
Cade anche l’ultima ridotta dopo che Renzi ha abolito il voto capitario: l’istituto nato nel 1871 aveva tentato di resistere con ogni mezzo. Il consolidamento servirà pure a vendere polizze attraverso la rete di sportelli. È caduta la «ridotta in Valtellina», volendo ricordare la trincea, solo immaginata, dove i gerarchi in fuga da Milano intendevano organizzare l’ultima resistenza davanti all’avanzata degli Alleati. Oppure più semplicemente potremmo dire che il tortellino in brodo, tipico piatto modenese di pianura, nutriente e delicato ha divorato il robusto e scorbutico pizzocchero.Con il blitz annunciato ieri da Bper su Popolare Sondrio si chiude l’ultimo varco di orgogliosa autonomia su cui la ex Popolare aveva costruito la sua storia. Anche se la Borsa ieri ha fatto le bizze con le quotazioni in altalena, è ben difficile che la banca valtellinese possa mantenere la sua indipendenza: se il blitz avrà successo totale raccogliendo il 90% delle azioni resterà solo come insegna. Altrimenti sarà una controllata di Bper con limitati spazi di autonomia. Ma anche Gianni Franco Papa, amministratore delegato di Bper, sarà un manager a sovranità limitata. A dettare le strategie è Carlo Cimbri, potente capo di Unipol che delle due banche è azionista di riferimento. Ha bisogno degli sportelli per distribuire le polizze della compagnia. Ed è proprio dall’urgenza di proteggere questa attività che nasce l’arrocco. A Milano c’è Andrea Orcel, gran capo di Unicredit, che si agita molto. Sta provando con Commerzbank ma la strada è sbarrata dal governo tedesco. Guarda a Banco Bpm ma sulla sua strada ha trovato il governo italiano. Vedi mai che con uno dei colpi a sorpresa cui il banchiere romano sta abituando Piazza Affari faccia rumorosamente rotta su Sondrio o su Modena. Da qui il fischio, arrivato da Cimbri, per chiudere la partita. D’altronde era da più di un anno che giravano le voci su possibili iniziative con la regia di Orcel. Meglio evitare sorprese.Per la Banca Popolare di Sondrio è la fine di una lunga storia cominciata nel 1871 per iniziativa di Luigi Luzzatti, padre del credito popolare italiano. Ma è con Piero Melazzini che la banca prende il volo e contemporaneamente mette le premesse per il declino di oggi. Certamente un personaggio fuori dal comune Piero Melazzini: un ragioniere che ha guidato la banca molto meglio di tanti bocconiani. Il suo era ancora un piccolo mondo antico intriso del profumo dei biscotti della nonna. È stato il padrone assoluto dell’istituto dal 1969 al 2014: dapprima direttore generale, poi amministratore delegato, infine presidente. È scomparso il 30 novembre 2015, all’età di 85 anni di cui 63 passati in banca. L’aveva lasciata il 26 aprile 2014. Lontano dalla sua creatura è sopravvissuto solo per pochi mesi. Dominava la banca e il territorio: difficile che deputati, senatori o semplici consiglieri comunali potessero prescindere dal suo sostegno per la campagna elettorale. A un giornalista che aveva tentato un’ avventura editoriale finita male non chiese la restituzione del finanziamento peraltro impossibile. Lo invitò a lavorare a mezzo servizio per la rivista della banca. Avrebbe ricevuto mezza paga. Il resto per rimborsare il debito. Agli azionisti che partecipavano alle annuali assemblee di bilancio (grande rito popolare rigorosamente celebrato di sabato) faceva distribuire i pasti utilizzando le cucine dell’albergo che la banca si era trovata nel patrimonio per via di un mutuo non pagato. Adorato dai soci i cui dividendi, periodicamente, erano irrobustiti da aumenti di capitale a titolo gratuito utilizzando la riserva disponibile. Modalità oggi sostanzialmente scomparsa: la banca assegnava un’azione gratis ogni dieci possedute. Le relazioni con cui accompagnava il bilancio annuale erano pezzi di letteratura. I suoi collaboratori erano intimoriti più dall’ignoranza su un verso di Dante che dai dubbi sul margine d’interesse. Erano i tempi del Mercato ristretto, il listino che ospitava le azioni delle banche popolari. Le contrattazioni si tenevano in orari diversi rispetto al mercato principale. A governarlo erano di fatto, gli uffici titoli delle stesse banche quotate. I prezzi, ovviamente, salivano sempre. Almeno fino a quando non esplose il caso del Banco Ambrosiano.Melazzini teneva Popolare di Sondrio rigorosamente chiusa fra le montagne della Valtellina dove conosceva personalmente gran parte dei correntisti. Solo dopo molte pressioni accettò di aprire la prima filiale a Milano in via Santa Maria Fulcorina. Considerava l’ufficio di rappresentanza a Roma inaugurato dalle parti di Piazza Barberini un obbligo verso la politica e la Banca d’Italia. Era invece un fiore all’occhiello la filiale di Lugano. Mitico il suo dualismo con Giovanni De Censi, gran capo di quello che allora si chiamava Piccolo credito valtellinese. Due banche di medie dimensioni per un’area popolata da 150.000 persone. Guai, però, a parlare di possibile fusione. Anatema. Il finale di partita però è quello di oggi. Il Credito valtellinese finito ai francesi e la Sondrio verso i bolognesi di Unipol. Tra le montagne, evidentemente, non hanno visto arrivare il ciclone Matteo Renzi con la sua legge che imponeva alle prime dieci Popolari italiane di abbandonare il voto capitario (una testa un voto), per diventare società per azioni. Una riforma che a Brescia e a Bergamo, a Verona e a Milano piaceva molto anche se non potevano dirlo pubblicamente. Così la Popolare di Sondrio, come l’ultimo giapponese nascosto nei boschi, si è opposta in tutte le maniera al cambio di statuto. Ha presentato ricorsi a raffica in sede civile e amministrativa. È solo riuscita a guadagnare tempo. Poi quattro anni fa ha capitolato: ha aperto la governance perdendo lo status di Popolare. Da ieri ha perso anche l’indipendenza. Arsenico e vecchi merletti.
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