Le femministe urlano allo scandalo per la presenza di esperti nei consultori, volta a fornire alternative all’interruzione di gravidanza. La tutela della maternità è però prevista proprio dalla legge del ’78 e, vista la denatalità, dovrebbe essere il primo obiettivo dello Stato.
Le femministe urlano allo scandalo per la presenza di esperti nei consultori, volta a fornire alternative all’interruzione di gravidanza. La tutela della maternità è però prevista proprio dalla legge del ’78 e, vista la denatalità, dovrebbe essere il primo obiettivo dello Stato.Come ho scritto l’altro ieri, la legge 194 bisognerebbe leggerla in tv, così ci eviteremmo tante inutili discussioni. Innanzitutto, intorno al cosiddetto diritto all’aborto, che non esiste. Se si scorrono tutte le norme approvate nel 1978, ci si rende conto che la legge non parla mai di diritto all’aborto, come invece insistono a dire molte femministe e tanti compagni. L’articolo 1 del testo dedicato alla «Tutela della maternità e all’interruzione volontaria della gravidanza» spiega che «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Non dice che l’aborto è un diritto e lo Stato riconosce il valore sociale dell’interruzione di gravidanza e si impegna a tutelarne l’attuazione. Anzi, aggiunge che l’asportazione dell’embrione dall’utero materno «non è un mezzo per il controllo delle nascite». Dopo di che, spiega che entro i primi 90 giorni, se c’è un pericolo serio per la salute della donna o ci sono condizioni economiche, sociali o familiari o previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, la donna può rivolgersi a un consultorio pubblico o a un ospedale abilitati per porre fine alla gravidanza. L’aborto dunque non è un diritto, ma un intervento che, essendo fino a quasi cinquant’anni fa considerato un reato punibile con una pena che andava dai due ai cinque anni di carcere, è stato depenalizzato. Ma chi oggi si agita di fronte a una proposta per assistere le donne che chiedono di abortire, se leggesse meglio la legge scoprirebbe, oltre al fatto che l’interruzione di gravidanza non è un diritto, che nei 22 articoli di cui è composta la norma si parla spesso di come evitare la decisione finale, ovvero la rinuncia alla vita che la donna porta in grembo. Infatti, all’articolo 2 è prevista un’assistenza per spiegare le misure a tutela della gestante sui luoghi di lavoro, ma anche quali servizi sociali, sanitari e financo economici la possano aiutare a proseguire la gestazione. Ci sono articoli dedicati alle possibili soluzioni dei problemi che la inducono a chiedere l’aborto, per metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e madre, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto. Tra le norme che dovrebbero essere lette con particolare attenzione (altro che i monologhi di Scurati), c’è quella che riguarda l’obiezione di coscienza. Oltre infatti a stabilire che l’interruzione di gravidanza debba avvenire in ospedali autorizzati e praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico e non da una mammana, all’articolo 9 la 194 spiega che il personale sanitario può rifiutarsi di eseguire l’interruzione di gravidanza «quando sollevi obiezione di coscienza» con una preventiva dichiarazione. Nel qual caso, altri sanitari opereranno al posto suo. E qui ovviamente femministe e abortisti hanno da ridire da decenni. Perché, secondo alcuni di loro, medici e paramedici che si rifiutano di praticare l’aborto per motivi etici, medici o anche sociali, dovrebbero essere costretti a maneggiare la cannula per l’aspirazione del feto pena il licenziamento. Altri, meno talebani, sarebbero per l’assunzione di medici specializzati in interruzione di gravidanza. Altri ancora invece, per l’incentivazione economica dei camici bianchi abortisti. Infine, qualcuno ha addirittura suggerito di consentire l’aborto in regime intramoenia, vale a dire a pagamento, invece di essere praticato con il sistema convenzionato. In sostanza, come si va dal dermatologo in ambulatorio, pagando la visita, si potrebbe - secondo coloro a cui non piace l’obiezione di coscienza - incentivare economicamente il medico affinché «produca» in privato più interruzioni di gravidanza. Quasi sempre si tratta di idee bislacche, bocciate per motivi costituzionali (non puoi obbligare qualcuno a fare ciò che non vuole, infatti l’obiezione di coscienza non esiste solo in Italia, ma anche in altri Paesi come la Gran Bretagna), contabili (facciamo concorsi per medici abortisti e altri per dottori antiabortisti, oppure paghiamo di più chi fa aborti rispetto a coloro che affrontano patologie gravi?) e di buon senso (a volte chi ricorre all’interruzione di gravidanza lo fa per motivi economici e dunque la presentazione di una parcella per la prestazione ricevuta non pare una soluzione). Sta di fatto che rispetto a quarant’anni fa gli aborti sono calati di tre quarti. Nel 1983 erano 234.000, oggi se ne contano circa 60.000. E non perché, come qualcuno vuol far credere, ci siano pochi medici che praticano l’interruzione di gravidanza. È vero, più del 60% dei ginecologi si dichiara obiettore, vuoi per motivi etici, vuoi per ragioni economiche o personali (comunque, anche se non sei cattolico, lavorare alla catena di smontaggio della vita non credo sia molto gratificante), ma penso che la diminuzione sia dovuta al fatto che l’educazione sessuale e l’uso degli anticoncezionali eviti le gravidanze indesiderate e dunque l’uso dell’aborto come mezzo per il controllo delle nascite. E a questo proposito: visti i terrificanti dati demografici, aiutare le donne a portare a termine una gravidanza non dovrebbe essere l’obiettivo dello Stato? Dunque, di che si lamentano femministe e compagni? A nessuna donna è impedito l’aborto, semmai è stato impedito a qualcuno di aiutare chi potrebbe rinunciarvi. Perciò serve leggere e applicare la 194.
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