
Si è già parlato molto della crisi del paradigma woke: una moda politica e intellettuale già terminale, dopo un’ascesa altrettanto repentina. Un cambiamento del vento sociale avvertito innanzitutto da quelle piattaforme che per prime avevano cavalcato le fissazioni del nuovo attivismo. Un caso di scuola in questo senso è rappresentato da The Madness, la miniserie televisiva statunitense ideata da Stephen Belber per Netflix.
Uscita pochi mesi fa, è passata sulle prime apparentemente inosservata, non suscitando alcun dibattito degno di nota (persino la relativa pagina Wikipedia, sia in italiano che in inglese, è del tutto povera di informazioni). Eppure, il contenuto di The Madness rappresenta la nuova stagione politico-culturale in maniera folgorante, cosa che forse ha contribuito alla scarsità di attenzione suscitata.
L’aspetto sorprendente della storia pensata da Belber riguarda il fatto che, nelle prime due puntate (in totale sono otto), dipinge un quadro perfettamente coerente con le istanze di Black lives matter: un afroamericano contro tutti, con la polizia dalla parte degli aguzzini. Al centro della trama c’è infatti Muncie Daniels, opinionista di colore della Cnn interpretato da Colman Domingo, che si trova casualmente ad assistere all’omicidio del vicino di casa. Si scoprirà poi che la vittima era in realtà un esponente di estrema destra in incognito, leader del gruppo The Forge e animatore di una newsletter identitaria con lo pseudonimo di Brother14. Muncie riesce a sopravvivere all’agguato degli assassini ma, quando denuncia il fattaccio, viene incolpato lui. Ci siamo: tutto è apparecchiato per una storia di conflitti etnici e razzismo sistemico alla Jordan Peele, sullo sfondo dell’America fascistoide di Donald Trump. Tanto più che il protagonista è descritto come un ex attivista diventato accomodante per la carriera, figlio di un uomo implicato in un omicidio a sfondo razziale. Uno, insomma, che si è estraniato dalla lotta, pur avendo il senso di giustizia sociale nel Dna. Il sentiero verso la redenzione familiare e il risveglio della coscienza militante (che poi è il senso letterale della parola woke: risvegliato) è proprio lì davanti.
In modo del tutto inatteso, tuttavia, la vicenda prende tutta un’altra strada (e ci scusiamo per gli inevitabili frammenti di spoiler che dovremo seminare nel percorso). Tanto per cominciare, nella storia entra presto una comunità antifascista, descritta però con toni tutt’altro che idilliaci: i suoi membri sono fanatici delle armi, fuori di testa, respingenti e per di più infiltrati dai cattivi. Il giudizio negativo su tale ambiente viene ribadito anche dall’agente dell’Fbi Franco Quinones, il vero eroe positivo della serie, che racconta di aver perso un fratello poiché costui si era fatto sedurre dalla propaganda di, testuale, «un branco di coglioni antifa», diventando un fanatico paranoico e finendo per farsi uccidere dalla polizia. La caratterizzazione negativa ricorda in tutto e per tutto quella in genere applicata ai gruppi suprematisti: accolite di estremisti che fanno il lavaggio del cervello e ingenui che cadono nella tana del Bianconiglio ideologico. Solo che stavolta parliamo di antifascisti, il che, su Netflix, non è affatto scontato. In questi anni, i media mainstream hanno coccolato in tutti i modi la sottocultura antifa, facendo finta di non vedere sia i suoi aspetti intrinsecamente violenti, sia il sottofondo psicotico. A giudicare da The Madness, la pacchia parrebbe finita.
Quanto ai nazionalisti bianchi, il giudizio è negativo, certo, ma il loro leader ucciso fa più la figura dell’idealista manipolato da poteri forti (e liberal) che non quella del principe delle tenebre. Anche antropologicamente, il mondo della destra radicale viene criticato senza indulgere nella mostrificazione estetica gratuita.
Maggiore indulgenza viene riservata all’attivismo black, ma anche qui con delle sorprese. Quando Muncie viene salvato da un pazzoide di colore in fissa con i complotti e arrabbiato con il governo «fascista», il protagonista fugge a gambe levate, evitando di sposarne le ossessioni. Asserragliarsi dietro al rancore, al vittimismo e alla rabbia? Non è quella la risposta. E quando, alla fine, il nostro eroe ha la possibilità di chiarire tutto in diretta tv, in un momento di catarsi e riconciliazione, egli rifiuta sdegnosamente le richieste della Cnn, che gli chiede una performance emozionale da povero nero incastrato dai bianchi. La società dello spettacolo che lo aveva ostracizzato è pronta a riammetterlo come eroe antirazzista, ma egli non si fa rinchiudere in questo stereotipo.
Non solo: i veri cattivoni di The Madness, la Spectre che tira i fili del complotto contro Muncie, è qui rappresentata da Revitalize, influente multinazionale del biotech dall’apparenza molto progressista e molto ecologica. Del capo dell’azienda viene detto: «È uno di quelli che distrugge il mondo dicendo di salvarlo». In un teso confronto con una sicaria di Revitalize, Muncie le chiede cosa la spinga a uccidere per conto del magnate, cosa ci sia in lui di così convincente. Il sermone ecotalebano che riceve in risposta dice tutto: «L’integrità del futuro che rappresenta. Sta salvando il pianeta. Dovremmo ringraziarlo. Le autocorrezioni convenzionali non funzionano. Serve ordine. Il mondo oggi ha bisogno di azioni chiare e assolute. Idroelettrico, geotermico, nucleare. È quello che stiamo facendo». Che queste parole siano sulla bocca di una spietata assassina è quasi incredibile.
La pazzia evocata dal titolo è tutta qui: nella manipolazione della verità, delle persone, della società in nome di ideali assoluti, fanatici, allucinati. Una pazzia di cui tutti sono preda, e che non vede cesure manichee tra il bene, tutto da una parte, e il male, tutto dall’altra. Dal vortice della follia se ne esce solo con un’assunzione di responsabilità personale, senza sconti e senza autoindulgenze ideologiche e vittimismi collettivi. E forse la parte che fa più male agli ottimati del pensiero unico è proprio questa.



















