2020-01-23
È soltanto l'inizio: si va verso la scissione
Giggino se ne va: da ieri non è più il capo politico del movimento 5 stelle. Resta ministro degli Esteri, ma senza avere la responsabilità di dettare la linea al movimento. Da numero uno Luigi Di Maio si auto retrocede a numero zero, ministro fra i ministri, senza più il potere di decidere e di espellere chi non si è messo in riga. Per i grillini è un cambiamento di non poco conto, anche se a dire il vero non si tratta di una sorpresa, ma di una decisione annunciata. Il passo indietro infatti è arrivato un attimo prima che qualcuno facesse un passo avanti per levargli da sotto il sedere la poltrona. Se - come è altamente probabile - domenica i grillini uscissero con le ossa rotte dalla sfida elettorale in Emilia Romagna e in Calabria, l'uomo che negli ultimi due anni ha tenuto in mano le redini della pattuglia pentastellata non ne sarebbe uscito vivo. Di Maio sapeva che il voto del 26 gennaio era per lui un appuntamento esiziale, in grado di porre la parola fine alla sua leadership. Grillo, che già in più di un'occasione ha dimostrato di non amarlo particolarmente e di preferirgli Giuseppe Conte, non gli avrebbe fatto passare liscia l'ennesima sconfitta. E la fronda interna, costituita da Roberto Fico e dagli scontenti che con il nuovo governo non sono riusciti a ottenere nessuno strapuntino, avrebbe fatto il resto. Dunque Giggino ha giocato d'anticipo, sfilandosi un attimo prima che le elezioni di domenica e la conseguente mannaia grillina gli mozzassero la testa.Nei fatti il passo indietro rappresenta una vittoria del presidente del Consiglio, che ormai da mesi mal sopportava l'uomo che lo aveva scelto come premier. Da burattino nelle mani di Di Maio e Salvini, come venne ampiamente rappresentato sulla stampa nazionale e anche durante una seduta del Parlamento europeo, Giuseppe Conte ha strappato i fili con cui il ministro degli Esteri avrebbe voluto eterodirigerlo. Negli ultimi tempi non sono stati pochi i momenti di tensione fra Palazzo Chigi e la Farnesina, come non sono stati isolati i tentativi da parte di Luigi Di Maio di rompere l'intesa venutasi a creare tra il capo del governo e il segretario del Pd. Nicola Zingaretti a un certo punto è arrivato a definire Conte (contro il quale prima di formare il governo si era battuto, chiedendo discontinuità a partire dalla guida dell'esecutivo) un punto di riferimento sicuro per l'intera sinistra, trasformando dunque il premier in un alleato più fidato del leader dei 5 stelle. A questo endorsement Di Maio aveva replicato dopo settimane di scaramucce con un'apertura proprio verso Zingaretti: obiettivo, riprendersi la leadership e tagliar fuori Conte. Una guerra tra il capo politico del movimento e il capo del governo, che certo non è passata inosservata e che, se aggiunta a quella di Matteo Renzi contro il Pd, ha contribuito non solo a bloccare l'azione dell'esecutivo, ma anche a creare una situazione di totale incertezza e confusione che si è riverberata sulla manovra economica, con decisioni salvo intese, ma anche sull'umore generale del Paese, al punto da far sollevare il sopracciglio anche ai più scafati osservatori, i quali si chiedevano fino a che punto il gioco dei conflitti incrociati potesse durare.Ma a cinque giorni dal voto, Di Maio ha deciso di farsi da parte e, come dicevamo, il passo indietro rappresenta un punto a favore di Conte, il quale, per mettere fine al contenzioso, aveva perfino fatto trapelare la possibile nascita di un suo partito dentro il Parlamento. Ufficialmente da Palazzo Chigi sono sempre arrivate smentite al progetto di un gruppo direttamente ispirato dal premier, ma era stato sufficiente lasciar correre la voce per mettere in agitazione il Movimento, già percorso da mille tensioni. Insomma, guerra finita, governo salvo? Tutt'altro. Come ha lasciato intendere Di Maio, le sue dimissioni sono solo un atto della battaglia, perché nel suo messaggio di addio, il capo politico del Movimento non ha taciuto le ragioni del passo indietro e ha puntato il dito sulle guerre interne. Scansandosi un momento prima della sconfitta, il ministro degli Esteri prepara il ritorno, che potrebbe essere anche fuori dai 5 stelle. Da tempo girano indiscrezioni circa la possibilità che Di Maio si metta alla testa di un movimento sudista, una specie di Lega che erediti il consenso che i 5 stelle guadagnarono alle elezioni del 2018, svuotando il bacino del Pd. Un nuovo partito, con i fedelissimi grillini, ma senza Grillo e senza Conte, che poi potrebbe allearsi proprio con la Lega di Salvini. «Perché», commenta un osservatore assai addentro nei segreti della politica, «se in pubblico il capo dei 5 stelle e Salvini non se le mandavano a dire, in privato sono sempre andati d'accordo. Di sicuro litigavano meno di quelli che ci sono ora».