2025-08-01
Aguzzino somalo preso in Germania. Sgozzò un minore: rifiutava lo stupro
Nel riquadro la foto segnaletica di Dhaher contenute nell’ordinanza (Ansa)
Operazione oltre confine della Procura di Palermo. L’uomo, riconosciuto da alcuni stranieri sbarcati a Lampedusa, era un torturatore del centro libico di Bani Walid. In passato era stato anche in Italia.C’è un nome che rimbalza tra i racconti di dolore raccolti nei centri di accoglienza di Lampedusa, nei verbali della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, nei rapporti dello Sco, dello Scico e della Squadra mobile. Quel nome è Mohamad Omar Dhaher, ma nelle prigioni libiche si faceva chiamare Husni o Hamza. Nato in Somalia, 29 anni, è ritenuto dagli inquirenti italiani un tassello importante di una delle più pericolose organizzazioni transnazionali dedite al traffico di esseri umani, alla tortura, al sequestro e persino all’omicidio. Ieri è stato arrestato a Zweibrücken, in Germania, su mandato della Procura antimafia di Palermo. Lo cercavano da mesi. Lo hanno trovato grazie a un profilo Facebook (sul quale pubblicava anche sermoni di imam e frasi del Corano), a una connessione internet e a un volto impresso nella memoria delle sue vittime. Secondo quanto hanno ricostruito gli investigatori, Dhaher era molto più di un semplice anello di congiunzione. Sarebbe stato il carceriere, il torturatore, l’interprete e il picchiatore della safe house di Bani Walid, città libica a due passi da Misurata, descritto così da uno dei testimoni: «Ci hanno portato in un grande magazzino, una sorta di prigione, sita alle porte della città, ove vi erano già tantissime persone, almeno un centinaio, sono certo del numero perché tutte le sere ci contavano per accertarsi che nessuno mancasse». Un centro in cui i migranti, a leggere la ricostruzione dell’accusa, venivano radunati, rinchiusi e seviziati. Le famiglie ricevevano video e telefonate con le urla dei propri cari, insieme a richieste di denaro per il riscatto. E se i soldi non arrivavano in fretta la violenza saliva di livello. Bastoni. Coltellate. Minacce. E a volte, come sarebbe accaduto nel caso del piccolo Mohamed, un minorenne somalo, la morte. La ricostruzione dell’omicidio lascia poco spazio all’immaginazione. Dhaher lo avrebbe accoltellato alla gola e alla schiena perché il ragazzo si era ribellato a un tentativo di stupro. «Gli ha intimato di togliersi i vestiti», ha raccontato un testimone, «ma il ragazzo si rifiutava, dicendo che avrebbe preferito morire». Un abuso che l’aguzzino voleva riprendere per aumentare la pressione sui familiari e accelerare i pagamenti. Ci sono testimoni. E verbali. C’è un’identificazione fotografica. E c’è un mandato d’arresto europeo che ha varcato le frontiere per inchiodare l’uomo che parlava con i trafficanti e picchiava i prigionieri. L’indagine parte da una denuncia. È il 9 giugno 2023 quando un cittadino somalo sbarcato a Lampedusa racconta tutto. Indica Dhaher come il suo carceriere, lo descrive fisicamente, ricorda le botte. E di aver pagato «8.000 dollari per arrivare in Italia». L’uomo ha sottolineato che sarebbe stata sua madre a mandare «6.000 dollari, dopo aver venduto la casa in paese». E siccome mancava ancora una parte della cifra, racconta ancora la vittima, «sono stato filmato mentre mi torturavano». Ma non è l’unico racconto. Altri prigionieri, giunti in Italia dopo essere stati recuperati al largo delle coste siciliane, confermano le violenze e identificano l’uomo grazie a una foto che lo ritrae. Non un’immagine segnaletica, ma uno scatto social, recuperato dal suo profilo Facebook. Da lì parte l’attività di localizzazione. Gli investigatori incrociano indirizzi Ip, movimenti sospetti, informazioni dell’intelligence. L’uomo era transitato in Italia, ma si era poi spostato in Germania. Con un altro nome. Ma indicando la sua vera nazionalità. A Zweibrücken, le autorità tedesche, attivate tramite canali di cooperazione internazionale, lo individuano e lo fermano. L’elenco delle imputazioni è lungo. Dhaher è accusato di «associazione a delinquere», con «finalità di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, tratta di esseri umani, tortura, sequestro di persona e omicidio». Ma anche di aver ricoperto il ruolo di carceriere e torturatore all’interno del campo di prigionia di Bani Walid, agendo come «interprete violento» tra i trafficanti libici e i migranti somali. E di avere ripetutamente vessato i prigionieri, anche con l’uso di bastoni e lame, per forzare i familiari a pagare il prezzo della liberazione. I migranti, inoltre, sarebbero stati trasportati su imbarcazioni fatiscenti verso le coste italiane. Infine l’accusa più grave: avrebbe ucciso il minorenne con crudeltà e in un contesto di schiavitù e coercizione. Le aggravanti sono numerose: il reato è stato commesso da un gruppo armato, composto da oltre dieci associati, in più di uno Stato, con fini di lucro. Il fascicolo aperto dalla Procura antimafia di Palermo è una radiografia impietosa del traffico di esseri umani nel Mediterraneo. In pochi mesi, tra dicembre 2022 e agosto 2023, centinaia di persone sarebbero passate dalle mani di Dhaer e dei suoi complici. Il tutto, per arrivare su un barcone e rischiare la vita in mare. Le autorità stanno cercando altri membri dell’organizzazione, molti dei quali noti solo con i nomi di battaglia: Walid, Muharak, Musa, Bahari, Sadam. E con una descrizione sommaria: un «eritreo» barbuto «con i capelli rasta», un egiziano «palestrato», molto alto e «rasato», un eritreo «maggiolino e basso»». Tutti legati alla rete criminale con base tra Libia e Corno d’Africa. I magistrati ipotizzano l’esistenza di una struttura paramilitare, con cellule operative nei luoghi di transito, nei campi, nei porti, fino ai centri d’accoglienza europei. Quando ha saputo che alcuni dei migranti che aveva traghettato erano diventati dei testimoni a suo carico, non avrebbe esitato a minacciarli: «Bello mio, inutile che dici… tanto sono in Tunisia… pensi di essere fuori pericolo, vero? Ho parlato con tuo fratello e sarà lui a darmi i contatti che mi servono, lui è un tipo responsabile. Quindi se pensi che l’essere in Tunisia ti metter in salvo da me, ti sbagli di grosso, ti romperò anche l’altra gamba». Il messaggio si chiude con questa frase: «Giuro sulla mia religione che ti troverò, figlio di una grandissima…». Ma alla fine, anche grazie a quel messaggio, è stato rintracciato lui.