2018-08-04
«A Bargnani ho insegnato tutto tranne che a diventare un uomo»
L'ex guardia del Banco Roma campione d'Italia 1982-1983, Roberto Castellano: «Sono ancora sui campi di basket ad allenare. Ho tirato su una generazione di stelle. Peccato che Andrea Bargnani, appena arrivato in Nba, sia sparito nel nulla».Ci sono atleti che a un certo punto della propria carriera si ritrovano davanti a un bivio: da una parte i soldi e la fama, dall'altra gli affetti, il cuore. Raramente accade che prevalgano i sentimenti, ma quando succede che l'atleta si consegna al suo popolo, allora la storia diventa leggenda. Francesco Totti è l'esempio più recente di atleti cosiddetti bandiera, rarità sempre più introvabile; ma non è il solo: sempre a Roma, un romano di nome Roberto Castellano prima di lui, riuscì a regalare uno scudetto alla Capitale nel basket con il Banco Roma, la Virtus giallorossa. Era il 1983: Castellano giocava, segnava, vinceva ma in realtà con la mente già allenava. E soprattutto osava. Una volta finita la carriera da giocatore, finalmente iniziò a insegnare il suo basket: intraprese nuove vie, anticipò di trent'anni alcune leggi di questo gioco, affrontando per primo i rigidi paletti dell'ignoranza. Sfidò tutti, ma andò avanti, come un rivoluzionario, continuando a insegnare il suo basket a centinaia di ragazzi e crescendo molti campioni. Su tutti Andrea Bargnani, che deve proprio a Castellano il fatto di essere stato selezionato nel 2006 - primo giocatore europeo della storia - prima scelta assoluta a un draft Nba. E sempre come Bruno Conti e come Totti, anche Castellano non ha mai lasciato la sua città: «E perché avrei dovuto andar via? Per i soldi?», ci chiede. «C'è altro oltre ai soldi a Bologna e Livorno me ne offrirono tanti. Non accettai. Allenavo già in alcune palestre romane, non potevo lasciare quei ragazzi». Non li ha più lasciati, e oggi, a 60 anni, è ancora lì, in palestra, ad allenare probabilmente i figli di quei giovani che iniziò al basket a metà degli anni Novanta. Non si riesce proprio ad abbandonare una città come Roma?«È la più bella del mondo e la più grande in Italia. C'è tanto da fare. E mi permetto di dire, anche se non sono un grande appassionato di calcio, che c'è chi rimane e chi fa anche del bene. Parlo di un ragazzo che Roma la conosce bene».Un ragazzo che come lei, che amava i Beatles e i Rolling Stones, e che ai soldi (Milan) e alla fama (Real Madrid) ha preferito Roma e la Roma.«Francesco Totti, come tanti romani, ama la sua città, ama Roma. Oggi è un uomo cresciuto, maturo. Mi ha fatto enormemente piacere aver appurato che si adopera fattivamente per fare del bene. Pochi sanno quanto si è messo in gioco per aiutare il prossimo». Torniamo a metà degli anni Settanta. Roma, quartiere Nuovo Salario. «Alto e grosso com'ero mi avvicinai al basket. Giocavo dai salesiani proprio al Nuovo Salario e mentre giocavo, a dirla tutta, allenavo già la formazione femminile nella quale giocava mia sorella. Nello stesso club». Poi arrivò il classico treno. Quello che passa una volta sola nella vita.«Ma noi non ce ne rendemmo realmente conto. Il destino volle che il Banco Roma reclutasse ragazzi classe 1958. Arrivarono due persone che - è bene ricordare - furono i padri fondatori della storia del Banco Roma. Parlo di Rino Saba e Franco Begni, due persone serie e appassionate di basket. Venni scelto assieme ad altri ragazzi. Dopo pochi giorni mi ritrovai a giocare con il Banco Roma. Era un gioco per noi. Nulla più».Ma nel giro di pochi anni vi ritrovaste in Serie A…«Esatto e nessuno poteva immaginare quanto fosse forte il nostro gruppo. Ragazzi che hanno scritto la storia del basket italiano. Era il 1980 ed eravamo in Serie A. Appena quattro anni prima ero un ragazzino al Nuovo Salario». E oltre al Castellano giocatore, cresceva anche l'allenatore. «Diciamo che avevo le mie idee in campo già da giovane. Poi arrivò Valerio Bianchini, un grande allenatore, anche se fu lui a mandarmi via l'anno dello scudetto. Una cosa però ci tengo a precisarla: devo solo ringraziarlo per quello che mi ha insegnato».Due passi avanti, perché la mandò via?«Avevamo appena vinto lo scudetto e un giornalista mi chiese il segreto del Banco Roma. Risposi che noi romani eravamo forti, ma senza Larry Wright non avremmo fatto nulla».Direbbe ancora la stessa cosa?«Certo. Avevo detto la più sacrosanta delle verità, ma credo che Bianchini, e forse anche qualche alto dirigente del Banco, non prese bene le mie parole e mi ritrovai, da campione d'Italia, fuori squadra. Fu in quel momento che pur di non lasciare Roma, accettai una squadra di A2, la Master V Roma».Chi era Larry Wright?«Un genio del basket. Ancora oggi non so come sia arrivato a Roma e in Italia un giocatore forte come lui. Era già un nome nella Nba. Legammo molto, veniva spesso a cena a casa mia. Ricordo che dopo pochi giorni che era arrivato nella Capitale, una sera spese quasi un milione di lire per telefonare alla sua famiglia dalla camera d'albergo. Voleva tornarsene negli Stati Uniti. Riuscimmo a convincerlo tutti insieme. Vinse tutto quello che c'era da vincere. Era di un altro livello: un fuoriclasse». La data storica è quella del 19 marzo 1983: Roma batte Milano e vince lo scudetto. «Enrico Gilardi è stato il più grande giocatore che abbia mai visto. Polesello un signor pivot, Sbarra un genio. Ma ricordo Solfrini, Delle Vedove, Kea e poi il fuoriclasse: Wright. Eravamo troppo forti. Ricordo che ci ritrovammo tutti a Piazza del Popolo. Che notte! Anche se io il pomeriggio seguente ero in palestra ad allenare i miei ragazzi». Due passi indietro, gli anni a giocare maturando una visione da preparatore.«Giocavo e segnavo tanto. Però già allora iniziai a pensare che la vera svolta sarebbe stata se un giocatore alto, un pivot, avesse potuto tirare a canestro come uno piccolo, come un play o una guardia».La rivoluzione? «Oggi è la norma nel basket di tutto il mondo che un giocatore di 2 metri o anche più, tiri come uno di 1.80. Allora venni attaccato ferocemente. Quando iniziai ad allenare e imposi ai miei pivot di giocare fronte al canestro e non come si era fatto per decenni, con le spalle al canestro, fui attaccato da tutti». In realtà, grazie a questa sua intuizione, ha formato moltissimi giocatori che hanno raggiunto traguardi importanti.«Diciamo che molti ragazzi ancora oggi tornano a trovarmi e si parla dei tanti anni passati assieme. Ricordano bene quando li mettevo in panchina perché non avevano tirato da fuori». Un eretico.«Arrivarono a dire che rovinavo i giocatori».Non solo basket, ma anche formazione, crescita, valori.«Il basket, come tutti gli sport, deve insegnare valori innanzitutto. Essere uomini, prima ancora che atleti o campioni, è la base sulla quale poggia una carriera, ma soprattutto una vita». Ecco perché parla di missione.«Ci metto dentro anche la mia fede. Sono un cattolico praticante, credo fermamente in alcuni valori che cerco di insegnare. Ma la cosa fondamentale è il rispetto. E non portare mai rancore. Anche quando accadono cose strane». A proposito di cose strane, parliamo di un altro romano: Andrea Bargnani.«L'ho allenato per sette anni. Arrivò che aveva 11 anni ed era già alto 1,95. Si vedeva lontano un miglio quanto talento ci fosse in quei centimetri. Iniziò una bella storia, fatta di migliaia di chilometri».In allenamento?«Non solo, anche per strada. Ho letteralmente fuso la macchina dell'epoca, percorrendo quasi 100 chilometri al giorno dall'Olgiata dove viveva Bargnani, fino a Montesacro dove ci allenavamo. Mille viaggi, mille chiacchierate. Lo facevamo anche per aiutare la famiglia che si era da poco trasferita a Roma. Lo andavo a prendere finita la scuola e la sera lo riportavo a casa». E poi? «E poi andò a Treviso. E nel 2006 fu selezionato come prima scelta al draft Nba. Il coronamento di un sogno, di una vita passata assieme. Poi, improvvisamente, il buio. Anche in questo caso nessun rancore. L'irriconoscenza è di questo mondo e alberga in tanti cuori. Non lo sento da anni. Non l'ho più visto. Si è dimenticato di tutti. Spero che un giorno se ne renderà conto. Con lui il lavoro è riuscito a metà». In che senso?«La mia filosofia è quella di crescere giocatori di basket, ma prima ancora uomini. Con Bargnani, per quanto riguarda l'uomo, credo di aver fallito».
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