2025-01-02
«A Trieste visti i disastri etici dell’era Covid»
Roberto Festa, medico esperto di bioetica, sul caso del non vaccinato uscito dalle liste d’attesa: «Smarrito l’humus della relazione di cura, ormai sfociata nel paternalismo. In pandemia si è ribaltato il quadro dei valori: era diventato più importante non intasare gli ospedali».È etico - prima ancora che politico e giuridico - il risvolto più grave di quanto accaduto all’ospedale triestino di Cattinara: la vicenda del paziente cardiopatico, cui è stato negato un intervento potenzialmente salvavita per il suo rifiuto di sottoporsi a vaccinazioni in teoria solo raccomandate, richiama quella che papa Francesco ha più volte denunciato come «cultura dello scarto», ovvero quella diffusa mentalità che non sente più la vita umana, specie se fragile e malata, come valore primario da rispettare ma che anzi tende a sacrificare la persona in nome dell’ideologia o del profitto. Un disorientamento culturale che - come ebbe a dire il pontefice già nel 2013 - fa paventare «il pericolo che il medico smarrisca la propria identità di servitore della vita», e conduce al paradosso che le professioni sanitarie «pur essendo per loro natura al servizio della vita, sono indotte a volte a non rispettare la vita stessa».«Stiamo assistendo alla perversione della relazione tra medico e paziente, la cui radice sta nella nozione di cura», conferma Roberto Festa, che da medico di famiglia e presidente del Centro Aiuto alla Vita di Loreto, da tempo si occupa anche di questioni bioetiche. «Ciò che colpisce in questa storia è che il rapporto tra i medici e il paziente non è recente e fugace - il che potrebbe aver dato adito ad incomprensioni - ma risale al 2021. Quanto accaduto risulta inspiegabile se non alla luce del venir meno di quella relazione solidale di cura, ascolto ed empatia tra curante e curato che li porta a riconoscere lo stesso valore, cioè il bene-salute del paziente, e a volerlo perseguire con un percorso condiviso e accettato da entrambi.»Perché accade questo?«Tutto nasce da una attenzione ai protocolli anziché alla persona, che fa smarrire l’humus stesso della relazione di cura e introduce una nuova forma di paternalismo; laddove non è più neanche il medico ad esercitarlo, in base alla sua conoscenza del bene da perseguire per la salute del paziente, ma qualcosa di impersonale come un protocollo. Per cui si arriva a dire: “se non fai la vaccinazione non ti opero”. Tra l’altro si tratta di un protocollo non scritto da nessuna parte, perciò faccio davvero fatica a capire come si sia giunti a questo epilogo».Nella prima fase della pandemia lei è stato volontario nell’Usca, l’unità speciale che portava assistenza immediata a domicilio, svolgendo un’attività in prima linea al fianco dei malati. Le chiedo: sulla base di quello che ha visto, questa forma di paternalismo è nato con il Covid?«Il Covid ha scoperchiato il vaso di Pandora, evidenziando che è saltato l’ordine dei valori comuni fra gli stessi medici; faccio un esempio: la vita del paziente vale sempre o solo quando garantiamo una certa qualità della vita? È evidente che la risposta cambia secondo il quadro antropologico di riferimento. La gestione del Covid ha svelato che non si sa più quale sia il quadro dei valori: in quel frangente era diventato più importante non intasare gli ospedali piuttosto che rispettare la libertà di cura, andando persino contro lo spirito della Costituzione. Da allora si è inserito un cuneo nella frattura che già esisteva tra due visioni: quella di un bene che sta fuori di noi e che riconosciamo come oggettivo, ed il concetto di bene soggettivo, spostato peraltro dal singolo alla collettività; quest’ultimo passaggio ha dato luogo ad una sorta di socialismo sanitario che mi ha fatto rabbrividire e mi ha mortificato come medico». In che senso?«In quel periodo ero impegnato, sia come medico di famiglia, che come medico di guardia, che come medico Usca, e mi sentivo molto pressato da protocolli che toglievano la libertà di giudizio nell’azione clinica. Questo è peggiorato con l’arrivo dei vaccini, quando ci è stata tolta la possibilità di decidere chi andasse vaccinato e chi no perché bisognava vaccinare tutti, come fossero mandrie. Una situazione che ha creato diffidenza e spaccature sociali e può aver pesato nel caso di Trieste, quando i medici si sono trovati davanti un paziente inadempiente rispetto alla proposta terapeutica generale».Il riduzionismo con cui si spezzetta la realtà secondo convenienza, ha portato i media mainstream e alcuni politici a focalizzarsi solo su una parte della vicenda - gli insulti via social, ovviamente intollerabili, al primario della cardiologia che aveva firmato la lettera e che si è autosospeso per le minacce ricevute - ma a trascurare il cuore della questione: un documento scritto da un ospedale ad un paziente con toni disumani e un contenuto molto poco scientifico.«Questo è del tutto evidente. Il paziente è stato liquidato con poche e incomprensibili righe nonostante un rapporto che proseguiva da anni e da parte di un cardiologo che dice di non averlo neanche mai visto in faccia. Non mi piace quando noi medici ci mettiamo a fare le vittime: probabilmente non è neanche colpa del collega ma di chi ne ha approfittato per distogliere l’attenzione dal vero problema, ovvero la sospensione di un intervento così cruciale in un paziente così fragile per non avere ottemperato ai suggerimenti di un altro specialista, l’ematologo, che avendo visto dei linfonodi, nell’indicare quelle vaccinazioni ha semplicemente fatto una generica “lista della spesa”. Il paziente dice di essersi trovato davanti ad un muro e bisognerebbe rispondere su questo, non concentrarsi sul cardiochirurgo, che tra l’altro ha ammesso di aver mandato quella lettera per errore. Prendersela con i leoni da tastiera è un’opera di distrazione, per far passare per vittima un collega che è stato quantomeno poco prudente. Anzi, aggiungo che aver detto che neanche conosceva il paziente, diventa un’aggravante». Commentando la vicenda, il costituzionalista Baldini a questo giornale ha parlato di induzione psicologica nei confronti dei malati per indurli alla vaccinazione: come si spiega che questo atteggiamento di tanti suoi colleghi prosegua anche dopo che è stato dimostrato che i vaccini anti Covid non prevengono il contagio?«Non abbiamo ancora fatto i conti con il fatto che la ratio usata per obbligare le persone a vaccinarsi - ovvero per proteggere gli altri - si è rivelata una falsità. Tuttora non lo si può dire e lo stesso discorso vale per l’origine del virus.Durante la pandemia, una classe medica frustrata - e lo dico da medico - sottoposta a pressioni continue, con pazienti sempre più anziani e soli e giovani sempre più ansiosi e pretenziosi, si è sentita con lo scettro in mano e forse ne ha abusato. Per cui si è detto alle persone: «o fai così o non ti curo». Noi medici siamo caduti in questa trappola: ci è stato dato questo potere e anziché rifiutarlo per continuare a servire la salute delle persone, ci siamo aggrappati ad esso per risollevarci dalle nostre frustrazioni. Purtroppo, molti di noi non hanno saputo resistere a questa operazione di divisione portata avanti in maniera sistematica».Ancora adesso sugli effetti avversi è vietato esprimersi: quali sono le implicazioni bioetiche di questo atteggiamento «negazionista»? «Questo è un capitolo importante, collegato con quanto appena detto. Io ho visto tantissime amenorree precoci, con ragazze e donne entrate in menopausa molto prima del tempo: poi è uscita la spiegazione scientifica che ha confermato che non era un caso. Idem per la constatata esplosione di tiroiditi, di sindromi nefrosiche, di linfoadenomegalie.La verità che dobbiamo ancora riconoscere è che avevamo a che fare con un trattamento non abbastanza testato che però è stato approcciato come fosse la vitamina C. Questo ha portato a violare tutte le norme di prudenza della medicina, a partire da “primum non nocere”, e a condurre una sperimentazione su gran parte della popolazione mondiale».
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson
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