2021-07-11
Abbattuta per moda l’ultima differenza tra l’uomo e l’animale
C’è una nuova minoranza sulla quale progressismo e business possono speculare. Alimentando così il «capitalismo green»«Il nostro momento è arrivato! La collezione Autunno 2021 celebra i nostri amici animali come nostri pari, catturando un mondo in cui tutte le specie vivono in armonia». Dopo donne, immigrati e Lgbtq+, ecco la nuova minoranza sulla quale progressismo e business possono speculare fingendo di difenderla: gli animali. I modelli della campagna pubblicitaria della stilista britannica Stella McCartney hanno il viso coperto da una maschera animale. Ibridi tra esseri umani e orsi col pelo rosa shocking, conigli color albicocca, paperi disneyani, cani con i «capelli» acconciati e così via girano Londra a piedi e in bici con la celebre borsa Falabella in spalla o in mano. Oppure bevono aperitivi, suonano davanti alla stazione del metrò, mostrano il medio mimando un «vaffa». A corredo della campagna sono previsti eventi di «guerilla gathering» (a Milano c’è stato il 23 giugno) in cui sostenitori del marchio e animalisti travestiti da animali invitano a firmare la petizione «Stop deadly fur», promossa dalla Humane society international (Hsi): «Terminiamo il cruento e mortale commercio di pellicce, prima che causi la prossima pandemia», dice il testo dell’appello. Si vogliono abbattere i confini tra le nazioni, le culture, le età, i sessi e, ora, anche quello - apparentemente invalicabile - tra le specie. Uomini e animali vengono parificati, e gli animali, nella narrazione liberal, vengono trattati appunto come una minoranza fra tante. In nome dell’animalismo, come già accaduto con il razzismo, si attaccano le statue. Ad esempio Dal panino si va in piazza, opera di di Amedeo Longo collocata a Trastevere a Roma. Gli attivisti animalisti l’hanno accusata di raffigurare «un animale morto»: anche la porchetta Igp di Ariccia, prodotto della tradizione gastronomica italiana, diventa così simbolo di «oppressione». Secondo l’Associazione italiana difesa animali e ambiente sarebbe discriminatoria persino la canzone La Gallina di Cochi e Renato. Il verso «La gallina non è un animale intelligente» sarebbe «un inaccettabile insulto agli animali». Insomma si ripropone il solito paradigma della lotta «per i diritti»: si pretende che le pretese della minoranza diventino legge, si diffonde la cancel culture e si falsifica la realtà per poter esercitare il ricatto morale contro chi osa dissentire. Nello specifico, vegani e animalisti tendono alla «mostrificazione» di chi mangia carne. Un esempio? Luca Guadagnino sta girando un nuovo film intitolato Bones and all, incentrato su una ragazza cannibale. È tratto dal romanzo omonimo (tradotto in Italia come Fino all’osso) che l’autrice vegana americana Camille McDonald ha spiegato essere una denuncia del cannibalismo degli uomini onnivori (no, non è uno scherzo). Rieccoci al punto di partenza: l’uomo che mangia carne animale viene parificato allo psicopatico che mangia carne umana, proprio perché uomo e animale pari sono. La matrice di questo pensiero è l’antispecismo, filosofia d’antan ma ben spendibile in tempi di politically correct. Tesi principali: diritto degli animali ad autodeterminarsi; resistenza e rivoluzione antispeciste contro il fascismo, cioè la superiorità dell’uomo rispetto all’animale. In quest’ottica, l’animale viene descritto come perseguitato e discriminato perché diverso dallo standard umano. Ecco allora che gli animalisti (da Giulia Innocenzi all’Oipa) festeggiano la decisione della Commissione europea di eliminare le gabbie negli allevamenti entro il 2027, considerandola «un’importante pietra per il superamento dello sfruttamento degli animali a scopo alimentare». Certo, i miglioramenti nella condizione di vita degli animali rendono felici anche noi, ma per gli animalisti questo è solo un piccolo passo. Il vero obiettivo sarebbe vietare del tutto il consumo di carne. Un po’ come avviene nel mockumentary (film in stile documentario) The carnage, girato da Simon Amstell per la Bbc nel 2017. Ambientato nel Regno Unito del 2067, immagina una società in cui tutti sono vegani per legge e gli ex carnivori sono sottoposti a terapie psichiatriche per espiare la colpa di avere in precedenza mangiato animali. Vi ricorda qualcosa? La stessa espiazione richiesta per il passato «razzista» o «coloniale» viene richiesta per il «passato carnivoro». Per gli antispecisti mungere la mucca vuol dire derubarla; farla accoppiare per riproduzione è stuprarla; abbatterla per farne carne macinata è assassinarla e allevare animali inquinerebbe più che coltivare ortive, legumi e cereali coi quali produrre finta carne e finto pesce. Che però sono dispendiosissimi: 300 grammi di finto macinato di carne Beyond meat costano ben 2 euro, oltre 70 euro al chilo. Funziona quasi sempre così: dietro le battaglie per «i diritti» e le «scelte etiche» ci sono esigenze di mercato. Sul suo sito, ad esempio, Stella McCartney sfoggia una «Sustainability Timeline» con tutte le tappe di sostituzione della materia prima animale (pellame, cachemire, seta) con quella di sintesi derivata dalla produzione plastica o dal suo riciclo. Creare abiti riutilizzando immondizia e farli pagare come se fossero d’oro non risolve il problema dell’inquinamento o dello spreco, anzi. Però è un affare per i marchi di moda «impegnati». Per intendersi: un abito sintetico di lyocell e poliammide viene venduto da H&M a 39,99 euro. La McCartney (entrata a far parte lo scorso anno della multinazionale del lusso Lvmh con sede a Parigi) per un paio di ballerine 67% poliuretano e 33% poliestere «senza l’uso di pelle, nel rispetto della nostra etica cruelty-free» vuole 495 euro. Mentre per le ossimoriche «pellicce fur free» come il Cappotto Koba FFF (100% poliestere) ne chiede ben 2.500. Ideologia antispecista e «moda etica» si rafforzano a vicenda, contribuendo ad alimentare il nuovo «capitalismo green». Ma entrambe dimenticano un punto fondamentale: il primo vero diritto degli animali è quello di essere animali. L’animalismo militante, in perfetta ottica transumanista che pretende di sostituire la tecnologia alla natura, vuole rimuovere l’animale dal suo ruolo naturale nella catena esistenziale e alimentare e ricollocarlo in una nuova posizione, del tutto artificiosa. Esempi di questo delirio il «vecan» e il «vegatto», cioè i poveri cani e gatti costretti a mangiare papponi vegetali perché anche a loro è stato imposto il veganesimo. Agli attivisti, però, non importa preservare la gerarchia naturale. Portano avanti le loro teorie a costo di danneggiare gli animali, cancellando la realtà per sostituirla con una sovrastruttura ideologica. Dunque state pronti, perché ora si combatte il ddl Zan, ma prima o poi potremmo trovarci a battagliare contro qualcosa di ancora peggiore: un ddl zanna o un ddl zampa.