sotto pressione la difesa e apre un nuovo capitolo nell’indagine sul delitto Poggi.
La Casina delle Civette nel parco di Villa Torlonia a Roma. Nel riquadro, il principe Giovanni Torlonia (IStock)
Dalle sue finestre vedeva il Duce e la sua famiglia, il principe Giovanni Torlonia. Dal 1925 fu lui ad affittare il casino nobile (la villa padronale della nobile casata) per la cifra simbolica di una lira all’anno al capo del Governo, che ne fece la sua residenza romana. Il proprietario, uomo schivo e riservato ma amante delle arti, della cultura e dell’esoterismo, si era trasferito a poca distanza nel parco della villa, nella «Casina delle Civette». Nata nel 1840 come «capanna svizzera» sui modelli del Trianon e Rambouillet con tanto di stalla, fu trasformata in un capolavoro Art Nouveau dal principe Giovanni a partire dal 1908, su progetto dell’architetto Enrico Gennari. Pensata inizialmente come riproduzione di un villaggio medievale (tipico dell’eclettismo liberty di quegli anni) fu trasformata dal 1916 nella sua veste definitiva di «Casina delle civette». Il nome derivò dal tema ricorrente dell’animale notturno nelle splendide vetrate a piombo disegnate da uno dei maestri del liberty italiano, Duilio Cambellotti. Gli interni e gli arredi riprendevano il tema, includendo molti simboli esoterici. Una torretta nascondeva una minuscola stanza, detta «dei satiri», dove Torlonia amava ritirarsi in meditazione.
Mussolini e Giovanni Torlonia vissero fianco a fianco fino al 1938, alla morte di quest’ultimo all’età di 65 anni. Dopo la sua scomparsa, per la casina delle Civette, luogo magico appoggiato alla via Nomentana, finì la pace. E due anni dopo fu la guerra, con villa Torlonia nel mirino dei bombardieri (il Duce aveva fatto costruire rifugi antiaerei nei sotterranei della casa padronale) fino al 1943, quando l’illustre inquilino la lasciò per sempre. Ma l’arrivo degli Alleati a Roma nel giugno del 1944 non significò la salvezza per la Casina delle Civette, anzi fu il contrario. Villa Torlonia fu occupata dal comando americano, che utilizzò gli spazi verdi del parco come parcheggio e per il transito di mezzi pesanti, anche carri armati, di fatto devastandoli. La Casina di Giovanni Torlonia fu saccheggiata di molti dei preziosi arredi artistici e in seguito abbandonata. Gli americani lasceranno villa Torlonia soltanto nel 1947 ma per il parco e le strutture al suo interno iniziarono trent’anni di abbandono. Per Roma e per i suoi cittadini vedere crollare un capolavoro come la casina liberty generò scandalo e rabbia. Solo nel 1977 il Comune di Roma acquisì il parco e le strutture in esso contenute. Iniziò un lungo iter burocratico che avrebbe dovuto dare nuova vita alle magioni dei Torlonia, mentre la casina andava incontro rapidamente alla rovina. Il 12 maggio 1989 una bimba di 11 anni morì mentre giocava tra le rovine della Serra Moresca, altra struttura Liberty coeva della casina delle Civette all’interno del parco. Due anni più tardi, proprio quando sembrava che i fondi per fare della casina il museo del Liberty fossero sbloccati, la maledizione toccò la residenza di Giovanni Torlonia. Per cause non accertate, il 22 luglio 1991 un incendio, alimentato dalle sterpaglie cresciute per l’incuria, mandò definitivamente in fumo i progetti di restauro.
Ma la civetta seppe trasformarsi in fenice, rinascendo dalle ceneri che l’incendio aveva generato. Dopo 8 miliardi di finanziamenti, sotto la guida della Soprintendenza capitolina per i Beni culturali, iniziò la lunga e complessa opera di restauro, durata dal 1992 al 1997. Per la seconda vita della Casina delle Civette, oggi aperta al pubblico come parte dei Musei di Villa Torlonia.
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Oltre quaranta parlamentari, tra cui i deputati di Forza Italia Paolo Formentini e Antonio Giordano, sostengono l’iniziativa per rafforzare la diplomazia parlamentare sul corridoio India-Middle East-Europe. Trieste indicata come hub europeo, focus su commercio e cooperazione internazionale.
È stato ufficialmente lanciato al Parlamento italiano il gruppo di amicizia dedicato all’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), sotto la guida di Paolo Formentini, vicepresidente della Commissione Affari esteri, e di Antonio Giordano. Oltre quaranta parlamentari hanno già aderito all’iniziativa, volta a rafforzare la diplomazia parlamentare in un progetto considerato strategico per consolidare i rapporti commerciali e politici tra India, Paesi del Golfo ed Europa. L’Italia figura tra i firmatari originari dell’IMEC, presentato ufficialmente al G20 ospitato dall’India nel settembre 2023 sotto la presidenza del Consiglio Giorgia Meloni.
Formentini e Giordano sono sostenitori di lunga data del corridoio IMEC. Sotto la presidenza di Formentini, la Commissione Esteri ha istituito una struttura permanente dedicata all’Indo-Pacifico, che ha prodotto raccomandazioni per l’orientamento della politica italiana nella regione, sottolineando la necessità di legami più stretti con l’India.
«La nascita di questo intergruppo IMEC dimostra l’efficacia della diplomazia parlamentare. È un terreno di incontro e coesione e, con una iniziativa internazionale come IMEC, assume un ruolo di primissimo piano. Da Presidente del gruppo interparlamentare di amicizia Italia-India non posso che confermare l’importanza di rafforzare i rapporti Roma-Nuova Delhi», ha dichiarato il senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione Politiche dell’Unione europea.
Il senatore ha spiegato che il corridoio parte dall’India e attraversa il Golfo fino a entrare nel Mediterraneo attraverso Israele, potenziando le connessioni tra i Paesi coinvolti e favorendo economia, cooperazione scientifica e tecnologica e scambi culturali. Terzi ha richiamato la visione di Shinzo Abe sulla «confluenza dei due mari», oggi ampliata dalle interconnessioni della Global Gateway europea e dal Piano Mattei.
«Come parlamentari italiani sentiamo la responsabilità di sostenere questo percorso attraverso una diplomazia forte e credibile. L’attività del ministro degli Esteri Antonio Tajani, impegnato a Riad sul dossier IMEC e pronto a guidare una missione in India il 10 e 11 dicembre, conferma l’impegno dell’Italia, che intende accompagnare lo sviluppo del progetto con iniziative concrete, tra cui un grande evento a Trieste previsto per la primavera 2026», ha aggiunto Deborah Bergamini, responsabile relazioni internazionali di Forza Italia.
All’iniziativa hanno partecipato ambasciatori di India, Israele, Egitto e Cipro, insieme ai rappresentanti diplomatici di Germania, Francia, Stati Uniti e Giordania. L’ambasciatore cipriota ha confermato che durante la presidenza semestrale del suo Paese sarà dedicata particolare attenzione all’IMEC, considerato strategico per il rapporto con l’India e il Medio Oriente e fondamentale per l’Unione europea.
La presenza trasversale dei parlamentari testimonia un sostegno bipartisan al rapporto Italia-India. Tra i partecipanti anche la senatrice Tiziana Rojc del Partito democratico e il senatore Marco Dreosto della Lega. Trieste, grazie alla sua rete ferroviaria merci che collega dodici Paesi europei, è indicata come principale hub europeo del corridoio.
Il lancio del gruppo parlamentare segue l’incontro tra il presidente Meloni e il primo ministro Modi al G20 in Sudafrica, che ha consolidato il partenariato strategico, rilanciato gli investimenti bilaterali e discusso la cooperazione per la stabilità in Indo-Pacifico e Africa. A breve è prevista una nuova missione economica guidata dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Tajani.
«L’IMEC rappresenta un passaggio strategico per rafforzare il ruolo del Mediterraneo nelle grandi rotte globali, proponendosi come alternativa competitiva alla Belt and Road e alle rotte artiche. Attraverso la rete di connessioni, potrà garantire la centralità economica del nostro mare», hanno dichiarato Formentini e Giordano, auspicando che altri parlamenti possano costituire gruppi analoghi per sostenere il progetto.
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