2022-03-29
«Abramovich avvelenato». L’ultimo giallo al tavolo di pace
Trattative con giallo: per il «Wall Street Journal» la parte ucraina accuserebbe problemi agli occhi e alla pelle. Il magnate russo conferma ma il team di Volodymyr Zelensky smentisce. Oggi il tavolo riprende in Turchia. Mosca pronta a limitare l’accesso «dai Paesi ostili».Roman Abramovich potrebbe essere stato avvelenato. Il Wall Street Journal ha riferito ieri che il magnate russo e alcuni negoziatori ucraini avrebbero accusato i sintomi di avvelenamento all’inizio di questo mese (occhi rossi, lacrimazione dolorosa e desquamazione della pelle). Ricordiamo che il miliardario è fortemente coinvolto nel processo negoziale tra Mosca e Kiev e che lo stesso Volodymyr Zelensky, per questa ragione, aveva chiesto alla Casa Bianca di non sottoporlo a sanzioni. Secondo il quotidiano Usa, Abramovich potrebbe essere stato avvelenato su input di quella fazione di falchi che, all’interno del Cremlino, si opporrebbe a ogni possibile intesa con Kiev: un elemento che, se confermato, dimostrerebbe una frattura significativa in seno all’establishment russo. Una portavoce del magnate ha tra l’altro confermato i sospetti. In tutto questo, il gruppo di giornalismo investigativo Bellingcat ha riportato ieri che «tre membri della delegazione che hanno partecipato ai colloqui di pace, nella notte tra il 3 e il 4 marzo 2022, hanno manifestato sintomi compatibili con avvelenamento da armi chimiche. Una delle vittime è l’imprenditore russo Abramovich». Dall’altra parte, secondo Reuters, un funzionario Usa ha riferito che il malessere del magnate e dei negoziatori sarebbe dovuto a «fattori ambientali, non avvelenamento». Una smentita del tentato attacco è arrivata poi anche dal capo negoziatore ucraino, Mikhailo Podolyak, che ha parlato di «teorie del complotto». Va da sé che questo giallo rischia di avere delle ripercussioni negative sulle trattative in corso tra Ucraina e Russia. D’altronde, la situazione diplomatica continua a rivelarsi in chiaroscuro. Ankara sta senza dubbio mantenendo l’iniziativa nella mediazione: il Cremlino ha infatti reso noto che, nella giornata di oggi, i negoziati tra la delegazione ucraina e quella russa dovrebbero riprendere in Turchia. «Il fatto stesso che sia stato deciso di continuare i negoziati di persona è certamente importante. Tuttavia, stiamo ancora rispettando la linea di non divulgare alcun dettaglio relativo ai negoziati. Riteniamo che ciò possa solo danneggiare il processo negoziale», ha dichiarato ieri il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin avevano del resto avuto una conversazione telefonica due giorni fa, in cui avevano concordato di organizzare i colloqui nella città di Istanbul. La centralità della Turchia è stata inoltre rimarcata, sempre ieri, anche dal governo di Kiev. «La Turchia è tra quei Paesi che potrebbero diventare garanti della nostra sicurezza in futuro», ha detto Ihor Zhovkva, vicecapo dell’ufficio di Zelensky. Tuttavia il governo ucraino ha al contempo reso noto di non attendersi svolte eclatanti dai colloqui turchi. «Non credo che ci sarà alcuna svolta sulle questioni principali», ha affermato il consigliere del ministero dell’Interno ucraino, Vadym Denysenko. Una certa freddezza è stata mostrata anche dal ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, che è sembrato allontanare - almeno per ora - l’ipotesi di un vertice tra Putin e Zelensky, sostenendo che al momento un simile incontro rischierebbe di rivelarsi «controproducente». Ciò detto, va ricordato che, l’altro ieri, il presidente ucraino aveva mostrato un notevole aperturismo sul piano diplomatico, dicendosi disponibile ad accettare uno status di neutralità, per quanto sotto garanzia di Paesi terzi e dietro ratifica referendaria. Nel frattempo, si notano già i primi effetti delle parole pronunciate da Joe Biden a Varsavia sabato scorso, quando il presidente americano ha di fatto invocato la deposizione di Putin. Parole che, oltre a causare l’irritazione di Francia e Germania, hanno spinto la Russia a consolidare ulteriormente i propri già stretti legami con la Cina: ieri Lavrov ha infatti detto che le relazioni tra Mosca e Pechino sono «al più forte livello mai raggiunto». A poco sono quindi evidentemente servite le smentite della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato americano e dello stesso Biden, che domenica sera ha categoricamente negato di aver invocato un cambio di regime. Quelle parole, definite «allarmanti» dal Cremlino, hanno infatti già rafforzato l’asse tra Russia e Cina, contribuendo così indirettamente a isolare il fronte atlantico. In questo quadro, si è consumata ieri una nuova frattura tra Mosca e l’Occidente. Lavrov ha infatti annunciato restrizioni ai visti per i cittadini appartenenti a Paesi definiti «ostili». «Come misura aggiuntiva, è in corso di elaborazione una bozza di decreto sulle misure di risposta in materia di visti, per quanto riguarda le attività ostili di un certo numero di Stati stranieri. Questa legge introdurrà tutta una serie di restrizioni all’ingresso nel territorio della Russia», ha detto il ministro. Secondo indiscrezioni, farebbero parte della lista gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Unione europea (Italia compresa). Nel frattempo, la crisi ucraina sta distogliendo Mosca da altri fronti, il che può rivelarsi alla lunga un problema per Putin. Sabato, la Russia ha accusato l’Azerbaigian di aver violato la tregua in Nagorno-Karabakh: una circostanza che è stata tuttavia seccamente smentita da Baku. Proprio ieri, l’Armenia ha detto di attendersi che le forze di pace russe adottino delle misure per far indietreggiare gli azeri. Il tema è spinoso e può portare a due conseguenze. Innanzitutto Mosca potrebbe decidersi ad affrettare la conclusione dell’invasione in Ucraina, per evitare ulteriori problemi di questo tipo. In secondo luogo, quanto sta accadendo rischia di indebolire la mediazione turca, visto che Ankara è una storica sostenitrice di Baku.