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2022-04-20
«A very british scandal», storia del divorzio più discusso del Regno Unito
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Non il trucco tenue della Regina, l’impostazione formale del viso, non il sorriso sibillino di chi deve e chissà se voglia: non uno, fra i tratti conosciuti, è sopravvissuto. Il volto di Claire Foy, impeccabile Elisabetta II nel The Crown di Netflix, è trasfigurato: una maschera, con labbra rosso fuoco, attorno al collo le perle che avrebbero dato forma allo scandalo. Claire Foy è diventata l’opposto di quel che finora è stata, e la sua metamorfosi, da sola, l’abilità con la quale ha sostituito all’eleganza una volgarità spinta, tronfia e menefreghista basterebbe a giustificare l’esistenza di A very british scandal, su TimVision da giovedì 21 aprile. La serie, secondo capitolo di una saga-gioiello, è il resoconto dettagliato del divorzio che, nel 1963, portò in tribunale il Duca e la Duchessa di Argyll. Allora, il mondo era protetto da un moralismo puritano. Bigotto, a tratti. Il divorzio era un’onta. E l’infamia sociale che ne derivava, nel caso degli Argyll, è stata amplificata da un’eco mediatica senza pari per l’epoca.
«Puttana», si sente urlare nel primo episodio delle serie tv, «Feccia» urla la folla, mentre Margaret Sweeny, una monumentale Claire Foy, varca l’ingresso del tribunale di Edimburgo. «Puttana», si sente ancora, e le grida di quei giudici di strada sfumano nella supplica del Duca di Argyll, Ian Campbell all’anagrafe. «Sono un uomo rispettabile», dice, «Hai giocato a fare la donna libera, ma sappiamo entrambi che non hai lo stomaco per sopportare tutto questo», minaccia, prima di chiedere alla persona che avrebbe dovuto amare una vita di finirla lì, in silenzio, quella storia sgangherata. Margaret Sweeny la testa la alza appena, ed è nel suo sguardo che risuona la forza di cui nessuna Meghan Markle si è ancora fatta carico. Perché sarebbe stato più facile per Margaret Sweeny, figlia adorata di un industriale milionario, far quel che il Duca comandava: andarsene via senza un solo rumore e ricominciare altrove, anonima e ricca. Invece, quella donna libertina, madre putativa di ogni Samantha Jones, ha deciso di fare di testa sua e combattere una battaglia mediatica cui ancora oggi la Gran Bretagna guarda.
Margaret Sweeny – la cui storia, per chi ne dubitasse, è vera e reale – ha accettato di essere etichettata come «Dirty Duchess», la Duchessa sporcacciona, fotografata nel mezzo di un adulterio e sbattuta sui giornali. Praticava del sesso orale a un uomo senza volto, e le perle attorno al suo collo sottile ne dichiaravo l’identità. Chi fosse, però, quell’uomo nessuno è parso in grado di dirlo. Le cronache dell’epoca, cui le foto sono state cedute dal Duca in persona, hanno potuto soltanto accertare come non si trattasse di Campbell, interpretato nella serie da Paul Bettany. Poi, hanno indugiato nei dettagli più sordidi del tradimento, scavando nelle pieghe di una relazione tossica, malata. Margaret Sweeny e Ian Campbell si sono sposati di fretta, quando questi ha ereditato il titolo di Duca. Lei, donna divorziata e nota mangiauomini («Mi piace fare sesso e mi riesce anche molto bene», si giustificherà nel primo episodio di A very british scandal). Lui, colpevole di aver abbandonato la seconda moglie e i due figli. Si sono trasferiti nel castello del Duca, e lì, fra le mura che avrebbero dovuto esser per loro casa, ha avuto origine la tragedia. Perché Ian Campbell, l’uomo che la Sweeny credeva poterle dare una riconoscibilità sociale, certa e insindacabile, si è rivelato presto un ubriacone, uno spiantato, deciso ad usare la moglie come garanzia dei propri affari. La Sweeny ha pagato. Ha pagato tutto. Fin il visone che il Duca ha deciso di regalare all’ex moglie. Poi, però, ha tradito. Margaret Sweeny ha scelto se stessa, e Campbell di quella scelta ha trovato le prove: polaroid, diari, registrazioni. Foto di un uomo nudo e di una donna in ginocchio. Foto intime, private. Foto che il Duca ha dato alla stampa pur di vendicarsi del torto subito.
Margaret Sweeny, nel processo di divorzio, è stata trattata come un’appestata. Gli amici l’hanno rinnegata, la società di cui era parte l’ha spinta ai margini. L’opinione pubblica ha deciso fosse lei la cattiva, la «Sporcacciona». Una deviata che, diversamente dai canoni dell’epoca, ha scelto di attraversare a testa alta la tempesta. La Sweeny, pur aggredita, si è difesa, con un coraggio spavaldo che – Dio grazia – non si trasforma mai in una dichiarazione politica.
Il pregio più grande di A very british scandal, accanto all’interpretazione magistrale di Claire Foy, sta nella capacità di attenersi ai fatti. Senza proclami, senza l’urgenza ormai indigesta di ficcare una bandiera politica su qualsivoglia fatto passato. Margaret Sweeny, nell’economia del racconto, non è un’eroina del #MeToo, una paladina del gender gap. Non combatte battaglie dell’oggi, non parla «a nome di». Parla per sé, e nella difesa cieca e testarda dei suoi appetiti, tutti, (ci) ricorda come, alle volte, la strada migliore sia quella della fedeltà, storica o personale che sia.
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Da domani su TimVision la miniserie gemella di «A very english scandal», con Claire Foy nei panni della Duchessa di Argyll Margaret Sweeny, che nel 1963 finì al centro di uno scandalo dopo che il marito Ian Campbell, Duca di Argyll, interpretato da Paul Bettany, aveva scoperto delle foto che la ritraevano nel mezzo di un adulterio.Non il trucco tenue della Regina, l’impostazione formale del viso, non il sorriso sibillino di chi deve e chissà se voglia: non uno, fra i tratti conosciuti, è sopravvissuto. Il volto di Claire Foy, impeccabile Elisabetta II nel The Crown di Netflix, è trasfigurato: una maschera, con labbra rosso fuoco, attorno al collo le perle che avrebbero dato forma allo scandalo. Claire Foy è diventata l’opposto di quel che finora è stata, e la sua metamorfosi, da sola, l’abilità con la quale ha sostituito all’eleganza una volgarità spinta, tronfia e menefreghista basterebbe a giustificare l’esistenza di A very british scandal, su TimVision da giovedì 21 aprile. La serie, secondo capitolo di una saga-gioiello, è il resoconto dettagliato del divorzio che, nel 1963, portò in tribunale il Duca e la Duchessa di Argyll. Allora, il mondo era protetto da un moralismo puritano. Bigotto, a tratti. Il divorzio era un’onta. E l’infamia sociale che ne derivava, nel caso degli Argyll, è stata amplificata da un’eco mediatica senza pari per l’epoca. «Puttana», si sente urlare nel primo episodio delle serie tv, «Feccia» urla la folla, mentre Margaret Sweeny, una monumentale Claire Foy, varca l’ingresso del tribunale di Edimburgo. «Puttana», si sente ancora, e le grida di quei giudici di strada sfumano nella supplica del Duca di Argyll, Ian Campbell all’anagrafe. «Sono un uomo rispettabile», dice, «Hai giocato a fare la donna libera, ma sappiamo entrambi che non hai lo stomaco per sopportare tutto questo», minaccia, prima di chiedere alla persona che avrebbe dovuto amare una vita di finirla lì, in silenzio, quella storia sgangherata. Margaret Sweeny la testa la alza appena, ed è nel suo sguardo che risuona la forza di cui nessuna Meghan Markle si è ancora fatta carico. Perché sarebbe stato più facile per Margaret Sweeny, figlia adorata di un industriale milionario, far quel che il Duca comandava: andarsene via senza un solo rumore e ricominciare altrove, anonima e ricca. Invece, quella donna libertina, madre putativa di ogni Samantha Jones, ha deciso di fare di testa sua e combattere una battaglia mediatica cui ancora oggi la Gran Bretagna guarda. Margaret Sweeny – la cui storia, per chi ne dubitasse, è vera e reale – ha accettato di essere etichettata come «Dirty Duchess», la Duchessa sporcacciona, fotografata nel mezzo di un adulterio e sbattuta sui giornali. Praticava del sesso orale a un uomo senza volto, e le perle attorno al suo collo sottile ne dichiaravo l’identità. Chi fosse, però, quell’uomo nessuno è parso in grado di dirlo. Le cronache dell’epoca, cui le foto sono state cedute dal Duca in persona, hanno potuto soltanto accertare come non si trattasse di Campbell, interpretato nella serie da Paul Bettany. Poi, hanno indugiato nei dettagli più sordidi del tradimento, scavando nelle pieghe di una relazione tossica, malata. Margaret Sweeny e Ian Campbell si sono sposati di fretta, quando questi ha ereditato il titolo di Duca. Lei, donna divorziata e nota mangiauomini («Mi piace fare sesso e mi riesce anche molto bene», si giustificherà nel primo episodio di A very british scandal). Lui, colpevole di aver abbandonato la seconda moglie e i due figli. Si sono trasferiti nel castello del Duca, e lì, fra le mura che avrebbero dovuto esser per loro casa, ha avuto origine la tragedia. Perché Ian Campbell, l’uomo che la Sweeny credeva poterle dare una riconoscibilità sociale, certa e insindacabile, si è rivelato presto un ubriacone, uno spiantato, deciso ad usare la moglie come garanzia dei propri affari. La Sweeny ha pagato. Ha pagato tutto. Fin il visone che il Duca ha deciso di regalare all’ex moglie. Poi, però, ha tradito. Margaret Sweeny ha scelto se stessa, e Campbell di quella scelta ha trovato le prove: polaroid, diari, registrazioni. Foto di un uomo nudo e di una donna in ginocchio. Foto intime, private. Foto che il Duca ha dato alla stampa pur di vendicarsi del torto subito. Margaret Sweeny, nel processo di divorzio, è stata trattata come un’appestata. Gli amici l’hanno rinnegata, la società di cui era parte l’ha spinta ai margini. L’opinione pubblica ha deciso fosse lei la cattiva, la «Sporcacciona». Una deviata che, diversamente dai canoni dell’epoca, ha scelto di attraversare a testa alta la tempesta. La Sweeny, pur aggredita, si è difesa, con un coraggio spavaldo che – Dio grazia – non si trasforma mai in una dichiarazione politica. Il pregio più grande di A very british scandal, accanto all’interpretazione magistrale di Claire Foy, sta nella capacità di attenersi ai fatti. Senza proclami, senza l’urgenza ormai indigesta di ficcare una bandiera politica su qualsivoglia fatto passato. Margaret Sweeny, nell’economia del racconto, non è un’eroina del #MeToo, una paladina del gender gap. Non combatte battaglie dell’oggi, non parla «a nome di». Parla per sé, e nella difesa cieca e testarda dei suoi appetiti, tutti, (ci) ricorda come, alle volte, la strada migliore sia quella della fedeltà, storica o personale che sia.
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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Ecco #DimmiLaVerità del 18 dicembre 2025. Con il nostro Stefano Piazza facciamo il punto sul terrorismo islamico dopo la strage in Australia.