2018-08-20
A Praga l'Urss cancellò la favola del «socialismo dal volto umano»
Il 20 agosto 1968 i cingoli dei carri armati sovietici travolsero tram e automobili, insieme con un formicaio di gente comune. Niente poteva fermare l'esercito dell'invasione che decretò la fine della «primavera».Praga. Frotte di turisti e giovani stranieri a caccia di birre e divertimento nelle vie di una Praga frenetica e scintillante prestano una distratta attenzione a quei grandi pannelli in bianco e nero posizionati alla base della sempre gremita piazza Venceslao. Per i maniaci del selfie ha molto più successo una vecchia autoblinda verde tristezza, appena più defilata e perimetrata da transenne, la cui sagoma i praghesi meno giovani ben ricordano in quel caldo agosto del 1968 proprio nella piazza che non è piazza, bensì un grande vialone di 800 metri dominato dalle architetture del Museo Nazionale e dalla statua di San Venceslao a cavallo. Esattamente mezzo secolo fa sul selciato sferragliavano i cingoli dei carri armati sovietici, ed erano quasi patetici i tram rovesciati a terra e le automobili che ne dovevano ostacolare la corsa, assieme a un formicaio umano di gente comune. Niente poteva fermare l'esercito di invasione (più di mezzo milione di soldati, 6.300 blindati, 2.000 cannoni, 550 aerei da combattimento e 250 da trasporto) né la decisione di Leonid Breznev di usare il pugno di ferro contro i «ribelli» cecoslovacchi che avevano osato intaccare dall'interno il monolite politico, militare ed economico comunista.I cecoslovacchi avevano scoperto di rimbalzo dall'Europa libera che qualche mese prima avevano fatto fiorire con la «primavera di Praga» la speranza di un «socialismo dal volto umano»: questa espressione era stata coniata dal segretario del Pcc, Alexander Dubček, mentre quella della «primavera» era arrivata da oltre la cortina di ferro, era piaciuta ed era stata subito adottata. Ma a Mosca non era piaciuta affatto. In risposta al «Programma d'azione» riformista elaborato il 5 aprile per conquistare pacificamente una fetta di libertà, il Cremlino dava avvio nella notte tra il 20 e il 21 agosto all'invasione. Truppe sovietiche, tedesco-orientali, polacche, bulgare e ungheresi (la Romania di Nicolae Ceausescu non partecipava), composte per lo più da soldatini di leva che non avevano la minima idea di cosa stessero facendo (i comandanti avevano detto che sarebbero andati in Ucraina per un'esercitazione), invadevano il cuore stesso dell'Europa. Le divisioni dell'esercito cecoslovacco erano state dirottate per un'esercitazione del Patto di Varsavia verso la frontiera della Germania occidentale, mentre l'operazione sovietica partiva dalla Sassonia, nella Ddr: se anche ci fosse stata la volontà di opporsi militarmente, non era possibile fare nulla. Nel 1968 i cecoslovacchi chiedevano insistentemente agli straniti soldatini del Patto di Varsavia perché fossero lì e perché non se ne tornassero a casa loro, visto che non c'era nessun nemico da combattere. Nel 1945 avevano salutato e abbracciato fraternamente i militari dell'Armata Rossa che li liberavano dopo sette anni di durissima occupazione nazista. Adesso erano invasori.La Cecoslovacchia di Dubček non si era opposta con le armi perché pensava di farlo con la forza delle idee, del dialogo, del confronto. Un'utopia, schiacciata nel sangue. La ribellione veniva soffocata assieme alle notizie. Non si sapeva praticamente nulla lontano dai focolai della crisi. Erano stati tagliati i fili a tutte le cabine del telefono. Il maratoneta Emil Zátopek (tre medaglie d'oro a Helsinki 1952) correva da una parte all'altra come l'antico messaggero Fidippide per dare e portare informazioni. Jana H., biologa mamma di due bambine, era ancora bendata per un delicato intervento chirurgico, ma il 21 agosto non ci aveva pensato due volte a lasciare il suo letto di ospedale a Praga 6 per raggiungere a piedi il centro della città, dove si stava scrivendo la storia, per vedere, per sapere, per fare, per opporsi. L'invasione sovietica obbligava ancora una volta i partiti comunisti dell'Europa occidentale a dover fare quei conti ideologicamente sballati nel 1956 per i moti di Poznan, in Polonia, e soprattutto per la rivolta di Budapest. A Praga era tutto diverso e tutto uguale. La Radio cecoslovacca fino all'ultimo aveva continuato disperatamente a rilanciare in Italia, in italiano, l'appello a non credere alla propaganda sovietica sulla «liberazione», a non credere alle versioni di comodo sulla controrivoluzione e sul deviazionismo. Una versione che è stata in qualche modo ribadita da un documentario realizzato dalla tv russa Rossiya 1 e andato in onda il 23 maggio 2015, che ha fatto sollevare le proteste formali del governo ceco e di quello slovacco, con tanto di convocazione degli ambasciatori russi. Altro che liberazione. Tra il 24 e il 27 agosto 1968 Dubček e gli altri esponenti del governo cecoslovacco erano stati condotti a Mosca e qui erano stati costretti non solo ad accettare la presenza di truppe straniere ma anche a rinunciare all'attuazione del programma di riforme. Invasione e occupazione.Nell'autunno di quel 1968 l'ingegnere meccanico Pavel N. e la moglie Jana H., la giovane biologa che era andata a piedi dall'ospedale a piazza Venceslao per opporsi come migliaia di altri praghesi all'invasione, erano a Ginevra per un convegno internazionale. Al termine dei lavori un ingegnere svizzero aveva suggerito al collega cecoslovacco di chiedere asilo politico: a far arrivare nella Confederazione le loro due figlie, Veronika e Petra, avrebbe provveduto la Croce Rossa. Marito e moglie ne avevano parlato, ma poi avevano deciso di rientrare in patria. Nel 1969 all'ingegnere, come a tanti altri professionisti, venne sottoposto un verbale standard da firmare, nel quale si sosteneva che la Cecoslovacchia era stata liberata dai sovietici, e non invasa come lui spesso andava dicendo; l'ingegnere, come tanti colleghi e intellettuali, si rifiutò. Venne allora spedito a lavorare in miniera a Ostrava, e il partito gli richiese un progetto annuale a riprova del suo impegno nell'edificazione del comunismo. Quando l'ingegnere presentò ai funzionari i disegni di quella che a suo dire era un'innovativa pipa per minatori, il direttore della miniera saltò sulla sedia mentre i burocrati, che non avevano capito la beffa, si erano pure complimentati per l'idea. Fu l'ultimo progetto che dovette presentare. La miniera era stata la punizione anche per Zátopek; nel 1968 aveva firmato il «Manifesto delle duemila parole» di Ludvík Vasulík e sarebbe tornato a Praga solo dopo sei anni, con l'incarico di spazzino.Anche un giovane economista docente all'università, Miloš Zeman, si era rifiutato di avallare la versione di regime sui fatti di agosto 1968. Nel 1970 gli avevano tolto la cattedra. Uno studente universitario di storia ed economia politica, Jan Palach, a gennaio del 1969 aveva urlato al mondo la sua disperazione e quella della Cecoslovacchia cospargendosi di benzina e dandosi fuoco a piazza Venceslao, senza dire una sola parola. Il regime avrebbe fatto pubblicare sui giornali un trafiletto sull'«insano gesto di uno squilibrato», ai cui funerali parteciparono però 600.000 persone in segno di solidarietà e di sfida alle autorità. Oggi che Zeman è presidente della Repubblica ceca ha dichiarato che non terrà alcun discorso ufficiale per il cinquantesimo dell'invasione: «Ho parlato cinquanta anni fa, quando dire queste cose era un gesto di coraggio, in un tempo in cui il coraggio costava caro. Questo è molto più importante che mille discorsi dopo cinquanta anni».vent'anni d'attesaNei giorni della caduta del muro di Berlino, la figlia dell'ingegner Pavel e della biologa Jana, la studentessa universitaria Petra N., nata proprio nel 1968, faceva da staffetta per portare ciclostilati e informazioni ai soldati cecoslovacchi consegnati a Palazzo reale: ancora una volta, non si sapeva nulla di quello che accadeva fuori. Poi è arrivato Václav Havel, con una nuova primavera che non è stata effimera come quella del 1968 e che è arrivata ai giorni nostri. Il campionissimo di hockey, Jaromír Jágr, ha sempre giocato con il numero 68 sulle spalle: quelle due cifre indicavano l'anno in cui aveva perso due nonni, scesi in piazza per una libertà la cui attesa sarebbe durata venti anni.
Kim Jong-un (Getty Images)
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È stato pubblicato sul portale governativo InPA il quarto Maxi Avviso ASMEL, aperto da oggi fino al 30 settembre. L’iniziativa, promossa dall’Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali (ASMEL), punta a creare e aggiornare le liste di 37 profili professionali, rivolti a laureati, diplomati e operai specializzati. Potranno candidarsi tutti gli interessati accedendo al sito www.asmelab.it.
I 4.678 Comuni soci ASMEL potranno attingere a queste graduatorie per le proprie assunzioni. La procedura, introdotta nel 2021 con il Decreto Reclutamento e subito adottata dagli enti ASMEL, ha già permesso l’assunzione di 1.000 figure professionali, con altre 500 selezioni attualmente in corso. I candidati affrontano una selezione nazionale online: chi supera le prove viene inserito negli Elenchi Idonei, da cui i Comuni possono attingere in qualsiasi momento attraverso procedure snelle, i cosiddetti interpelli.
Un aspetto centrale è la territorialità. Gli iscritti possono scegliere di lavorare nei Comuni del proprio territorio, coniugando esigenze professionali e familiari. Per gli enti locali questo significa personale radicato, motivato e capace di rafforzare il rapporto tra amministrazione e comunità.
Il segretario generale di ASMEL, Francesco Pinto, sottolinea i vantaggi della procedura: «L’esperienza maturata dimostra che questa modalità assicura ai Comuni soci un processo selettivo della durata di sole quattro settimane, grazie a una digitalizzazione sempre più spinta. Inoltre, consente ai funzionari comunali di lavorare vicino alle proprie comunità, garantendo continuità, fidelizzazione e servizi migliori. I dati confermano che chi viene assunto tramite ASMEL ha un tasso di dimissioni significativamente più basso rispetto ai concorsi tradizionali, a dimostrazione di una maggiore stabilità e soddisfazione».
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Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)