Ciò che resta dell’Ucraina sarà a sovranità limitata. E Zelensky rischia la testa

Magari non arriverà la pace. Ma almeno si smetterà di sparare. Il conflitto nell’Est, forse, sarà congelato, come ha ipotizzato ieri il premier polacco, Donald Tusk. E se dagli imminenti colloqui tra Donald Trump e Vladimir Putin arrivasse una svolta, Volodymyr Zelensky dovrebbe cominciare a pensare sul serio al futuro del suo Paese. Oltre che al proprio. Su entrambi, infatti, si addensano nuvole nere.
Sul Corriere di ieri, il politologo Charles Kupchan prefigurava i termini del possibile accordo per la tregua: «Un cessate il fuoco, la Russia che mantiene il controllo sui territori che già occupa, circa il 20% dell’Ucraina». È la versione poi avvalorata anche da Bloomberg, che delineava così la cornice del confronto in corso tra i funzionari di Washington e quelli di Mosca. Ad avviso dell’ex consigliere di Barack Obama, se a Zelensky venisse lasciata «la possibilità di governare» sul restante 80% della nazione, egli «dovrebbe accettare», perché «Kiev non ha la potenza militare» per riconquistare le regioni perdute. Già. A questa conclusione si poteva giungere un paio di anni e centinaia di migliaia di morti fa, prima del clamoroso flop della controffensiva del 2023. Ma ormai il dado è tratto. Il nodo, semmai, sarà lo status del pezzo di Ucraina che i russi non sono riusciti ad annettere, ma che potrebbero lo stesso condizionare in forme indirette, qualora gli americani lasciassero loro il campo. La vera prospettiva del Paese, però, a differenza di quanto sostiene Kupchan, non è «il ripristino della sovranità». Se nel suo domani c’è «l’integrazione nell’Europa», esso passerà semplicemente da una sovranità limitata a un’altra. Certo, non si ritroverà sotto le spietate grinfie del Cremlino. Con ogni evidenza, la sottomissione all’Ue sarà digerita più facilmente cittadini delle zone occidentali. Ma sarà pur sempre una condizione da sorvegliati speciali, in tutto e per tutto dipendenti dai dettami di Bruxelles. Che, come la mano di Mario Brega, può essere piuma e può essere ferro. Può dare e togliere. Può elargire denaro e imporre riforme sgradite al popolo oppure alle élite.
Una dimostrazione c’è stata con l’episodio della legge che avrebbe svuotato l’autorità anticorruzione. Alle rimostranze dell’Ue, la quale, comprensibilmente, chiede che Kiev svolga i compiti a casa se vuole entrare nel club europeo, il presidente in mimetica non ha potuto rispondere in altro modo che adeguandosi. Meno male, in questo caso. Ma quella europea sarà sempre una correzione fraterna a fin di bene? Stavolta, da Ursula von der Leyen è arrivato solo un buffetto. E un domani? Quanto sarà libera un’Ucraina in ginocchio, vincolata dai copiosi aiuti dell’Unione? La situazione economica non è brillante. Dopo il crollo del Pil nel 2022 (-19%), il 2023 e il 2024 hanno fatto segnare un rialzo rispettivamente del 12 e del 5,3%, ma Kiev è lungi dal ritorno ai livelli pre guerra. L’inflazione, su base annua, è salita del 14,1%. E anche al di fuori del Donbass raso al suolo, ci sono intere città, infrastrutture, centrali da rimettere in piedi. Quanto a lungo l’Europa rimarrà madre anziché diventare matrigna? Fino a quando porgerà la carota anziché impugnare il bastone? Ai fieri ucraini, pur di allontanare il giogo dello zar, andranno bene tutti i capricci della Commissione? Compresi quelli - prevedibili - sulle questioni etiche, rispetto a cui la sensibilità dell’opinione pubblica appare tendenzialmente conservatrice?
L’altro enigma politico riguarderà la sorte di Zelensky. Tutta la sua epopea si è retta sulla promessa di una vittoria finale contro l’impero del male. L’inevitabile epilogo non gli consegnerà esattamente un trionfo, se il prezzo da pagare per l’integrazione europea sarà lo smembramento della nazione, che verrà commissariata dall’Ue senza nemmeno la possibilità di diventare membro della Nato. Finita la guerra, peraltro, qualcuno si ricorderà di intimargli l’abrogazione della legge marziale. Ciò, com’è auspicabile, riporterà in auge una qualche opposizione. Si discuterà in maniera più franca di ciò che è accaduto in questi anni. Si traccerà un bilancio. Si valuterà se il gioco - chiamiamolo gioco... - sia valso la candela: quasi un’intera generazione caduta al fronte per cedere comunque agli invasori le terre che essi rivendicavano. A quel punto, potrà Zelensky restare in sella? Conserverà la sua nomea di «nuovo Churchill», o il suo mito si sgretolerà? A quello vecchio, di Churchill, nonostante la vittoria contro il nazismo, non andò benissimo: alle prime elezioni postbelliche, gli inglesi lo liquidarono. Il destino di chi, dai conflitti, esce sconfitto, è sempre il peggiore. L’ex comico si ritroverà a metà strada tra il disastro totale e l’epico trionfo. Più vicino al disastro che al trionfo, per la verità. Una situazione di tale incertezza, da alimentare il sospetto che anche a lui, sotto sotto, faccia comodo mandare avanti l’impresa bellica, pur di schivare il redde rationem.
Una nota di demerito la merita, infine, proprio l’Europa. Da sempre priva di iniziativa diplomatica, ridotta a rassicurare il presidente ucraino che non sarà escluso da un negoziato che però è completamente in mano a Trump. Giorgia Meloni ci ha provato, su sollecitazione del tycoon, a offrire almeno il terreno per una mediazione. Ma adesso all’Italia arriva il conto dell’atlantismo che è stata costretta a esibire anche con Joe Biden. La pace, financo la tregua, coglierebbero l’Ue impreparata. Senza gli ucraini, chi morirà per i «nostri valori»?



















