La vita, quando meno te lo aspetti, ti fa trovare lungo la strada trappole di ogni tipo. Tutta una serie di tranelli che possono farti cadere, a volte rovinosamente. Alcool, droghe, scommesse, carte da gioco. Se poi hai poco più di 20 anni e sei forte, ricco e famoso ecco che allora i problemi diventano ancora di più. A un giovane calciatore inoltre si chiede spesso di essere subito uomo e di saper gestire bene l'azienda che lui stesso ha creato (basti guardare quello che fa da oltre 15 anni Cristiano Ronaldo); ma se non sei fortunato a trovare persone fidate accanto a te anche per il ragazzo calciatore, prima o poi, arriva l'attimo che può fregarti. E c'è un'ulteriore gamma di problemi che può gettarti nello sconforto: stalking, invidie, coincidenze. Oppure intercettazioni: «Era l'inizio della stagione 2006-2007, avevo iniziato bene il campionato con 3 reti. Poi per una storia di carte clonate, di intercettazioni, mi ritrovai in mezzo ad un'indagine di partite combinate. La realtà è una sola: io non ho mai scommesso niente. La cosa mi devastò, persi la nazionale, iniziai a giocare male e poco. Fui squalificato due mesi!». Parole di Francesco Flachi, che di lì, nel giro di pochi mesi, incappa in due squalifiche consecutive perché viene trovato positivo ai metaboliti della cocaina.
Amato in campo e fuori per il suo carattere allegro e sfrontato, ancora oggi a Firenze come a Genova se lo litigano tra radio, tv e Web dove collabora da tempo. Il ragazzo che sognava di essere il Totti della sua città, si ritrovò a giocare una carriera sotto la Lanterna, tanto che dopo il duo dello scudetto Vialli-Mancini, è lui il terzo realizzatore della storia della Sampdoria con 112 gol. Flachi iniziò a segnare valanghe di gol nell'Isolotto, un rione di Firenze. Aveva 13 anni: «Ancora oggi mi fermano per strada e mi ricordano di quando segnai 5 gol in una partita, 4 in un'altra. In effetti segnavo davvero tanto… Dopo qualche mese mi chiamò Moggi ed ero praticamente del Napoli. Bloccò tutto mia madre che al momento di decidere scoppiò a piangere. Non riusciva ad accettare che a soli 13 anni dovessi andare così lontano per il calcio».
E così si realizzò il suo sogno: Firenze!
«Si! Giocare nella mia città. Avrei davvero voluto essere per Firenze quello che Totti è stato per Roma. Io però sono stato più bischero. Mi ritrovai a giocare con gente come Batistuta, Effenberg, Rui Costa, Baiano».
Perché andò male alla Fiorentina?
«Claudio Ranieri voleva che andassi in provincia a farmi le ossa, mentre Vittorio Cecchi Gori stravedeva per me. Oggi fa bene la Viola a puntare sui giovani».
E quindi si ritrovò alla Sampdoria.
«E nacque il più bello degli amori. Una città bellissima, una tifoseria unica».
Cosa vuol dire giocare a Genova?
«Lo stadio è meraviglioso e la città è bellissima. Mi fa male vederla oggi sfregiata dopo la tragedia del Ponte Morandi. In otto anni che ci ho vissuto mai visto un giorno che non c'era un lavoro su quel ponte».
E in otto anni quanti derby?
«Il derby è di Genova. Altri non ce ne sono. Gli altri sono diversi. È una partita che non puoi spiegare per intensità, bellezza, entusiasmo».
Ha mai sofferto le pressioni Francesco Flachi?
«In campo mai. All'Isolotto o al Franchi a me non importava nulla. Era la stessa cosa, dovevo far gol. Il calcio mi ha sempre dato quella sicurezza che invece non ho, o meglio, non avevo fuori dal rettangolo di gioco».
Cosa accadeva fuori dal campo?
«Diventavo un cacasotto. Era come se il giocatore sicuro e sfrontato scomparisse e vivevo spesso con grande disagio i problemi della vita e del calcio stesso».
In campo dava del tu al pallone, poi decise ad un certo punto della sua vita di dare del tu a qualche vizio balordo…
«Purtroppo sì! A una delle tentazioni più brutte che una vita può proporti beffardamente. La ragione? Tante, diverse».
Ma se si volesse ritrovare il momento in cui uno cede. Quand'è che mollò?
«Le insidie, le insicurezze possono fregarti in qualsiasi istante. Sei giù, ti incolpano ingiustamente e invece di reagire bene, ho reagito male. Mentre sei lì che giochi, che vivi la tua vita di calciatore è tutto così veloce che quasi non ti rendi conto che stai buttando via tutto».
Cosa accadde tra il settembre del 2006 e il febbraio del 2007?
«Mi ero ritrovato da poco in una storia assurda riguardo carte clonate e combine, ero davvero triste, avevo perso la Nazionale. Volevo urlare che era tutta una pazzia, ma non potevo. Era inutile. E inizi a stare solo. E capita che ti rifugi in una cosa stupida».
Cosa scatta? Perché non ci si ferma subito visto che ci si rende conto che è una immane sciocchezza?
«Te ne rendi conto, certo, ma pensi al calcio, solo a quello. Mentre per tutto il resto quasi ti viene da dire “si vabbè poi ci penso"».
Influisce anche il tipo di vita?
«Ma io non sono uno da vita da copertina! Non sono andato mai a una festa. Credetemi. Andai una sola volta d'estate in Costa Smeralda, invitato da amici calciatori. C'era Lele Mora, tanti calciatori, tanti cosiddetti Vip, ma io guardai mia moglie e le dissi, “andiamocene da qui". Non ci tornai più».
In effetti a Firenze come a Genova tutti parlano di lei come una persona semplice.
«Ma certo! Ora non voglio sembrare immacolato, anche io ho commesso le mie bischerate. A quell'età per dire ti compri 27 macchine, 27 orologi, vuoi avere sempre di più, ma personalmente durò poco. Capii subito che io posso solo stare in mezzo alla mia gente. Poi capitano gli errori ma non voglio accampare storie perché si decide sempre in prima persona. Nessuno ti imbocca. Ricordo che avevo tanta gente attorno, pagavo tutto io. Cene, biglietti, tutto. Persone che sono di colpo sparite. Meglio così, meglio non parlarne più. Mi spiace solo aver fatto male alle persone che mi amano davvero: la mia famiglia, i miei genitori. Sa la cosa più bella quale fu?».
Quale?
«Mio padre. Quando la notizia della mia sciocchezza fu data da giornali e televisioni ricordo che tornai a casa dai miei. Fu durissima vedere mio padre, ma nonostante il momento terribile, mi disse una cosa bellissima che non dimenticherò mai. Era seduto sul divano, si vedeva che era preoccupato, mi guardò e mi disse: “Se è una bischerata finiscila immediatamente, altrimenti ti prego andiamoci a curare". Gli ho levato 20 anni di vita per le mie cazzate».
Quando si rese realmente conto della sciocchezza che stava commettendo?
«Guardando i miei figli. Mi misi mio figlio piccolo sul petto, me lo guardai, scoppiai a piangere. Decisi che dovevo farla finita. Ho pianto molto in quel periodo, piangere fa benissimo».
Immagino i rimpianti…
«Tanti. Ho buttato via parte della mia carriera. A volte riguardo le cassette delle mie partite, rileggo i giornali. Ferite che mi porterò per sempre dentro».
Oggi come vive Flachi?
«Mi spiace aver sperperato soldi inutilmente, ma nonostante tutto non sto male. Certo nemmeno bene, mi sarebbe piaciuto dare qualcosa in più ai miei figli».
È stato squalificato fino al gennaio del 2022, intanto allena… da fuori.
«Sì! A seguito della squalifica non posso entrare in uno stadio, neanche a veder le partite. Alleno il Bagno a Ripoli e sogno di diventare allenatore. Spero di farcela. Se sono bravo lo dirà il campo, sennò sto in famiglia e continuerò a lavorare nella mia paninoteca a Firenze».
Cosa ha capito oggi della figura dell'allenatore?
«Che spesso non è assolutamente colpa sua. E volete sapere da quando lo penso? Da quando mi allenavo con Franco Scoglio».
Cosa aveva di speciale Franco Scoglio?
«Era un sanguigno. Parlava in maniera diretta, senza tanti giri di parole. Una grandissima persona che ha fatto tanto per me. Un paradosso, visto che poi lui diventò un mito del Genoa e formò me, che giocai nella Sampdoria».
Uno dei gesti atletici che l'hanno sempre caratterizzata è la rovesciata.
«Una volta a Perugia ne segnai due in una sola partita. La seconda la segnai al 94'. Potete immaginare la gioia».
A proposito di rovesciate…
«Ho già capito, Cristiano Ronaldo! Beh quella che fece alla Juventus in Champions è stata a dir poco spettacolare! Parliamo di un grandissimo professionista. Una macchina da guerra, uno straordinario giocatore che si può permettere di fare tutto. Immenso».
Cosa vorrebbe urlare oggi Francesco Flachi?
«Io non ho mai imbrogliato nessuno, non ho mai rubato un euro, non ho mai mancato di rispetto a nessuno se non a me stesso e a chi mi ha voluto veramente bene. Non ho mai buttato via un minuto d'allenamento. Spero di tornare in un campo di calcio senza dovermi nascondere».
A chi deve dire grazie?
«Ai miei genitori, ai miei figli e a mia moglie Valentina. Sono 20 anni che stiamo insieme. Come tutte le coppie di questo mondo abbiamo i nostri alti e bassi, ma non è una ex velina, non è una ex letterina e la amo ancora oggi come quando la conobbi tanti anni fa, da cassiera in un negozio di Firenze. Per me è la più bella del mondo».
Sarà anche vero che ai fini della qualificazione ai mondiali di Cina 2019 lunedì sera contro l'Ungheria contava solo vincere, ma un'Italia del basket così in difficoltà contro un avversario di seconda fascia non lascia presagire niente di buono. La striminzita vittoria (63-69) contro i magiari conferma l'Italia al secondo posto del girone J, valido per ottenere l'agognato pass per i mondiali, ma la tanta fatica, troppa, fatta dagli uomini del ct azzurro Romeo Sacchetti per portare a casa la partita, conferma che la pallacanestro italiana è in crisi.
Il nostro movimento cestistico da oltre un ventennio non riesce a tirarsi fuori dalle sabbie mobili di una crisi di risultati che sembra non finire mai. Siamo alle porte dell'ennesimo tentativo di qualificarci direttamente a un mondiale. Non ci riusciamo dal 1998 (nel 2006 ci andammo grazie a una wild card, istituto nel frattempo giustamente abolito). Una crisi paradossale se si pensa che proprio in questi ultimi 20 anni abbiamo visto crescere quattro talenti straordinari, tutti sbarcati nella Nba: Andrea Bargnani, Marco Belinelli, Danilo Gallinari e Luigi Datome.
In estate Sacchetti si è ritrovato a confrontarsi con il duo Nba Gallinari-Belinelli. Contrariato il primo, offesi i secondi, il nodo della questione è l'ipotetica mancanza di attaccamento alla maglia azzurra di qualche elemento: «L'onore più grande che ho avuto è stato quello di indossare la maglia della nazionale italiana, ma è anche vero che ai miei tempi c'erano figure e ruoli definiti. Quando Rubini parlava era legge. E nessuno fiatava. Non dimentichiamo però che oggi ci sono leggi, norme e contratti di lavoro totalmente diversi rispetto ai miei tempi».
Parole e concetti di Antonello Riva. Una delle autentiche leggende della pallacanestro italiana. Riva è a tutt'oggi il miglior realizzatore della storia della nostra nazionale azzurra (3775 punti, 930 in più del secondo che è Dino Meneghin), un cannoniere implacabile che il 29 ottobre 1987 ha segnato 46 punti in una sola partita contro la Svizzera (record ancora oggi imbattuto) e che ha firmato 4 delle migliori 6 realizzazioni di tutta la storia del basket azzurro. Ha vinto uno scudetto, 3 Coppe delle Coppe, 2 Coppe dei Campioni, 1 Coppa Intercontinentale, 1 Coppa Korac, 1 medaglia d'oro e una d'argento agli Europei di basket.
Partiamo da quel nome che ha citato prima. Chi era Cesare Rubini?
«Un grande uomo e un grande dirigente della federazione pallacanestro».
Avrà letto e visto quanto accaduto nelle recenti settimane. La pallacanestro italiana come sta?
«Non credo di offendere nessuno se dico che stiamo messi male. E non lasciatevi fuorviare da Sacchetti oppure dal duo Gallinari-Belinelli, non sono loro il problema. Loro sono le vittime. Il problema è a monte, è il sistema che non va».
La federazione?
«Non voglio addossare colpe alla Fip ma non ho mai visto un presidente di una squadra che va a discutere con i giocatori. Il presidente dovrebbe stare fuori da tali questioni. Non ho neanche mai visto un allenatore parlare di simili problemi. Ai miei tempi mai e poi mai sarebbero uscite certe cose sui giornali. Confrontarsi così attraverso i giornali è un errore».
Si parla di poco attaccamento alla maglia azzurra.
«Non concordo. I colori azzurri devono essere imprescindibili, ma so bene che i contratti di lavoro di Belinelli e Gallinari con la Nba non sono pezzi di carta normali. Parliamo di contratti molto chiari e precisi, con milioni di dollari in ballo. Se ne poteva però parlare qualche mese fa e il caso forse non sarebbe mai scoppiato».
Il primo fu Bargnani, poi Belinelli, Gallinari, infine Datome: c'è da capire però come mai con quattro assi del genere il nostro basket non si sia più rialzato.
«Una nazionale è fatta da 12 campioni, non da quattro, seppur fortissimi. La mia gioia più grande la provai a Nantes, nel 1983, quando vincemmo la medaglia d'oro agli Europei. Bene, in quel periodo in campo c'erano tre, dico tre play che avrebbero potuto giocare 40 minuti. Il partente era Pierluigi Marzorati, però c'era anche Charlie Caglieris che era fortissimo e infine Roberto Brunamonti».
Il livello medio del nostro basket si è abbassato?
«Oggi guardo le partite e di italiani in campo ne vedo pochissimi e con limitata esperienza internazionale. Come si può crescere in un simile contesto?».
Con i settori giovanili?
«Certo, ma con le norme attuali, dalle giovanili al basket professionistico i ragazzi non trovano spazio. Ci rendiamo conto che siamo alla follia se permettiamo la presenza di due stranieri in serie C?».
Ai suoi tempi non era così?
«Assolutamente no. Ai miei tempi un allenatore come Valerio Bianchini vide un ragazzo di 17 anni, il sottoscritto, e lo buttò nel basket che contava. Oggi mi chiedo cosa sarebbe accaduto al giovane Riva».
Oggi si cerca solo la vittoria, a scapito della crescita tecnica e comportamentale. C'è un problema culturale?
«Sì. Non si lavora sulla crescita dei giovani perché non conviene spendere per un settore giovanile che magari ti regala uno-due prospetti interessanti, quando poi con 30.000 euro puoi comprare un giocatore straniero formato e già pronto per la serie A».
È quindi il sistema che non va?
«Questi ragazzi che hanno avuto il talento e la forza di andare a giocare nella Nba sono da ammirare. Non è assolutamente facile e scontato quello che hanno fatto».
Sacchetti giù dalla torre allora?
«Ma scherziamo! Anche lui è una vittima. Me lo ricordo in campo: grande intelligenza tattica unita a un fisico unico. Lo soffrivo da matti, in difesa non mi mollava mai».
Cosa fa oggi Antonello Riva?
«Sono 5 anni che non lavoro più nel basket. Su intuizione di mia moglie, abbiamo intrapreso un'attività nel network marketing. Ma soprattutto gestiamo il nostro tempo, la cosa più importante di tutte. E poi mi sento spesso con gli amici di una vita, Meneghin e Marzorati».
Crede che ce la faremo finalmente a rientrare in un campionato del mondo attraverso la porta principale?
«Speriamo. Sarebbe ora di creare una commissione di indubbia esperienza che studi un progetto nuovo e serio. Così com'è, la barca viaggia senza una rotta precisa. E poi si riportino certe personalità ai vertici del movimento, come accade all'estero».
Eugenio Fascetti: «Allegri è uno scorbutico come me ma ad allenare è il più bravo di tutti»
Ha fatto esordire in serie A giovani di grande talento e di grande tenacia; ha conquistato uno scudetto con la Juventus e un campionato di serie B col Messina. La Lazio gli deve davvero tanto, forse tutto. È stato capace di essere amato a Bari e a Lecce, che portò in serie A per la prima volta. Un viaggio in Ungheria negli anni Cinquanta gli tolse sul nascere ogni dubbio, la sinistra non era fatta per lui. Ha inventato la teoria del casino organizzato, e un termine che a suo dire gli garba molto è «scorbutico». Ecco, Eugenio Fascetti è un tipo scorbutico. Da sempre. E quello che più lo rende fiero è di aver fatto tanto marciapiede, come dice lui: «Si, ne ho fatto tanto, in tutte, dico tutte le categorie, fino alla serie A».
Partiamo dalla stagione 1960-61: vince il suo primo e unico scudetto.
«Mi allenavo col Bologna, mi chiamarono in sede e mi dissero che andavo alla Juventus. Mi ritrovai in una squadra stellare, giocatori come Mora, Boniperti, Charles, Sivori. Un grande gruppo. Ricordo la grande umiltà e la grande disponibilità proprio di Sivori e Charles. Uno spogliatoio unito, si usciva sempre tutti insieme. Peccato, perché avessi avuto una possibilità in più ci sarei potuto stare in quella Juve».
Poi un'altra chiamata in sede e si ritrovò a Messina.
«E lì soffrii due volte. Non volevo andarci e alla fine non volevo ripartire. Messina è bellissima».
Due anni a Savona, parentesi Lazio, poi San Benedettese, Viareggio e il sipario sul calcio giocato.
«Avevo già capito che avrei allenato. Mi ritrovai a Latina. Quella è stata una parentesi importantissima della mia vita da allenatore. Allenavo la Fulgorcavi, a Borgo Piave, nel centro sportivo di una fabbrica. C'era tutto, attrezzature d'avanguardia. Ma anche disciplina, ordine. E c'erano tanti giovani. Lì imparai a gestire un gruppo, a capire le diverse personalità dei ragazzi. Furono anni di marciapiede, anni formativi. Poi, finito di allenare, c'era tutto il litorale, che è molto bello, a Sud di Roma. Ci si ritrovava spesso ad Anzio, al ristorante del papà di un giocatore, il signor Alceste, un grande personaggio, persona di altri tempi. Quante belle chiacchierate di calcio. Il figliolo Gino era bravino, ed erano tutti tifosi incalliti della Lazio. Li ritrovai qualche anno dopo».
Entriamo nella leggenda. Stagione 1986-87, la Lazio arriva a 8 minuti dalla serie C. Poi il gol di Fiorini sancisce la famosa salvezza del -9.
«Annata pazzesca. Potevamo andare in serie A, rischiammo la C. Fino a quel Lazio-Vicenza. Ricordo la prima parata del loro portiere, capii subito che sarebbe stata durissima. Fece parate assurde. Solo la vittoria c'avrebbe salvato dalla fine. Poi all'82' Fiorini anticipa di un nulla il difensore su un tiro di Podavini e segna. Il boato dello Stadio Olimpico è un qualcosa di indimenticabile. Mai più sentito uno stadio creare un tuono del genere. Credo sia stato il gol più importante degli ultimi 40 anni della storia della Lazio».
Due anni prima aveva portato il Lecce per la prima volta in serie A.
«Altra grandissima emozione. C'era un gruppo di giovani fortissimi».
Fece esordire Antonio Conte in serie A.
«Che testa, che tenacia. Una furia. Oggi lo vedo troppo incazzoso, ma lui è così. È uno determinante e lascia un'impronta netta nelle squadre che allena. Non si diventa capitani della Juventus per caso».
Poi gli anni a Bari e un altro Antonio.
«Cassano, avesse avuto la testa di Conte, sarebbe uscito fuori un giocatore mostruoso. A livello di tecnica è un genio, un genio però che ha fatto molto meno di quello che avrebbe potuto fare. Giocatori come lui ne ho visti pochi. Purtroppo poi cedeva a certe scenate».
Come quella con il signor Garrone, ex presidente della Sampdoria?
«Esatto. Penso che la cosa peggiore che si possa fare è offendere una persona anziana. Alla lunga l'ha pagata».
Digressione. Il calcio l'ha salvata dal comunismo?
«Mamma mia. Nel dopoguerra, anche nel pallone serpeggiava una deriva socialista, definiamola così. Poi andammo per delle amichevoli in Ungheria. Era il 1956. A sentir parlare certi santoni sembrava che di là ci fosse il paradiso terrestre, ma io tutto sto benessere mica lo vidi. Ricordo solo fame, miseria e rovine. Come arrivammo all'aeroporto, senza chiederci permesso e con modi che non sto qui a spiegare, ci aprirono le valigie e controllarono tutto. Bene, avevo già capito tutto. Rimanemmo chiusi una settimana in albergo. Poi tornai in Italia e parlavano ancora di comunismo. Ma io avevo visto con i miei occhi».
In sintesi non le garba la sinistra?
«Senza tanti giri di parole, no. Per l'amor di Dio! Anzi l'unica cosa che mi piace a sinistra è la colonnina della classifica di calcio. Sono nato libero e voglio essere libero. Tutti lo devono essere, anche di lavorare».
Si riferisce a qualcuno in particolare?
«Mi riferisco a Salvini e Di Maio. Hanno vinto e allora li facciano lavorare in santa pace. Abbiamo fatto lavorare di tutto in questi ultimi anni in Italia. Poi alla fine del mandato si vedrà, saranno valutati».
Stagione 1981-82, il suo direttore sportivo si chiamava Beppe Marotta.
«A Varese. Aveva 20 anni e veniva al campo. Piano piano ha dimostrato una grande serietà. Anche lui ha fatto marciapiede sotto la scuola dell'avvocato Colantuoni, presidente storico del Varese. Ho solo un rammarico, quel Lazio-Varese».
Alla penultima giornata. Dopo 20 minuti vincevate 2-0.
«Ho un tarlo dentro da allora. Perdemmo 3-2. Noi eravamo lanciati per la serie A, accaddero cose strane e mi fermo qui perché non ho certezze. Eravamo forti, andavamo 20 chilometri più veloci di tutti».
La Juventus ha preso Cristiano Ronaldo.
«Beati loro. Ronaldo è un grandissimo e inoltre mi sembra anche una persona positiva. Mai dato problemi. È il migliore e non si può lamentare di madre natura, ma quello che ha fatto dopo è tutto merito suo, si allena da grandissimo professionista».
Le sarebbe piaciuto allenarlo?
«Dico di sì, ma con tutto il rispetto, se devo sognare, mi sarebbe piaciuto allenare Pelè. Unico, da fermo saltava in maniera impressionante. Un fisico micidiale. Mentre in Italia avrei tanto voluto allenare il più grande di tutti i tempi: Valentino Mazzola, il papà di Sandro. Ovvio che si sia tutti concentrati sul presente, ma alla mia età ne ho visti tanti. Schiaffino, Cruijff, Beckenbauer, Rivera, Mazzola. Mi sarebbe piaciuto vederli allenare con i sistemi di oggi. Penso a Di Stefano, il primo falso nueve: faceva gol, difendeva e ripartiva. Oppure Puskas, che ti tradiva con quella sua pancetta, palla sul sinistro e gol. Non c'era scampo».
A proposito di allenatori, qual è lo scorbutico di oggi che la intriga?
«Allegri: il migliore di tutti. Bravo a gestire i tanti campioni che gli mettono a disposizione, e soprattutto bravo in campo. Azzecca alla perfezione i cambi. E guardate che non è fortuna. Il bello è che sento che qualcuno lo critica. Pazzesco, con tutto quello che ha vinto».
Stagione 2003-2004, la sua ultima cavalcata in panchina in un calcio radicalmente cambiato. In meglio o in peggio?
«Da Pisa a Como, in 40 anni, ne ho viste davvero tante. Dico che per certi aspetti si è migliorato. Noi all'epoca non avevamo nessuna protezione, nessuna assicurazione e dobbiamo ringraziare Bulgarelli, Rivera, Campana perché hanno dato un volto ai giocatori. In altre cose si è peggiorato. Quando vedo un terzino che crossa e la palla va in gradinata, allora non va. Si deve tornare a insegnare calcio, si deve dare del lei al pallone. Quando ero a Bologna o a Pisa, gli allenatori ci lasciavano delle ore a battere i calci d'angolo. Dovrebbero tornare maestri come Oberdan Ussello o Ercole Rabitti. Oppure preparatori come Enrico Arcelli: cambiò il calcio. Si iniziò a correre con intelligenza».




