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2018-05-13
Martedì è l'ultimo giorno per rottamare le cartelle esattoriali
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ANSA
Se si sono ricevute cartelle esattoriali che vanno dal 1° gennaio 2000 al 30 settembre 2017, si ha tempo fino a martedì prossimo, 15 maggio, per mettere in regola la propria posizione con l'Agenzia delle entrate e riscossione. Come? Decidendo di presentare la domanda per aderire alla definizione agevolata. La definizione agevola consente a chi ha ricevuto cartelle e avvisi di pagamento di ottenere una riduzione delle somme da pagare. Si dovrà dunque saldare l'importo residuo del debito inizialmente richiesto ma senza le sanzioni e gli interessi di mora maturati nel tempo. Stesso ragionamento per le multe stradali. Se si presenta la domanda per aderire alla definizione agevolata non si andranno a pagare gli interessi di mora e le maggiorazioni previste dalla legge.
Il fisco punta a ricevere almeno 500.000 richieste di 'definizione agevolata' per un totale di circa 3 milioni di cartelle da rottamare. Gli ultimi dati, riferiti alla fine di aprile, registravano 455.000 domande, con il Lazio in testa con circa 77.000
richieste, seguita dalla Lombardia con 58.000 istanze.
Per aderire alla definizione agevolata si può decidere di presentare la domanda online o compilando il modulo DA 2000/17 entro martedì. Se si sceglie dunque la modalità online si deve accedere al sito dell'Agenzia delle entrate e riscossione, accedere all'area pubblica o riservata e compilare il form «Fai.da.te». Il servizio sarà disponibile, in entrambe le area, fino alle 23.59 del 15 maggio 2018. Scaduto il termine, non si potrà più aderire alla rottamazione delle cartelle ricevute. Nel caso in cui non si voglia procedere con il format online si deve compilare il modulo «DA 2000/17» che si trova sul sito dell'Agenzia delle entrate, scegliendo la sezione «Definizione agevolata - rottamazione». Il modello deve essere inviato tramite posta elettronica certificata (Pec) unitamente a una copia della carta d'identità. In alternativa alla Pec si può presentare il modulo presso gli sportelli della propria Agenzia delle entrate e riscossione territoriale.
Una volta compilata e inviata la domanda per aderire alla definizione agevolata, il percorso non è ancora finito, perché sarà l'Agenzia delle entrate a dover decidere se accettare o meno la richiesta. Le situazioni in questa caso sono due. La prima riguarda tutti i contribuenti che hanno presentato la richiesta di rottamazione per cartelle che vanno dal 1° gennaio al 30 settembre 2017. In questo caso il fisco invierà una comunicazione entro il 30 giugno 2018 dove comunicherà al contribuente se ha accettato o meno la sua richiesta. In caso positivo la comunicazione conterrà l'importo delle somme dovute, le scadenze e i bollettini da usare per il pagamento. In caso di risposta negativa l'Agenzia delle entrate specificherà il motivo per cui la richiesta di rottamazione non è stata accolta. Se la richiesta è stata accolta si potrà dunque decidere di pagare la somma richiesta in un'unica soluzione o in cinque rate di pari importo. La prima rata dovrà essere versata entro il 31 luglio 2018 e l'ultima entro il 28 febbraio 2019.
Il secondo caso riguarda i contribuenti che hanno presentato la richiesta di rottamazione per cartelle che vanno dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2016. L'Agenzia delle entrate invierà una comunicazione entro il 30 settembre 2018 dove comunicherà se ha accettato o meno la richiesta. In caso di risposta positiva si può decidere se pagare il debito in una sola rata o in tre. In questa caso l'80% delle somme dovute deve essere versato nelle prime due rate. La prima entro il 31 ottobre e la seconda entro il 30 novembre 2018. Il restante 20% dovrà essere saldato in un'unica rata entro il 28 febbraio 2019.
Caso particolare si ha se il contribuente non è in regola con il pagamento delle rate scadute al 31 dicembre 2016. In questo caso l'Agenzia delle entrate e riscossione invierà due comunicazioni. La prima arriverà entro il 30 giugno 2018 e conterrà l'ammontare delle rate scadute. Se si vuole beneficiare della rottamazione si deve dunque effettuare il pagamento dell'importo residuo delle rate, in un'unica soluzione entro il 31 luglio 2018. E compilare l'apposito modulo presente sul sito dell'Agenzia delle entrate e riscossione. Se si salda il conto passato il fisco invierà una seconda comunicazione entro il 30 settembre 2018 dove comunicherà se ha accettato la richiesta di rottamazione oppure no. In caso positivo il pagamento dovrà essere saldato in un'unica soluzione o in massimo tre rate. L'80% delle somme dovrà essere versato in due rate. La prima entro il 31 ottobre e la seconda entro il 30 novembre 2018. Il restante 20% dovrà essere saldato in un'unica rata entro il 28 febbraio 2019.
Giorgia Pacione Di Bello
La rottamazione bis funziona a metà. E ai Comuni porterà solo pochi spiccoli
Da sempre terra di localismi e campanili, l'Italia si mostra frammentata anche per quanto riguarda un servizio, la rottamazione delle cartelle esattoriali, che è utile a tutti: da un lato infatti consente ai cittadini di regolare le proprie pendenze con il fisco a condizioni agevolate, e dall'altro porta giovamento alle casse pubbliche. Tolte le imposte e le tasse dovute allo Stato per le quali l'Agenzia delle entrate procederà alla rottamazione bis, per quanto riguarda i tributi locali, quelli gestiti dai Comuni – Tari, Tasi, Tosap e multe stradali - la decisione è affidata alle giunte e non c'è un indirizzo univoco. Il termine per decidere se aderire o meno alla rottamazione bis delle cartelle esattoriali scadeva sabato 3 febbraio, con proroga a lunedì 5, e i Comuni italiani hanno continuato a procedere in ordine sparso.
Per molte realtà, tra le quali grandi città capoluogo come Roma, Napoli, Genova, Palermo, Venezia e Perugia, la decisione è già stata presa a monte. Queste amministrazioni comunali hanno infatti scelto, a suo tempo, di aderire al servizio di riscossione effettuato da Ader, l'Agenzia delle Entrate-Riscossione che ha preso il posto della vecchia Equitalia. Le cartelle esattoriali riguardanti i tributi locali di questi Comuni sono quindi ricomprese di default nella rottamazione bis attuata dalla stessa Ader: di conseguenza i cittadini residenti in questi Comuni hanno la possibilità di usufruire del pagamento agevolato.
Più complessa, invece, la situazione degli altri Municipiche hanno deciso di affidare la riscossione delle cartelle esattoriali a enti diversi dall'Ader, oppure di effettuarla in maniera autonoma. Sono queste le amministrazioni che dovevano deliberare se aderire o meno alla rottamazione bis. E qui si vedono le differenze territoriali con un'Italia divisa in due: un buon numero di Comuni del Nord ha infatti deciso di non aderire alla rottamazione, mentre nelle Regioni meridionali diverse amministrazioni locali hanno optato per questa possibilità. Con aspettative molto diverse: ad esempio a Taranto si stima che l'evasione per le sole contravvenzioni stradali sia pari alla rispettabile cifra di 23 milioni di euro, a fronte della quale il Comune prevede di recuperare appena 50.000 euro. A Benevento il carico è pari a quasi 10 milioni, ma il gettito stimato è di 400.000 euro: il Comune ha effettuato questa previsione sulla base dei risultati della prima rottamazione, alla quale ha aderito il 10% dei contribuenti, nei confronti dei quali pendeva il 4% delle ingiunzioni. A Reggio Calabria il Comune ha abbandonato Equitalia nel 2016 e ha deciso di riscuotere le cifre in proprio, attraverso ingiunzioni fiscali: qui le attese sono di recuperare 1 milione contro un totale di 6 non versati. Altre città capoluogo di provincia, come Foggia e Matera, hanno invece cambiato idea dopo l'insuccesso della prima rottamazione avviata alla fine del 2016. Nella città lucana, ad esempio, su circa 500 notifiche sono arrivate meno di 20 domande, per cui il Comune ha deciso di non aderire. Bari rottamerà soltanto le multe e non la Tari.
Al Nord (lo si evince da uno studio pubblicato dal Sole 24 Ore), in un panorama in cui prevale il no alla “definizione agevolata" (il nome tecnico della rottamazione), spiccano le eccezioni di Cremona e Biella. Nella città del Torrazzo i tributi e le multe non pagate ammontano a un totale di 11,2 milioni, ma il Comune si attende di recuperare appena 250.000 euro. Biella, che deve invece incassare ancora 10 milioni, ha deciso di aderire alla rottamazione e nel contempo puntare forte sugli accertamenti, che sono aumentati del 2.700% in tre anni, portando alle casse comunali 5 milioni di euro.
Per molti Comuni, in ogni caso, rifiutare l'adesione alla rottamazione è una questione di principio. Tra questi troviamo Torino, Verona, Bologna e molti dei capoluoghi dell'Emilia Romagna: alla base della scelta, come ha spiegato l'amministrazione comunale di Reggio Emilia, c'è la volontà di non attuare comportamenti discriminanti nei confronti dei cittadini che, invece, le multe le hanno sempre pagate per tempo. È quindi difficile tracciare un quadro univoco della situazione: per quanto riguarda i tributi locali, le situazioni sono troppo diverse e le variabili troppo numerose per poter valutare l'efficacia di un provvedimento come la rottamazione bis, dalla quale il governo punta a recuperare in tutto – non solo quindi dalle cartelle di competenza dei Comuni, ma per tutte le ingiunzioni - oltre 2 miliardi di euro (1,655 miliardi quest'anno e quasi 414 milioni nel 2019). Grazie al primo provvedimento di rottamazione delle cartelle esattoriali, avviato nel 2016, sono confluite nelle casse dello Stato 6,5 miliardi di euro, con il coinvolgimento di 1 milione e mezzo di contribuenti.
A fare la parte del leone è l'Agenzia delle Entrate, mentre 1,5 miliardi sono stati riscossi per conto dell'Inail. Per conto dei Comuni, la scorsa volta, sono stati riscossi 500 milioni di euro: l'incognita è ora scoprire a quanto ammonteranno le cifre recuperate con la rottamazione bis.
Chiara Merico
(articolo del 10 febbraio 2018)
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In caso di procedimenti che vanno dal 1° gennaio 2000 al 30 settembre 2017, si ha tempo fino al 15 maggio per mettere in regola la propria posizione con l'Agenzia delle entrate e riscossione. Basta presentare domanda per aderire alla definizione agevolata: si dovrà saldare l'importo residuo ma senza sanzioni né interessi di mora. Grazie al provvedimento avviato nel 2016 sono confluiti nelle casse dello Stato 6,5 miliardi di euro, con il coinvolgimento di 1 milione e mezzo di contribuenti. Quest'anno il fisco punta ad almeno mezzo milione di richieste. Lazio e Lombardia le regioni più «attive». Se si sono ricevute cartelle esattoriali che vanno dal 1° gennaio 2000 al 30 settembre 2017, si ha tempo fino a martedì prossimo, 15 maggio, per mettere in regola la propria posizione con l'Agenzia delle entrate e riscossione. Come? Decidendo di presentare la domanda per aderire alla definizione agevolata. La definizione agevola consente a chi ha ricevuto cartelle e avvisi di pagamento di ottenere una riduzione delle somme da pagare. Si dovrà dunque saldare l'importo residuo del debito inizialmente richiesto ma senza le sanzioni e gli interessi di mora maturati nel tempo. Stesso ragionamento per le multe stradali. Se si presenta la domanda per aderire alla definizione agevolata non si andranno a pagare gli interessi di mora e le maggiorazioni previste dalla legge. Il fisco punta a ricevere almeno 500.000 richieste di 'definizione agevolata' per un totale di circa 3 milioni di cartelle da rottamare. Gli ultimi dati, riferiti alla fine di aprile, registravano 455.000 domande, con il Lazio in testa con circa 77.000richieste, seguita dalla Lombardia con 58.000 istanze. Per aderire alla definizione agevolata si può decidere di presentare la domanda online o compilando il modulo DA 2000/17 entro martedì. Se si sceglie dunque la modalità online si deve accedere al sito dell'Agenzia delle entrate e riscossione, accedere all'area pubblica o riservata e compilare il form «Fai.da.te». Il servizio sarà disponibile, in entrambe le area, fino alle 23.59 del 15 maggio 2018. Scaduto il termine, non si potrà più aderire alla rottamazione delle cartelle ricevute. Nel caso in cui non si voglia procedere con il format online si deve compilare il modulo «DA 2000/17» che si trova sul sito dell'Agenzia delle entrate, scegliendo la sezione «Definizione agevolata - rottamazione». Il modello deve essere inviato tramite posta elettronica certificata (Pec) unitamente a una copia della carta d'identità. In alternativa alla Pec si può presentare il modulo presso gli sportelli della propria Agenzia delle entrate e riscossione territoriale. Una volta compilata e inviata la domanda per aderire alla definizione agevolata, il percorso non è ancora finito, perché sarà l'Agenzia delle entrate a dover decidere se accettare o meno la richiesta. Le situazioni in questa caso sono due. La prima riguarda tutti i contribuenti che hanno presentato la richiesta di rottamazione per cartelle che vanno dal 1° gennaio al 30 settembre 2017. In questo caso il fisco invierà una comunicazione entro il 30 giugno 2018 dove comunicherà al contribuente se ha accettato o meno la sua richiesta. In caso positivo la comunicazione conterrà l'importo delle somme dovute, le scadenze e i bollettini da usare per il pagamento. In caso di risposta negativa l'Agenzia delle entrate specificherà il motivo per cui la richiesta di rottamazione non è stata accolta. Se la richiesta è stata accolta si potrà dunque decidere di pagare la somma richiesta in un'unica soluzione o in cinque rate di pari importo. La prima rata dovrà essere versata entro il 31 luglio 2018 e l'ultima entro il 28 febbraio 2019. Il secondo caso riguarda i contribuenti che hanno presentato la richiesta di rottamazione per cartelle che vanno dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2016. L'Agenzia delle entrate invierà una comunicazione entro il 30 settembre 2018 dove comunicherà se ha accettato o meno la richiesta. In caso di risposta positiva si può decidere se pagare il debito in una sola rata o in tre. In questa caso l'80% delle somme dovute deve essere versato nelle prime due rate. La prima entro il 31 ottobre e la seconda entro il 30 novembre 2018. Il restante 20% dovrà essere saldato in un'unica rata entro il 28 febbraio 2019. Caso particolare si ha se il contribuente non è in regola con il pagamento delle rate scadute al 31 dicembre 2016. In questo caso l'Agenzia delle entrate e riscossione invierà due comunicazioni. La prima arriverà entro il 30 giugno 2018 e conterrà l'ammontare delle rate scadute. Se si vuole beneficiare della rottamazione si deve dunque effettuare il pagamento dell'importo residuo delle rate, in un'unica soluzione entro il 31 luglio 2018. E compilare l'apposito modulo presente sul sito dell'Agenzia delle entrate e riscossione. Se si salda il conto passato il fisco invierà una seconda comunicazione entro il 30 settembre 2018 dove comunicherà se ha accettato la richiesta di rottamazione oppure no. In caso positivo il pagamento dovrà essere saldato in un'unica soluzione o in massimo tre rate. L'80% delle somme dovrà essere versato in due rate. La prima entro il 31 ottobre e la seconda entro il 30 novembre 2018. Il restante 20% dovrà essere saldato in un'unica rata entro il 28 febbraio 2019. Giorgia Pacione Di Bello <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/15-maggio-cartelle-esattoriali-2568182315.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-rottamazione-bis-funziona-a-meta-e-ai-comuni-portera-solo-pochi-spiccoli" data-post-id="2568182315" data-published-at="1765969299" data-use-pagination="False"> La rottamazione bis funziona a metà. E ai Comuni porterà solo pochi spiccoli Da sempre terra di localismi e campanili, l'Italia si mostra frammentata anche per quanto riguarda un servizio, la rottamazione delle cartelle esattoriali, che è utile a tutti: da un lato infatti consente ai cittadini di regolare le proprie pendenze con il fisco a condizioni agevolate, e dall'altro porta giovamento alle casse pubbliche. Tolte le imposte e le tasse dovute allo Stato per le quali l'Agenzia delle entrate procederà alla rottamazione bis, per quanto riguarda i tributi locali, quelli gestiti dai Comuni – Tari, Tasi, Tosap e multe stradali - la decisione è affidata alle giunte e non c'è un indirizzo univoco. Il termine per decidere se aderire o meno alla rottamazione bis delle cartelle esattoriali scadeva sabato 3 febbraio, con proroga a lunedì 5, e i Comuni italiani hanno continuato a procedere in ordine sparso. Per molte realtà, tra le quali grandi città capoluogo come Roma, Napoli, Genova, Palermo, Venezia e Perugia, la decisione è già stata presa a monte. Queste amministrazioni comunali hanno infatti scelto, a suo tempo, di aderire al servizio di riscossione effettuato da Ader, l'Agenzia delle Entrate-Riscossione che ha preso il posto della vecchia Equitalia. Le cartelle esattoriali riguardanti i tributi locali di questi Comuni sono quindi ricomprese di default nella rottamazione bis attuata dalla stessa Ader: di conseguenza i cittadini residenti in questi Comuni hanno la possibilità di usufruire del pagamento agevolato. Più complessa, invece, la situazione degli altri Municipiche hanno deciso di affidare la riscossione delle cartelle esattoriali a enti diversi dall'Ader, oppure di effettuarla in maniera autonoma. Sono queste le amministrazioni che dovevano deliberare se aderire o meno alla rottamazione bis. E qui si vedono le differenze territoriali con un'Italia divisa in due: un buon numero di Comuni del Nord ha infatti deciso di non aderire alla rottamazione, mentre nelle Regioni meridionali diverse amministrazioni locali hanno optato per questa possibilità. Con aspettative molto diverse: ad esempio a Taranto si stima che l'evasione per le sole contravvenzioni stradali sia pari alla rispettabile cifra di 23 milioni di euro, a fronte della quale il Comune prevede di recuperare appena 50.000 euro. A Benevento il carico è pari a quasi 10 milioni, ma il gettito stimato è di 400.000 euro: il Comune ha effettuato questa previsione sulla base dei risultati della prima rottamazione, alla quale ha aderito il 10% dei contribuenti, nei confronti dei quali pendeva il 4% delle ingiunzioni. A Reggio Calabria il Comune ha abbandonato Equitalia nel 2016 e ha deciso di riscuotere le cifre in proprio, attraverso ingiunzioni fiscali: qui le attese sono di recuperare 1 milione contro un totale di 6 non versati. Altre città capoluogo di provincia, come Foggia e Matera, hanno invece cambiato idea dopo l'insuccesso della prima rottamazione avviata alla fine del 2016. Nella città lucana, ad esempio, su circa 500 notifiche sono arrivate meno di 20 domande, per cui il Comune ha deciso di non aderire. Bari rottamerà soltanto le multe e non la Tari. Al Nord (lo si evince da uno studio pubblicato dal Sole 24 Ore), in un panorama in cui prevale il no alla “definizione agevolata" (il nome tecnico della rottamazione), spiccano le eccezioni di Cremona e Biella. Nella città del Torrazzo i tributi e le multe non pagate ammontano a un totale di 11,2 milioni, ma il Comune si attende di recuperare appena 250.000 euro. Biella, che deve invece incassare ancora 10 milioni, ha deciso di aderire alla rottamazione e nel contempo puntare forte sugli accertamenti, che sono aumentati del 2.700% in tre anni, portando alle casse comunali 5 milioni di euro. Per molti Comuni, in ogni caso, rifiutare l'adesione alla rottamazione è una questione di principio. Tra questi troviamo Torino, Verona, Bologna e molti dei capoluoghi dell'Emilia Romagna: alla base della scelta, come ha spiegato l'amministrazione comunale di Reggio Emilia, c'è la volontà di non attuare comportamenti discriminanti nei confronti dei cittadini che, invece, le multe le hanno sempre pagate per tempo. È quindi difficile tracciare un quadro univoco della situazione: per quanto riguarda i tributi locali, le situazioni sono troppo diverse e le variabili troppo numerose per poter valutare l'efficacia di un provvedimento come la rottamazione bis, dalla quale il governo punta a recuperare in tutto – non solo quindi dalle cartelle di competenza dei Comuni, ma per tutte le ingiunzioni - oltre 2 miliardi di euro (1,655 miliardi quest'anno e quasi 414 milioni nel 2019). Grazie al primo provvedimento di rottamazione delle cartelle esattoriali, avviato nel 2016, sono confluite nelle casse dello Stato 6,5 miliardi di euro, con il coinvolgimento di 1 milione e mezzo di contribuenti. A fare la parte del leone è l'Agenzia delle Entrate, mentre 1,5 miliardi sono stati riscossi per conto dell'Inail. Per conto dei Comuni, la scorsa volta, sono stati riscossi 500 milioni di euro: l'incognita è ora scoprire a quanto ammonteranno le cifre recuperate con la rottamazione bis. Chiara Merico (articolo del 10 febbraio 2018)
Lucio Caracciolo (Ansa)
Quest’ultimo, noto per le apparizioni televisive e per la militanza politica nell’area di Azione e +Europa, ha salutato con un post sui social: «Informo i pochi cui può interessare che sono uscito dal Consiglio Scientifico di Limes, per incompatibilità con la linea politica di mancato sostegno ai principi del Diritto Internazionale, stracciati dall’aggressione russa all’Ucraina», ha scritto.
Federico Argentieri ha invece rilasciato una corposa intervista all’AdnKronos. «Siamo in una fase cruciale, probabilmente la più difficile per l’Ucraina dall’inizio della guerra, non tanto sul piano militare quanto su quello diplomatico e internazionale. Con gli Stati Uniti che si svincolano dalla Nato, che attaccano l’Unione europea apertamente, e con un allineamento sempre più evidente tra America e Russia, questo è il momento in cui bisogna fare scelte chiare, senza ambiguità», ha detto. «In questo contesto ho ritenuto che non fosse più ammissibile che il mio nome comparisse nel tamburino di Limes. Non si tratta di opportunismo né di saltare sul carro del vincitore, anche perché l’Ucraina oggi non è certo il vincitore. È una scelta di coerenza. Io ho scritto poco per Limes, anche perché il suo approccio geopolitico - centrato quasi esclusivamente sui rapporti di forza - non mi è mai stato del tutto congeniale. Ma il punto non è questo. Il vero problema è il pregiudizio strutturale che la rivista ha nei confronti dell’Ucraina da oltre vent’anni».
Curioso: il professore non è d’accordo con la linea editoriale da vent’anni ma è rimasto lo stesso nella rivista. Come mai? «Per una combinazione di fattori. Perché si potevano trovare anche analisi condivisibili, perché nessuno ha mai messo in discussione la mia presenza. I legami personali, come spesso accade, sono duri a morire. E poi c’era sempre la speranza, forse ingenua, di un cambio di rotta. Cambio che non c’è mai stato, anzi: dal 2014 in poi le cose sono peggiorate».
Insomma, alla fine a quanto pare gli conveniva restare. Anche se Caracciolo gli ha fatto uno sgarbo personale difficile da dimenticare. «La svolta è chiarissima: 2004, la rivoluzione arancione», racconta Argentieri. «Da lì in poi Limes assume una postura costantemente diffidente, se non apertamente ostile, verso l’Ucraina. È lo stesso momento in cui esce in Italia Raccolto di dolore di Robert Conquest sulla carestia staliniana, libro che ho curato e prefato dopo averlo letteralmente fatto uscire da un cassetto dove era stato relegato per anni. E cosa fa Limes? Pubblica a puntate - poi per fortuna solo una - L’autobus di Stalin di Antonio Pennacchi: un’orrenda apologia cinica del dittatore, mascherata da allegoria grottesca. Un bravo scrittore che conosce bene le dinamiche dell’Agro pontino ma ben poco quelle sovietiche, che si inerpica in un esercizio davvero incomprensibile». Viene da dire che Pennacchi era un autore di una certa fama e di un certo rilievo, e di sicuro non era un difensore delle dittature, ma Argentieri se l’è legata al dito e vent’anni dopo ha deciso di arrivare al redde rationem. Se ne va, e lancia palate di fango, spiegando che la linea di Limes «è una nube tossica mediatica che avvelena il pubblico e finisce per influenzare anche la politica. Limes e Caracciolo hanno una responsabilità maggiore di tanti ciarlatani televisivi proprio perché il loro livello culturale è elevato. Quando una fonte autorevole contribuisce alla disinformazione, il danno è più grave. Negli altri paesi europei, Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, non c’è la carrellata di figure improponibili che oggi trovano grande spazio in certi programmi. Neanche Fox News è così schierata, solo in Russia si vedono le trasmissioni che ci sono in Italia. I miei colleghi stranieri sono stupefatti davanti a questa, chiamiamola, unicità».
Capito? Altrove sono più bravi di noi. Sono tutti militarizzati, ripetono le cose giuste, tengono la linea corretta. Curioso che Argentieri non abbia detto mezza parola sulla marea di stupidaggini, bufale e previsioni sbagliate che altri esperti (evidentemente a lui più congegnali di quelli di Limes) hanno scodellato in tutti questi anni. I nostri finissimi analisti geopolitici non ne hanno azzeccata una, e infatti la Russia è ancora lì che combatte e la guerra non è finita.
Ovvio: tutti gli studiosi e i tecnici di cui sopra hanno il sacrosanto diritto di andarsene dalla rivista che non gradiscono più. Le loro motivazioni tuttavia fanno riflettere. Se la prendono con una delle poche voci che hanno dimostrato di avere un legame con la realtà e non hanno ceduto alla propaganda occidentale (perché esiste pure quella). Limes, in questi anni, ha pubblicato analisi dettagliate, ha ospitato punti di vista diversi e non si è limitata a ripetere a pappagallo le tesi dei commentatori catodici più in voga. Con tutta evidenza, questo atteggiamento ha infastidito Camporini, Argentieri e gli altri. È, appunto, la sindrome di Zerocalcare: accetto le opinioni di tutti bastano che siano concordi con la mia.
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«Il governo belga si sta opponendo all’utilizzo dei fondi russi per timore di dover rimborsare l’intero importo qualora la Russia tentasse di recuperare il denaro», ha riferito Politico, per poi aggiungere: «Ma, a complicare ulteriormente la situazione, altri quattro Paesi - Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca - hanno appoggiato la richiesta del Belgio di valutare finanziamenti alternativi per l’Ucraina, come il debito congiunto». A favore dell’uso dei beni russi congelati si è invece detta la Germania, che si è al contempo espressa contro il ricorso alla condivisione del debito. «Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di agire dell’Unione europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo», ha dichiarato lunedì Friedrich Merz, riferendosi all’uso degli asset russi. Più sfumata appare invece la posizione della Francia, che non sembrerebbe del tutto ostile all’idea di ricorrere agli Eurobond. Nel frattempo, ieri Reuters ha riferito che i parlamentari italiani di maggioranza hanno stilato un documento, in cui si esorta il governo «a chiedere alla Commissione europea di condurre un esame approfondito degli aspetti legali e finanziari di tutte le opzioni di finanziamento sul tavolo». Si tratta di una risoluzione che dovrebbe essere votata nella giornata di oggi.
Come che sia, un diplomatico dell’Ue ha fatto sapere a Politico che sulla questione degli asset russi «non ci sarà alcun accordo fino al Consiglio europeo», che prenderà il via domani. «La Commissione europea ha presentato, tramite testo legislativo, due opzioni. Una era l’opzione per le riparazioni, che può essere attuata tramite la proposta legislativa presentata dalla Commissione a maggioranza qualificata. L’altra è l’opzione di un prestito, utilizzando come garanzia il margine di manovra del bilancio europeo. Questa opzione richiede l’unanimità», ha dichiarato un alto funzionario europeo. «È stato molto chiaro fin dal primo dibattito svoltosi tra gli ambasciatori che non c’era l’unanimità per quella seconda opzione, che è stata quindi messa da parte per concentrarsi sul prestito di riparazione. Non è un segreto che il prestito di riparazione sia la soluzione preferita da una considerevole maggioranza degli Stati membri», ha continuato. «Spetta ai leader decidere, ma credo che tutti i leader siano ben consapevoli della posta in gioco sproporzionata del Belgio in una soluzione basata sul prestito di riparazione. E questo viene preso in considerazione da tutti i leader e certamente il presidente del Consiglio europeo ne è ben consapevole», ha affermato un’altra fonte dell’Ue, che ha proseguito: «Tra l’altro, il negoziato sul prestito di riparazione si è svolto principalmente e soprattutto in base alle preoccupazioni del Belgio. E penso che questo sia anche un segno che tutti intorno al tavolo - gli Stati membri e certamente i leader - riconoscono la posta in gioco per il Belgio. Quindi il negoziato è in gran parte incentrato sulla condivisione di qualsiasi rischio o costo derivante da questa soluzione con il Belgio». Nell’Ue, se non panico, c’è «un senso di urgenza», come hanno detto ieri alcune fonti di Bruxelles. «Una decisione va presa».
Ricordiamo che i beni russi congelati sono detenuti da Euroclear Bank, che ha sede in Belgio. E proprio contro questo istituto ha fatto recentemente causa, davanti al Tribunale commerciale di Mosca, la banca centrale russa, chiedendo 230 miliardi di dollari di danni. «Se la banca centrale vincesse, potrebbe chiedere l’esecuzione forzata degli asset di Euroclear in altre giurisdizioni, in particolare quelle considerate ’amichevoli’ dalla Russia», ha sottolineato Reuters l’altro ieri. «Alcuni gestori di fondi avvertono che un’eventuale decisione di utilizzare i beni congelati aumenterebbe i rischi politici legati al possesso di asset in euro e metterebbe persino in dubbio il loro status di rifugio globale», aveva inoltre riportato, dieci giorni fa, il Financial Times. D’altronde, secondo il sito australiano The Conversation, «se gli operatori di mercato temessero sequestri di beni per motivi politici, potrebbero trasferire le proprie attività in giurisdizioni ritenute più sicure».
Insomma, la questione è insidiosa sul fronte tecnico. E poi emerge il nodo politico. Per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a un’Unione europea spaccata. Il dossier degli asset è scivoloso. Ed è tutto da dimostrare che il Consiglio europeo riuscirà a trovare una quadra su di esso.
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Da sinistra: Friedrich Merz, Keir Starmer, Volodymyr Zelensky ed Emmanuel Macron (Ansa)
Mentre il summit europeo di Berlino sulla pace in Ucraina è stato celebrato come un successo da chi ne ha preso parte, le proposte contenute nella dichiarazione congiunta dei leader dell’Europa sembrano fatte per essere rifiutate. E Mosca ha già iniziato a manifestare i primi segnali di chiusura.
A meno di 24 ore di distanza dal vertice, il Cremlino è convinto che la partecipazione degli europei alle trattative «non promette bene». E anche di fronte alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che intravede la conclusione del conflitto, Mosca resta cauta. Il tycoon, dopo aver parlato lunedì sera con i primi ministri e i capi di Stato europei, aveva subito dichiarato: «Siamo più vicini che mai alla fine della guerra», aggiungendo anche di essere stato in contatto «di recente con Vladimir Putin». A smentire però la telefonata è stato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: i due leader non si sono più sentiti dopo il 16 ottobre. Il portavoce ha anche spiegato che Mosca «non ha ricevuto» alcun segnale dopo i round di negoziati a Berlino, e anche per questo dovrà valutare «quello che sarà il risultato dei negoziati che gli americani conducono con gli ucraini, con la partecipazione degli europei». Che Mosca non abbia ancora compreso l’esito dei summit è evidente anche dalle parole del viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov: «Non abbiamo idea di cosa succeda lì». Stando a quanto rivelato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di una questione di giorni: i piani di pace, che dovrebbero essere finalizzati a breve, saranno poi presentati alla Russia dagli inviati americani.
Ma il niet russo è già arrivato in merito all’impegno europeo per «una forza multinazionale Ucraina a guida europea, composta dai contributi delle nazioni disponibili nell’ambito della coalizione dei Volenterosi e sostenuta dagli Stati Uniti». La posizione di Mosca era già nota, ma ieri il viceministro degli Esteri russo in un’intervista ad Abc News, ha ribadito: «Non sottoscriveremo, accetteremo o saremo nemmeno soddisfatti di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino». Lo stesso rifiuto si applica anche qualora la forza multinazionale fosse parte di una garanzia di sicurezza o della Coalizione dei volenterosi. A intervenire in merito è stato anche Peskov che, affermando che Mosca «non ha visto alcun testo» sulla proposta europea della forza multinazionale, ha precisato: «La nostra posizione è ben nota, coerente e trasparente ed è chiara agli americani».
A ciò si aggiunge il grattacapo dei territori, con nessuna delle due parti che è disposta a cedere. Zelensky, a margine del vertice, ha ripetuto che «l’Ucraina non riconoscerà il Donbass come territorio russo, né de jure né de facto». L’impegno di Kiev è quello di continuare a «discuterne nonostante tutto». Il presidente ucraino pare quindi non prendere ancora sul serio le parole di Trump, che ha confermato che «il territorio del Donbass è già perso» per l’Ucraina. Dall’altra parte, anche la posizione russa resta immutata: Ryabkov ha detto che Mosca non scenderà «a compromessi» su Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Ed è anche in quest’ottica, con i soldati russi che continuano ad avanzare, che il Cremlino ha rifiutato la tregua natalizia avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Peskov ha infatti sottolineato: «Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra».
Un altro tassello complicato riguarda Kiev e l’Ue, anche se non dalla prospettiva russa. Nell’ultimo punto della dichiarazione congiunta dei leader europei si afferma: «Il fermo sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea». Ma da parte italiana emergono alcune perplessità. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha osservato che ritiene «difficile» l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Ue «non per motivi politici ma agricoli, conoscendo gli agricoltori polacchi, francesi, italiani e tedeschi». A ribadire la sua contrarietà è stato poi il premier ungherese, Viktor Orbàn: «Il popolo ungherese ha detto che non vuole stare in un’Unione con l’Ucraina». Tornando alla linea dell’Italia, riguardo alle garanzie di sicurezza simili all’articolo 5 della Nato di cui «gli americani ne saranno parte», il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ricordato che si tratta della «proposta italiana» che è stata «accolta» perché «di buon senso». Ma ad essere accolte, sul fronte opposto, sono state anche le dichiarazioni inerenti al riarmo del vicepremier, Matteo Salvini: «Se Hitler e Napoleone non sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca con le loro campagne in Russia, è improbabile che Kallas, Macron, Starmer e Merz abbiano successo». Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova «il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile».
Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022
Il nostro articolo del 27 febbraio 2022 concludeva con queste parole: «Forse si potrebbe auspicare che la Nato dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad «invitare» l’Ucraina a farvi parte; e che le regioni ucraine oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum». Dopo quasi quattro anni di guerra, leggiamo che «Volodymyr Zelensky apre: no a Kiev nella Nato».
Inoltre, a chi gli chiedeva se egli sarebbe stato disponibile a concedere territori come parte di un accordo di pace, Zelensky rispondeva che «la cosa non può essere decisa unilateralmente dal governo o dagli alleati, ma deve avere un mandato popolare, cioè il popolo ucraino deve essere coinvolto tramite un qualche processo democratico, nel formato di elezioni o di referendum». Che il nostro auspicio di quattro anni fa coincida con le conclusioni cui sarebbe alla fine pervenuto Zelensky dopo quattro anni, è, a mio parere, l’ulteriore prova della inadeguatezza di un uomo chiamato a gestire una situazione più grande, molto più grande, di lui. E non si tratta solo di inadeguatezza, ma anche di irresponsabilità. Perché le cose - se vogliamo capirle - dobbiamo dirle tutte. Dobbiamo quindi dire che già il 15 marzo 2022 Zelensky dichiarava: «Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, e dobbiamo riconoscere che non ci sono porte aperte». Insomma, il dover abbandonare ogni velleità di aderire alla Nato, più che una apertura di questi giorni, era una consapevolezza acquisita già quattro anni fa. Il che impone la cogente domanda: perché ha continuato la guerra e non si arrese quel 15 marzo 2022? Prima o poi, se non da un tribunale, sicuramente dalla Storia, questa domanda gli verrà posta.
Un’altra domanda che gli si dovrà porre è da dove gli è mai venuta l’idea di una Nato dalle «porte aperte». L’art. 10 del Patto Atlantico prevede che i membri «possono, con accordo unanime, invitare qualsiasi altro Stato europeo ad aderire al Trattato»; cosicché per far parte della Nato bisogna 1) essere uno Stato europeo, 2) essere invitati da chi membro lo è già, e 3) essere invitati all’unanimità. È vero che, subito dopo la fine della Guerra fredda, sebbene ci fosse stata da parte dei vertici della Nato una promessa verbale di non espansione a est della Germania, quegli stessi vertici si preoccuparono di far sapere al mondo intero che non ci sarebbero state preclusioni di principio per l’allargamento della Nato. Tuttavia, l’articolo 10 del Trattato è rimasto immutato. Insomma, Zelensky mai poteva allora, né può ora accampare diritti in ordine alla adesione dell’Ucraina alla Nato. E fa sorridere che codesta volontà di adesione sia stata scritta, addirittura, nella Costituzione ucraina, quando la cosa non dipende dalla volontà dell’Ucraina. E fa sorridere ancora di più, perché questa volontà fu addirittura un emendamento del 2019 alla Costituzione del 1996 che invece garantiva l’Ucraina quale Stato militarmente neutrale.
Anche l’altra recente affermazione di Zelensky sul possibile referendum in ordine alla «cessione» dei territori ripropone la sprovvedutezza dell’uomo. Quattro anni fa l’idea poteva sorgere spontanea. E, anzi, doveva sorgere già nel 2014. Allora, in seguito allo spodestamento del presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto anche col forte sostegno dei voti dei cittadini di Crimea e del Donbass, questi decidevano di separarsi dal governo centrale con un referendum. Il referendum era, ovviamente, illegittimo; ma poneva un problema politico che in un sistema sedicente democratico avrebbe dovuto risolversi in qualche modo. Ma, anziché invocare il principio, sancito dalla Carta Onu, dell’autodeterminazione dei popoli e far ripetere i referendum sotto il controllo internazionale, la comunità internazionale girava le spalle al Donbass che si dichiarava indipendente; e sanzionava la Russia cui la Crimea si era confederata.
L’impressione è che, se fosse assennato, a Zelensky converrebbe mollare la Ue e affidarsi esclusivamente a Donald Trump. Se da un lato questi vorrebbe far finire quanto prima la guerra, e pertanto appare disponibile ad accontentare le pretese di Putin, dall’altro ha interesse a minimizzarne i vantaggi, cosa che indirettamente significa anche minimizzare gli svantaggi per l’Ucraina. Le cui disgrazie sono anche in parte dovute a quel «f**k the Eu» pronunciato - da Victoria Nuland, nel 2014 responsabile americana agli affari euroasiatici - a detrimento dell’Ucraina. Forse è venuto il momento per Zelensky di pronunciare la stessa invettiva a vantaggio del proprio Paese.
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Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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