Maurizio Landini, Daniela Fumarola e Pierpaolo Bombardieri durante il Forum delle relazioni industriali 2025 in Assolombarda, Milano, 10 Novembre (Ansa)
Monta il malcontento dei settori riformisti (Poste, tessile, chimici): l’isolamento non porta nessun risultato Per adesso restano coperti, ma se anche l’ultima serrata (quella di oggi) sarà un fallimento si faranno sentire.
Passi per l’opposizione puramente politica al centrodestra, che con diverse tonalità di rosso è sempre stata (purtroppo) un tratto distintivo della Cgil. Si può soprassedere pure sull’uso improprio di uno strumento di protesta che andrebbe centellinato come quello dello sciopero. E al limite viene scusato persino l’isolamento del sindacato di Corso d’Italia da Cisl e Uil, anche se l’ultima separazione, quella da Bombardieri, ha fatto storcere il naso a una buona parte dei dirigenti e della base cigiellina. Ma quello che davvero non va giù sul territorio e nei settori più riformisti del sindacato è la mancata presa di distanza dai fatti di Genova.
L’aggressione denunciata dai colleghi della Uilm che sono stati rincorsi e presi a calci e pugni da una ventina di pseudo-compagni con le felpe della Fiom andava condannata. Sarebbe bastato scusarsi, per un episodio rispetto al quale evidentemente Landini non ha nessuna responsabilità diretta, e il fuoco si sarebbe spento lì. Invece l’ex leader dei metalmeccanici ha preferito fare spallucce. Nessuna presa di posizione sul momento e nessuna dichiarazione di solidarietà nemmeno quando i soliti giornali del gruppo Gedi (prima La Stampa e poi La Repubblica) gli hanno concesso a stretto giro una doppia paginata per pubblicizzare lo sciopero di oggi. Ancora di venerdì. Ancora per andare addosso al governo. Ancora contro la manovra.
Per qualcuno la misura era colma da prima, per molti lo è diventata dopo i fatti che hanno segnato la vertenza sull’ex Ilva in Liguria. Per le federazioni che puntano sul dialogo e sulla necessità di portare a casa dei risultati per iscritti e lavoratori, la linea Landini è sempre stata indigesta, ma adesso non se ne può più. Si parte dalle telecomunicazioni per arrivare fino ai chimici, al tessile e ai trasporti, per non parlare di alcune Camere del Lavoro (Milano su tutte) e delle Poste. Tra i dirigenti di fascia alta di diverse categorie è iniziato un dialogo per capire cosa fare. Per evitare una deriva che al momento non conosce limiti. E da questo punto di vista lo sciopero di oggi sarà una cartina di tornasole.
Secondo molti è inutile, secondo altri andava accorpato con la protesta degli autonomi del 28. Sta di fatto che se dovessimo trovarci di fronte all’ennesimo flop e all’ennesima giornata di lavora persa in assenza di risultati concreti, quelle che al momento sono dei discorsi carbonari potrebbe trovare manifestazione pubblica. E nessuna ipotesi sarebbe esclusa. Soprattutto se i pensionati, che rappresentano da sempre una sorta di sindacato nel sindacato rosso dovessero propendere per lo strappo. A quel punto il rischio di messa in discussione della posizione del capo, diciamo pure, dell’esternazione di una linea alternativa, diventerebbe concreto.
Intendiamoci, la storia della Cgil parla di altro. Parla di compagni che difficilmente mollano il Lider Maximo, ma mai come in questo momento si sta formando una saldatura di insoddisfazione che tocca varie anime del sindacato. Anche il pubblico impiego. Che prima si è affidato alla opposizione senza se e senza ma al rinnovo dei contratti e poi si è ritrovata con il cerino in mano. Mollati dalla Uil e isolati sul fronte del no mentre tutti gli accordi venivano firmati. Cisl e Uil si sono potuti rivendere di aver ottenuto un incremento di 170 euro lordi per le buste paga di circa 3 milioni di lavoratori, e la Cgil? Oppure le Poste. Da sempre un feudo della Cisl, ma rispetto alle quali in questo momento Landini & C. sono completamente tagliati fuori da qualsiasi tavolo. E anche sulla manovra. Il compagno Maurizio chiama i suoi all’ennesimo sciopero in solitaria, mentre Daniela Fumarola (Cisl) può dire di aver avuto un’importante voce in capitolo su quasi tutti i dossier legati ai salari (riforma dell’Irpef in primis) della legge di bilancio e Bombardieri rivendicare che la detassazione degli aumenti contrattuali che «dà risposta a quattro milioni persone» è una misura che stava particolarmente a cuore alla Uil.
Il no a prescindere paga? In molti all’interno dello stesso sindacato rosso da tempo pensano di no e adesso potrebbero passare dalla critica celata all’azione: basta isolarsi, riprendiamo l’obiettivo dell’unità sindacale e pensiamo a rinnovare contratti e firmare accordi. Soprattutto in caso di altri altri passi falsi o azzardati di Landini. A partire appunto dai risultati dello sciopero e anche da quelli del referendum sulla riforma della Giustizia, con la Cgil che è pronta a fare da traino di un comitato ad hoc.
Il segretario ne è consapevole e sta serrando i ranghi. Ancora non è stato ufficializzato, ma la decisione di cambiare il numero due è presa.
Da un bel po’ di settimane ormai, Landini ha comunicato al segretario organizzativo, Luigi Giove, che le sue deleghe sarebbero passate a Pino Gesmundo.
Un fulmine a ciel sereno per chi dopo aver appoggiato il leader nella battaglia elettorale ed essere stato sempre fedele alle posizioni del capo si sarebbe aspettato tutt’altro trattamento.
Ma evidentemente al compagno Maurizio oggi serve qualcosa in più. E anche questo è un chiaro segnale di difficoltà per l’uomo che sognava di guidare una sorta di terzo polo rosso e adesso si ritrova con mezzo sindacato che non vede l’ora di non averlo più tra i piedi.
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Riduci
Nel 1990 il nostro reddito pro capite era vicino a quello Usa (42.600 dollari contro 44.300). Ora la distanza è abissale (53.100 e 75.400). Ma ad arrancare è stata tutta l’Europa, che ha puntato su deflazione salariale e folli regolamenti anti imprese.
Chissà se i numerosi politici, prevalentemente del Pd, che nei giorni scorsi hanno orgogliosamente esposto sui social la bandiera della Ue, abbiano mai riflettuto sull’effettivo contributo della Ue al benessere dell’Italia e degli altri 26 Stati membri. Così, giusto per poter rivendicare con ancora maggior orgoglio, davanti alle ripetute accuse di Donald Trump, che la Ue è un progetto che nei suoi primi 35 anni (di cui 26 anche con la moneta unica) ha costituito un vantaggio per i Paesi aderenti, rispetto alla situazione ante 1992.
Proprio ieri, è stato il professor Francesco Giavazzi a fornirci un inatteso assist parlando delle lezioni da trarre per l’Italia osservando la Corea del Sud e Taiwan. Concentrandoci sulla prima, troviamo parecchi tratti che la rendono comparabile al nostro Paese: pur con una popolazione coreana lievemente inferiore, entrambe sono economie industriali avanzate e si collocano tra le prime potenze manifatturiere globali (l’Italia è spesso al settimo posto, la Corea del Sud al quinto) con forte vocazione all’esportazione.
Allora, utilizzando il database della World Bank, abbiamo osservato l’andamento del Pil pro capite, misurato a parità di potere d’acquisto (per tenere conto del diverso livello di costo della vita) e a dollari costanti 2021 (per neutralizzare l’effetto cambio). Ed abbiamo scoperto che nel 1990 l’Italia - quella tanto vituperata di Tangentopoli, per intenderci - vantava un invidiabile Pil pro capite di 42.657 dollari. Molto vicino a quello degli Usa (44.379 dollari) e nettamente superiore a quello della Ue (33.427) e della Corea del Sud (13.840).
Facendo un rapido salto in avanti di 34 anni, arriviamo ad oggi e troviamo che la Corea ha quasi agganciato l’Italia (50.414 dollari contro 53.115), gli Usa sono decollati verso lo spazio (75.492) e la Ue ci ha pure superato (54.291). Osservando la dinamica nel tempo, l’Italia è riuscita a tenere il passo della crescita fino alla fine degli anni Novanta, per poi iniziare un lungo declino, particolarmente grave nel decennio iniziato con la «cura Monti» del 2011-2012 e i successivi governi Letta, Renzi, Gentiloni. A prescindere dalla specificità dell’andamento dell’Italia, anche la Ue nel suo complesso ha progressivamente ampliato la larghezza della forbice rispetto agli Usa. In 35 anni, oltreoceano hanno aumentato il Pil complessivo (tenendo quindi conto della componente demografica) del 350%, la Ue poco meno del 200% e l’Italia all’incirca del 100%. Da considerare che la crescita della Ue tiene conto dell’ingresso dei 12 Paesi orientali tra 2004 e 2007. La dinamica e il confronto appaiono particolarmente sfavorevoli dopo la doppia crisi del 2008-2009 e 2011-2012. Usa e Corea hanno recuperato con notevole rapidità e ripreso la crescita col passo pre crisi, Italia e Ue sono cadute in un decennio di torpore che nemmeno la ripresa post Covid è riuscito a scuotere.
Pare quasi superfluo sottolineare che - per ammissione di protagonisti di quegli anni come Paolo Gentiloni e Mario Draghi - quella modesta performance sia stata il risultato di una serie di fallimentari politiche economiche a loro volta esito di una struttura istituzionale gravemente disfunzionale. Risuonano ancora le parole quasi balbettanti di Draghi in commissione parlamentare il 18 marzo scorso («noi in quegli anni pensavamo… tenevamo i salari bassi come strumento di concorrenza») per descrivere le cause di questo declino. Cambiando l’angolo di osservazione i risultati non cambiano: l’andamento del rapporto tra Pil pro capite Ue e Usa, a partire dalla crisi del 2008-2009, è una linea verticale in caduta libera. In termini nominali, il Pil pro capite di un cittadino Ue oggi è poco meno del 50% di quello di un cittadino Usa. Aldilà dei numeri è rilevante anche il freno del mostro regolatorio che è la Ue: basti pensare che decine di migliaia di imprese sono state tenute per mesi in ostaggio dell’obbligo del report di sostenibilità e della due diligence sui fattori Esg, per poi liberarle solo pochi giorni fa. Non si riesce nemmeno a misurare lo spreco di tempo e denaro che c’è stato nel frattempo.
Ma da soli saremmo andati peggio e saremmo affondati nel Mediterraneo, si affrettano a precisare e controbattere le Picierno, i Gori, i Gentiloni et similia. Perché la massa critica per competere oggi nel mondo e stare al passo di Usa e Cina è solo quella raggiungibile stando uniti. Stendendo un velo pietoso sul drastico calo di investimenti pubblici causato dall’austerità di bilancio imposta da Bruxelles, allora viene da chiedersi perché la Corea non sia affondata nel Mar Giallo o Seoul non abbia deciso una (mortale) alleanza con la Cina o con il Giappone.
La risposta ce l’ha fornita proprio Giavazzi ieri su un piatto d’argento: «Il governo della Corea del Sud intervenne sin dall’inizio per mantenere i salari alti […] il governo favorì la ricomposizione dell’industria attraverso il credito pubblico […] che fu il fattore determinante di quella rapida crescita». Esattamente ciò che nella Ue è risultato impossibile, perché sarebbe scattata la tagliola del divieto di aiuti di Stato e si è puntato tutto sulla deflazione salariale. Ma forse Giavazzi ha dimenticato che l’Italia è nella Ue da 33 anni, perché afferma che «comprimere i salari e proteggere le imprese dalla concorrenza internazionale, come si è fatto a lungo in Italia, sono entrambi freni alla crescita». Possibile che in quasi due anni a Palazzo Chigi, Draghi non gli abbia detto che quelle scelte sono l’effetto di un’unione disfunzionale, soprattutto quella monetaria?
È benvenuta la lezione secondo cui «bassi salari non significano solo bassi redditi, scarsi consumi e crescita asfittica. Significano anche scarsi pungoli a puntare sulla produttività», ma l’invito a riflettere rivolto a Giorgia Meloni, avrebbe dovuto contenere l’essenziale precisazione che si sarebbe trattato di una lezione e un invito pertinente qualora l’Italia fosse stata fuori dalla Ue. In quel caso, l’Italia sarebbe potuta diventare la Corea d’Europa e invece da Bruxelles ci hanno piombato le ali.
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Riduci
Riccardo Muti (Ansa)
Il Maestro, che oggi verrà premiato da papa Leone XIV, lancia un appello alla politica.
«Il mio sogno è veder tornare in Italia le spoglie di Luigi Cherubini (1760-1842, ndr) e dirigere il Requiem in do minore nella Basilica di Santa Croce della sua Firenze. Magari con l’orchestra e il coro del Maggio musicale fiorentino e un’orchestra e un coro francesi, per creare un connubio culturale che diventerebbe anche politico tra Italia e Francia, nel nome di un compositore venerato da Ludwig van Beethoven e Johannes Brahms». Nel giorno in cui Riccardo Muti riceverà il premio Ratzinger dalle mani di papa Leone XIV, in occasione del concerto di Natale che si svolgerà questa sera in Aula Paolo VI (diretta su Rai 2 alle ore 18), il Maestro - ospite del podcast Non sparate sul pianista - rilancia il suo invito alla politica, affinché trovi una via diplomatica per esaudire il desiderio del genio toscano, oggi purtroppo dimenticato. «Gli anni sono passati», confida Muti con un filo di amarezza, «gli appelli si sono moltiplicati, il risultato è sempre stato pari a zero. Ormai il mio cammino si sta esaurendo, ma ho ancora la speranza che qualche cosa si possa fare».
In programma oggi in Vaticano la Messa per l’incoronazione di Carlo X, eseguita dall’Orchestra giovanile fondata da Riccardo Muti nel 2004, che prende il nome proprio dall’artista venerato dai transalpini, che fu anche direttore del Conservatorio di Parigi. «Un’avventura che in più di 20 anni ha visto passare oltre mille ragazzi e ragazze. Molti di loro oggi siedono in prestigiose orchestre, italiane e straniere, con una sorta di fierezza per essere stati, tra virgolette, dei “cherubini”». Il 19 dicembre sarà il momento invece di dirigere il Requiem a Firenze, non ancora in Santa Croce, davanti al cenotafio di Cherubini, ma nel teatro del Maggio musicale fiorentino (con la sua orchestra e il suo coro). In una serata dedicata a un altro gigante, ricordato troppo poco di questi tempi, Vittorio Gui (direttore d’orchestra e compositore, scomparso 50 anni fa, nonché padre del Maggio).
Per provare a riaccendere l’attenzione sulla figura di Cherubini e a dare di nuovo voce all’appello del Maestro Muti, Tivù Verità ha aperto il dibattito. Dopo l’inquadramento storico e culturale di questo personaggio offerto dal direttore artistico dell’Orchestra della Toscana, Daniele Spini, tocca a Irene Sanesi, presidente dell’Opera di Santa Croce, ricordare la partecipazione popolare del 2018 (in quell’occasione furono raccolte oltre 30.000 firme), quando il leggendario direttore d’orchestra napoletano lanciò l’idea. Un’esperienza positiva che però non riuscì a portare a un risultato concreto. Giovanni Vitali, casting manager della Fondazione Teatro del Maggio musicale fiorentino, lancia a questo proposito una proposta interessante. «Si potrebbe iniziare a organizzare un primo viaggio del corpo dell’artista, celebrato da concerti sia a Parigi e a Firenze. A volte è importante compiere un primo passo per arrivare all’obiettivo finale. La ritrosia dei francesi per quanto mi riguarda è motivo d’orgoglio: significa che considerano Cherubini un vero genio».
A offrirsi come testimonial politico dell’iniziativa, con la promessa di costruire un’alleanza bipartisan, grazie agli ottimi rapporti con il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è stato il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani: «La strada è lunga, ma non bisogna demordere e raccolgo volentieri l’invito visto che si tratta di una personalità così importante. Mi prendo l’impegno di riattivare gli sforzi per esaudire il desiderio del grande Maestro Riccardo Muti».
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Gli istituti sono sempre più collettori di prodotti finanziari e assicurativi: così i «big 7» italiani hanno registrato 21,6 miliardi di utile netto nei primi nove mesi del 2025. Occhio, però, a crediti in sofferenza e choc geopolitici.
Il settore bancario italiano continua a correre. Il margine di interesse si sta stabilizzando o scende con la discesa dei tassi Bce, ma i gruppi maggiori restano redditizi. I sette maggiori istituti hanno registrato 21,6 miliardi di euro di utile netto aggregato nei primi nove mesi del 2025 (+9% anno su anno). Nel terzo trimestre, l’utile è stato 6,5 miliardi, +2% al netto delle voci straordinarie.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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