2024-11-28
Addio Giacinto, l’eretico dei fornelli. Il suo Trigabolo diede lezioni di cucina
Giacinto Rossetti (in foto piccola)
Si è spento ad Argenta l’uomo che ha aperto il ristorante-mito, nobilitando i sapori «poveri» del delta del Po. Insieme a lui, una brigata di sbarbati (tra cui chef Barbieri e Corelli) che adesso annovera 52 stelle Michelin.Fu la Bastiglia della cucina: la rivoluzione era un’anima curiosa che andava cercando il meglio nel naturale e lo ricreava immersa in una nebbia padana bucata da una luce d’intelligente follia. L’insegna del Trigabolo era un approdo di stupita felicità. Bussare alla porta di Giacinto Rossetti e dei suoi ragazzi era aprirsi a un’esperienza assoluta e irripetibile. E mai più s’è potuta ripetere nonostante nei decenni si siano fatte riunioni, imitazioni, indebite appropriazioni. Era come se la piazza d’Argenta fosse Abbey Road: una volta sciolti i Beatles della cucina non si potevano più ricomporre, ma solo esaltare nel ricordo. Giacinto Rossetti se n’è andato a 76 anni: era molto malato, corroso da un’infezione, fiaccato da tre bypass. «Ha troppo sofferto», mi confida Igles Corelli che è stato l’artefice in cucina del sogno gastronomico di Giacinto, «e le ultime volte che ci siamo visti, pregavo perché patisse un po’ meno. Eppure mi parlava, mi spronava, mi raccontava nuovi orizzonti, senza mai rimpianti. Quando andavo a passare due ore da lui dicevo a mia moglie: vado a ripetizione da Giacinto». I funerali si faranno domani lì ad Argenta e ci saranno tutti: Igles, poi Bruno Barbieri, Bruno Gualandi che convinsero a diventare pasticciere autore dei mitici bignè fritti al caramello. Aspettano anche la Gina che tirava la sfoglia a mano e Gualtiero Musacchi e ancora Bruno Biolcati, il capostipite dei maître contemporanei e gli ultimi ragazzi: da Marcello Leoni a Marco Ghezzi. Messi insieme i cuochi che in 14 anni sono passati dal Trigabolo fanno 52 stelle Michelin. «La prima volta che ho incontrato Giacinto», mi confida Igles, «avevo un po’ di timore. Aveva questi baffoni e parlava, parlava. Io avevo fatto l’alberghiero, poi nei Caraibi sulle navi da crociera e lui voleva da me un’altra cosa: mi devi mettere in tavola la natura, ripeteva». Era partito da lì Giacinto, dal desiderio-bisogno di scoprire e nutrire prima di tutto la felicità. Figlio di venditori ambulanti di profumi si era fatto commerciante per necessità. Poi aveva adocchiato una pizzeria in centro ad Argenta ed era scattato il sogno: fare il ristorante che mettesse in tavola l’inconsuetudine del consueto. La creatività era semplicemente offrire il meglio: una pizzeria con le tovaglie di Fiandra e bicchieri di cristallo! Dovette fare causa al Comune, e sarà di nuovo il Comune a far chiudere il Trigabolo, per trasformare la licenza. Poi l’incontro con Igles, l’arrivo di Bruno Barbieri quasi imberbe e la voglia di cucinare tutto: il cinghiale, le anitre selvatiche, il pesce che fosse pesce. Giacinto andava su e giù per l’Italia a cercare e comprare il meglio. «Poi ce lo vomitava in cucina», ricorda Igles, «e diceva: fate! E noi abbiamo fatto. Su dieci piatti ne riusciva uno, ma era il top». Fino alle due stelle Michelin, in qualche modo eretiche per qui tempi. Giacinto si era innamorato del Barolo, andava in Langa quando ancora non c’era la prosopopea di oggi e il gastrofighettismo era inesistente. Il Trigabolo aperto nel 1979 chiuse nel 1993 per via di due beccacce non spiumate tenute in frigo. Non si poteva, ma per Giacinto l’anarchia gastronomica era fonte di creatività. Finito il Trigabolo se ne è andato a fare il pescatore in Polonia, poi è tornato a casa tra mille vini e il Sangiovese di Romagna amore di sempre. Con Gianfranco Bolognesi de La Frasca di Castrocaro ne sono stati i mentori. «È stato un periodo fantastico: c’erano la Frasca, il San Domenico a Imola, Paolo Teverini a Bagno di Romagna e noi ad Argenta. La nuova cucina italiana», ricorda Igles, «s’è formata lì. Seguivamo da lontano Gualtiero Marchesi, ma lui era un artista metropolitano, noi si cucinava il delta del Po». Guidati da uno per metà Giovannino Guareschi, per metà Gino Cervi nei panni di Peppone. «La nostra era una brigata anarchica», ricorda Igles. «Il piatto a cui sono più legato è il budino di cipolle al fegato grasso in salsa di zenzero e coriandolo. Era il 1982, lo presentai a un concorso: gli altri avevano fatto la torre degli Asinelli di burro, le teste di leone di pasta. Il giudice guardò il mio Vecchio Ginori col budino e disse: ma dove vai con quella roba lì? E io: guarda che l’ho fatto espresso. Vinsi; fu il segno che la cucina era cambiata: era un piatto di rottura (ora è un piatto nella carta di Massimo Bottura), l’essenza aveva battuto l’apparenza. Poi c’era il Germano reale ripieno di anguilla in salsa di frutti rossi. Siamo stati noi del Trigabolo per primi ad abbinare il pesce alla carne». Apparenti eresie gastronomiche che ora diventano film. A 30 anni dall’ultima cena il regista Mauro Bartoli gira la Storia del Trigabolo, destinato a diventare anche libro. Ci saranno tutti i protagonisti di quell’avventura - da Argenta sono passati tutti gli chef internazionali e mezzo mondo: Andy Warhol lo definiva un’opera d’arte, Francesco Cossiga era cliente fisso - ma mancherà Giacinto. «Mi fa male», confessa Igles Corelli, «ma spero che ci sia la nebbia, lui era l’uomo della nebbia».
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