Ma per capire bene di cosa stiamo parlando bisogna immergersi nella Palermo dei primi anni Novanta, quando la Procura di Gian Carlo Caselli aveva iniziato una guerra di trincea contro la mafia dopo le stragi del 1992-‘93.
Un fortino che mal sopportava le interferenze dall’esterno. L’ex procuratore generale di Cagliari e Catania, Roberto Saieva, venne spedito a lavorare con Pignatone & c. dall’allora procuratore Antimafia, Bruno Siclari, per occuparsi di criminalità economica mafiosa. Ma Saieva e la collega Ilda Boccassini, spedita anche lei a Palermo come rinforzo, ricevettero un’accoglienza piuttosto fredda. «Caselli non era molto d’accordo su questa iniziativa […] non fece mistero del fatto che questa applicazione era sgradita al suo ufficio, perché tutti i magistrati della Procura di Palermo ritenevano che l’iniziativa del dottor Siclari fosse un atto di interferenza» ha dichiarato a verbale Saieva lo scorso 5 giugno. E ha aggiunto: «I rapporti con i colleghi sono stati minimi, ridotti all’essenziale. Rapporti assolutamente formali, ma sicuramente del tutto sporadici. Io non ricordo che di essermi seduto con il dottor Pignatone o con altri colleghi».
Nei pochi mesi in cui Saieva e Boccassini resistettero in città si videro affidare due procedimenti. Uno riguardava una rogatoria in Svizzera e l’altro, più importante, scandagliava gli affari di alcuni mafiosi con la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi di Ravenna, in particolare all’interno delle cave di marmo di Massa Carrara.
Un fascicolo che il procuratore nisseno Salvo De Luca ha definito a più riprese «tecnicamente morto». E il «dottor Morte» dell’inchiesta sarebbe stato Pignatone, il quale, insieme con i suoi famigliari, dai boss in affari con la Calcestruzzi, aveva comprato decine di immobili negli anni Ottanta. Ciò non gli avrebbe impedito di occuparsi dell’indagine, commettendo, a detta dei testimoni, madornali errori procedurali, che portarono l’inchiesta su un binario morto, con conseguente rapida archiviazione di tre dei quattro manager indagati del gruppo Ferruzzi.
A verbale, De Luca obietta che, però, a chiedere il proscioglimento non era stato Pignatone, che non risultava nemmeno «co-assegnatario» del procedimento, bensì lo stesso Saieva, la Boccassini e ad altri due colleghi che Caselli gli aveva affiancato. L’ex pm della Dna ribatte che «quegli atti furono compiuti dal dottor Pignatone […] che era il principale pubblico ministero che si occupava del procedimento». Ma, forse, senza comparire ufficialmente.
Quello strano fascicolo, denominato Calcestruzzi, a parere di Saieva, «aveva delle evidenti criticità». Quali? «Secondo la nostra valutazione, per la maggior parte degli indagati i termini di indagine erano scaduti ed erano scaduti da tempo prima dell’arrivo mio e della dottoressa Boccassini». Ma non ci sarebbe stato solo questo problema a rendere «inutilizzabili» gli atti. Pignatone avrebbe interrogato i manager della Ferruzzi con l’assistenza di un difensore, «anche se sarebbero stati iscritti molto tempo dopo» puntualizza Saieva. Che in un altro passaggio ribadisce: «Quegli atti di interrogatorio sono stati compiuti, che io ricordi, dal dottore Pignatone, cioè gli interrogatori di Panzavolta, Bini e… Pironi».
E questi errori da matita blu avrebbero affossato l’inchiesta.
Tali sbagli sono stati commessi per incompetenza o con dolo? Nella testa degli inquirenti la risposta pare abbastanza chiara.
Per gli inquirenti c’è da registrare un’altra anomalia: l’inchiesta era stata affidata al Servizio centrale operativo della polizia di Stato e alla Guardia di finanza, ma non ai carabinieri del Ros che, per primi, si erano occupati dei rapporti tra mafia e imprenditoria.
All’epoca Saieva aveva interloquito con il futuro capo della Polizia, Alessandro Pansa, anche «sulla possibilità di una rivitalizzazione di questo procedimento Calcestruzzi dopo l’archiviazione di tre indagati su quattro».
L’ex pm della Dna ha riferito a De Luca che il super poliziotto gli avrebbe raccontato di avere «constatato che esistevano diverse trascrizioni nei registri immobiliari dai quali risultava che dal gruppo Piazza erano stati venduti molti appartamenti alla famiglia Pignatone» e, per questo, avrebbe «ravvisato una qualche difficoltà» a procedere con le investigazioni, «riferite subito al dottor Caselli». Quest’ultimo avrebbe rassicurato il poliziotto, promettendo di occuparsi personalmente della cosa. In realtà lo Sco, a detta di Saieva, avrebbe trovato un muro: ai poliziotti sarebbero state negate intercettazioni, perquisizioni e una rogatoria internazionale per ottenere informazioni sull’attentato subito ad Atene dall’ex governatore della Banca Nazionale greca, Michalis Vranopoulos, un omicidio che gli investigatori italiani collegavano a un affare portato avanti dal gruppo Ferruzzi unitamente a Cosa nostra nella Penisola ellenica.
L’ex magistrato ha anche detto: «Quando abbiamo conferito con Pansa emerse in modo plastico ed evidente che c’era stata una difficoltà di interlocuzione tra l’ufficio di polizia procedente e l’ufficio del pubblico ministero». Saieva ha anche confermato che dagli atti risultava «che molte richieste della polizia giudiziaria erano state rigettate».
Per il testimone, Pignatone «avrebbe potuto valutare le ragioni di convenienza di una sua astensione e non l’aveva fatto, avrebbe potuto farlo il capo dell’ufficio (Caselli, ndr), ma anche lui aveva ritenuto che questa ragione di astensione non ci fosse».
Pure Pansa è stato sentito a Caltanissetta, ma il suo verbale è infarcito di non ricordo.
Durante il verbale di sommarie informazioni, De Luca ha mostrato a Saieva un documento in quattro punti, datato 20 maggio 1995, che sarebbe stato a lui inviato da Pignatone nell’ambito del procedimento Calcestruzzi e che è stato prodotto dalla difesa dell’ex procuratore di Roma. Una lettera di cui, però, gli inquirenti non hanno trovato traccia negli atti.
Il documento quasi scagiona Pignatone e il collega Gioacchino Natoli dalla primigenia accusa di favoreggiamento alla mafia, contestata per il discusso ordine di «smagnetizzazione delle bobine» e «la distruzione dei brogliacci» delle intercettazioni captate nel procedimento sugli affari del gruppo Ferruzzi con la mafia.
Una storia che per due anni ha tenuto Pignatone e Natoli sul banco degli imputati anche a livello mediatico. Ma adesso l’ex procuratore di Roma estrae dal cilindro una carta che rimette tutto in discussione. Ecco il testo che Pignatone avrebbe firmato nel 1995: «L’ufficio Intercettazioni mi ha comunicato, salvo l’esito di ulteriori verifiche, che i nastri e i brogliacci relativi alle intercettazioni telefoniche disposte nell’ambito del procedimento originariamente iscritto al numero 3589/91 non sono stati ancora distrutti». E non sarebbero stati cancellati «in ossequio a una prassi instaurata a quel tempo dalla dirigenza dell’ufficio e per la quale si ritardava l’esecuzione della distruzione di tale materiale nei procedimenti relativi alla criminalità di tipo mafioso; successivamente è stato deciso di non ordinare più la distruzione di nastri e brogliacci».
Quindi se oggi la Procura di De Luca è riuscita a trovare le bobine il merito sarebbe, in parte, dello stesso Pignatone.
Saieva è spiazzato: «Purtroppo non ricordo nulla». De Luca chiosa: «Il documento non risulta, però, pervenuto a lei». Per il procuratore di Caltanissetta «è un po’ strano» che non sia stato indirizzato, per esempio, anche alla Boccassini o agli altri titolari del fascicolo Calcestruzzi.
Saieva concorda: «Anch’io mi sorprendo perché tutti gli atti sono stati compiuti da me e dalla dottoressa Boccassini». Pure «Ilda la rossa», a verbale, ha espresso dubbi sull’arma segreta di Pignatone: «Non ricordo la nota che mi mostrate. Non so se il collega Saieva ne abbia avuto conoscenza, ma debbo dire che entrambi avevamo l’abitudine di mettere su ogni atto il “pervenuto” nelle rispettive segreterie, con data e orario».
Dunque il documento depositato dalla difesa di Pignatone è un fantasma che aleggia sull’inchiesta.
Ma sulle iniziative originali dell’ex giudice di papa Francesco nei fascicoli che riguardavano i mafiosi che gli avevano venduto casa è stato sentito anche il suo ex collega ed amico Guido Lo Forte.
Per esempio De Luca contesta che in un’istanza di arresto firmata da lui e dall’ex presidente del Tribunale vaticano «alcune parti considerevoli riguardanti indagati completamente non toccati dalla richiesta cautelare come ad esempio Antonino Buscemi non vennero omissate compresi gli intrecci societari». In pratica, uno dei due fratelli Buscemi (il capo mandamento Salvatore ha venduto casa a Pignatone) venne indirettamente informato delle indagini che lo riguardavano.
De Luca ricorda che su uno dei due Buscemi vengono iscritti due procedimenti gemelli che «viaggiano separati da una muraglia cinese», che vengono «riaperti e gestiti separatamente», ma «da qualunque ricerca di segreteria emergeva la doppia iscrizione di Buscemi». Stranezze.
Il procuratore chiede lumi a Lo Forte anche su un altro fascicolo, il 1500/93, che riguardava i soliti noti. De Luca osserva: «Avete riaperto il procedimento di Natoli. Siccome la prima volta avete mandato a Natoli, stavolta vi tenete il procedimento, fate indagini , archiviate. Come mai?». Il teste dice di non ricordare.
Il procuratore di Caltanisetta sottopone al pm una delega inviata allo Sco e Lo Forte si smarca nuovamente, quasi fosse stato un passante: «Non ho seguito personalmente, mi sono limitato a mettere una firma».
Il testimone ribadisce che del fascicolo 1550/93 non ricorda nulla. E allora De Luca gli fa notare che l’attuale pg di Cagliari, Luigi Patronaggio, cui era stato coassegnato il fascicolo, ha dichiarato: «Hanno fatto tutto Lo Forte e Pignatone. Io sono stato solo un utile idiota». Pure in questo caso il teste non sa darsi una spiegazione. Resta la sensazione che a Palermo, trent’anni fa, gli «utili idioti» a disposizione di Pignatone fossero più d’uno.