2022-06-07
Accordo sul grano con la mediazione turca
Mosca e Kiev, con l’aiuto di Ankara, trovano un’intesa di massima sui corridoi per far uscire le navi da Odessa. Il Sultano si impegna sugli sminamenti. Dmytro Kuleba semina dubbi: «Putin potrebbe attaccare». L’Ue insulta: «Cremlino ladro e codardo».Il petrolio fa riabilitare pure Nicolás Maduro. L’embargo è un autogol e i tabù cadono: Stati Uniti e Francia chiedono all’Arabia.Lo speciale contiene due articoli.Più che per arginare l’ormai inevitabile controllo di Vladimir Putin di buona parte del Donbass, è sul grano che si stanno svolgendo le vere trattative diplomatiche. Ucraina e Russia, con la mediazione della Turchia, avrebbero raggiunto un accordo preliminare per sbloccare le spedizioni di prodotti agricoli ucraini da un porto chiave sul Mar Nero. Lo riferisce il quotidiano di Mosca Izvestija, poi ripreso dai media ucraini, citando fonti autorevoli. I militari turchi saranno impegnati nello sminamento e scorteranno le navi in acque neutrali, dove la flotta russa le seguirà sul Bosforo. Finora, lo schema è stato concordato solo per Odessa. La Turchia, dove domani sarà in visita il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha in mente di realizzare un centro a Istanbul, che coordinerà e monitorerà l’attuazione della missione e confida che l’approvazione di questo piano, da parte delle Nazioni Unite, ne garantisca l’attuazione in sicurezza. La Russia, ricordiamo, si era offerta di aprire un corridoio attraverso il Mar Nero per le spedizioni di generi alimentari, in cambio di un allentamento delle sanzioni. Dall’Ucraina arrivano comunque segnali di scetticismo. Il presidente Volodymyr Zelensky ha fatto sapere di non essere stato invitato ad Ankara l’8 giugno a discutere e di non essere pronto «a esportare grano dalla Bielorussia». Mentre su Twitter, il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha scritto: «Putin dice che non utilizzerà le rotte commerciali per attaccare Odessa. Questo è lo stesso Putin che ha detto al cancelliere tedesco Scholz e al presidente francese Macron che non avrebbe attaccato l’Ucraina, giorni prima di lanciare un’invasione su vasta scala del nostro Paese. Non possiamo fidarci di Putin, le sue parole sono vuote». Sta di fatto che le trattative avanzano, e proprio sul fronte del grano fermo da inizio conflitto in tutti i principali porti sul Mar Nero, in particolare stoccato nell’area di Odessa. L’Ucraina, uno dei maggiori esportatori al mondo di questo cereale, assieme a orzo e mais, sa che 22 milioni di tonnellate stanno deperendo, bloccate nei silos della città portuale, dove le acque sono state minate. Secondo quando ha dichiarato il presidente, Volodymyr Zelensky, entro l’autunno potrebbero esserci 75 milioni di tonnellate di grano bloccate nel suo Paese. In un briefing a Kiev, ha confermato che l’Ucraina ha discusso con la Gran Bretagna e la Turchia l’idea di richiedere alla Marina di un Paese terzo di garantire il passaggio delle esportazioni di grano ucraino attraverso il Mar Nero, controllato dalla Russia. La migliore garanzia per il loro passaggio, ha però aggiunto, sarebbe l’armamento ucraino. Prima del 24 febbraio, quando iniziò l’invasione russa, nei Paesi dell’Unione europea arrivavano dai porti gestiti da Kiev più di 700.000 tonnellate di grano l’anno, il 4% delle importazioni totali, 65.000 tonnellate di grano duro, che secondo la Coldiretti rappresentano poco più dell’1%, quasi 9 milioni di tonnellate di mais (25% del totale) e circa 2 milioni di tonnellate di olio di girasole (45% del totale dell’import). «Ci sono gravi turbative nel commercio dei cereali a seguito della guerra. I blocchi dei porti, l’incapacità di trovare vie alternative per il trasporto dei prodotti agricoli dall’Ucraina e verso l’Ucraina. Tutto questo ha determinato una spirale dei prezzi e una forte instabilità con una forte pressione sulle catene di approvvigionamento alimentare», ha dichiarato ieri a Strasburgo il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, in apertura del dibattito in occasione dei 60 anni della Pac, la Politica agricola comune della Ue. Sottolineava che «c’è bisogno di una forte reazione da parte nostra», gli approvvigionamenti sono indispensabili. «Il Cremlino prende di mira i depositi di grano e lo ruba dalle aree che ha occupato, scaricando la colpa su altri. Questo è codardo», ha detto il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, con un intervento a gamba tesa nel corso del suo intervento all’Onu, precisando di aver visto con i suoi occhi «la situazione a Odessa: tonnellate di grano sono bloccate in container a causa delle navi da guerra russe nel Mar Nero e per gli attacchi della Russia alle infrastrutture di trasporto». Per tutta risposta l’amasciatore russo ha abbandonato l’aula.Ma grano e orzo di Ucraina e Russia vengono venduti pure ai Paesi africani, che importano il 40% del loro fabbisogno. Ruanda, Tanzania e Senegal arrivano al 60%, l’Egitto all’80% e il blocco effettuato dai russi sta preoccupando enormemente il Continente nero. Anche l’esclusione delle banche russe dal sistema Swift per le transazioni interbancarie rappresenta un problema, ha denunciato il presidente dell’Unione africana, Macky Sal, perché non si possono acquistare cereali dalla Russia. Lo spettro della fame è sempre più reale. Lo stesso papa Francesco ha lanciato un «accorato appello» affinché «non si usi il grano, alimento di base, come arma di guerra». La crisi alimentare, vero o strumentalizzato che sia il pretesto, sta spingendo sempre più migranti a raggiungere le nostre coste come sta accadendo a un ritmo che preoccupa tutti, tranne il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese. Perciò sul grano, la diplomazia appare più determinata a raggiungere degli accordi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/accordo-grano-con-mediazione-turca-2657465319.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-greggio-fa-riabilitare-pure-maduro-via-libera-degli-usa-a-eni-e-repsol" data-post-id="2657465319" data-published-at="1654542503" data-use-pagination="False"> Il greggio fa riabilitare pure Maduro. Via libera degli Usa a Eni e Repsol L’embargo europeo sul petrolio russo non è ancora entrato in vigore, ma i suoi effetti si fanno già sentire. Al contrario di quanto vorrebbe chi ha caldeggiato le sanzioni, però, il divieto contenuto nel sesto pacchetto Ue non sta influenzando l’industria petrolifera russa, quanto piuttosto le filiere di approvvigionamento europee. È di domenica la notizia che il Dipartimento di Stato americano avrebbe autorizzato nel mese di maggio due compagnie petrolifere, l’italiana Eni e la spagnola Repsol, a importare in Europa greggio dal Venezuela, aprendo così una breccia nel rigido quadro sanzionatorio applicato da anni al Paese sudamericano governato da Nicolás Maduro. I quantitativi che le due compagnie potranno portare in Europa non sono molto significativi e non potranno dare luogo a pagamenti, ma solo ad abbattimento dei debiti. Inoltre, il petrolio non potrà essere rivenduto altrove. Non ci si aspetta che questa apertura possa avere un effetto particolare sui prezzi del greggio. Ma il dato è importante perché segnala che la ricerca di alternative al petrolio russo da parte dell’Europa gode del supporto degli Usa, che sono disposti anche a rivedere alcune posizioni sui rapporti con Stati giudicati sino a ieri «canaglia». Un indice molto chiaro del fatto che l’obiettivo dell’isolamento economico della Russia è giudicato prioritario da Washington. Nella narrazione della Casa Bianca, l’apertura alle esportazioni di greggio dovrebbe servire anche a favorire il dialogo tra il governo Maduro e l’opposizione capeggiata dall’autoproclamato presidente Juan Guaidó. L’economia del Paese sudamericano, che dipende in gran parte dall’estrazione del petrolio, è assai provata dai lunghi anni di isolamento. A causa dell’embargo in vigore da diversi anni la produzione di greggio è scesa dagli oltre 3 milioni di barili al giorno a circa 500.000. In difficoltà sul fronte interno, la Casa Bianca sta mutando radicalmente la propria diplomazia energetica: prima annuncia l’intenzione di sospendere per due anni i dazi all’importazione sui pannelli solari dal Sudest asiatico, poi fa sapere che si sta dedicando al delicato dossier Arabia Saudita. Il presidente, Joe Biden, dovrebbe recarsi in visita a Riyad entro fine mese. Il rapporto tra Usa e Arabia Saudita si era gravemente incrinato nel 2018 dopo la vicenda dell’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post. Secondo le indagini dei servizi americani, sarebbe stato il principe saudita Mohammed bin Salman a ordinare l’assassinio. Biden, allora candidato alle presidenziali americane, durante un dibattito del 2019, aveva affermato che «avremmo dovuto far loro pagare il prezzo e renderli di fatto i paria che sono». Ora però il prezzo della benzina, giunto negli Usa a livelli record, spinge Biden a più miti consigli. Le elezioni di midterm previste per novembre impongono all’amministrazione dem di accelerare sul contenimento del prezzo della benzina, un elemento cui gli elettori sono assai sensibili. All’apertura dei mercati di ieri il petrolio è tornato sopra i 120 dollari al barile, dopo che la stessa Arabia Saudita ha aumentato i prezzi di vendita ufficiali. Il listino di luglio per il greggio Arabian Light diretto in Asia è salito di 2,1 dollari al barile. L’aumento segue la decisione della settimana scorsa a livello di Opec+, che ha stabilito un aumento della produzione per i mesi di luglio e agosto a 648.000 barili al giorno. Anche la Francia nel frattempo si muove. Da Parigi filtra la notizia di trattative in corso con un altro Paese controverso. «Ci sono discussioni con gli Emirati Arabi Uniti. Dobbiamo trovare alternative al petrolio russo», ha detto il ministro delle Finanze, Bruno Le Maire. La diplomazia della necessità cancella i peccati.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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