2021-02-26
Zingaretti sotto assedio nel Pd: la resa è a un passo
Nicola Zingaretti (S.Granati/Corbis/Getty Images)
Dal caso D'Urso alle quote rosa, il segretario attaccato dai suoi. Se il logoramento continua arriverà dimissionario all'Assemblea.«Almeno stavolta ha detto Pd...». Dalle parti del Nazareno si prevedono mesi agitati, ma il proverbiale sarcasmo dei politici non viene meno neanche quando, alle viste, c'è una stagione di conflitti. E così, scorrendo le agenzie che rilanciano la parte della relazione del segretario Nicola Zingaretti alla direzione del partito in cui si annuncia una «rigenerazione del Pd», un peones capitolino che incrocio dalle parti di Montecitorio ironizza sulla gaffe - divenuta subito virale - in cui è incappato il governatore del Lazio giorni fa, affermando la necessità di un «rilancio del Pci». Per la verità, dopo il «caso D'Urso», con il tweet di solidarietà inviato dal governatore del Lazio alla conduttrice partenopea, le ironie e i meme su Zinga si stanno moltiplicando. Segnali forse marginali, ma che l'inner circle zingarettiano non vuole sottovalutare, ben sapendo che una campagna di delegittimazione si avvale anche dell'arma della messa in ridicolo, e casi simili non fanno difetto nella storia della sinistra. È per questo che, ai piani alti del Nazareno, con la direzione di ieri è partita ufficialmente la manovra di Zingaretti e dei suoi per uscire dall'impasse. Una manovra nello stile tipico del tandem Zingaretti-Bettini, fatta di formule, di assemblee tematiche sulla «forma partito» e di «agende locali» e di «ripartenze dai territori». Nel suo discorso, il segretario ha rintuzzato punto per punto le critiche che gli vengono mosse sempre più frequentemente, a partire dalla mancanza di una visione politica a medio termine, e ha fatto presente che tutte le scelte politiche operate negli ultimi tempi sono state «condivise e ratificate dagli organi di partito», alludendo alle accuse di atteggiamento remissivo nei confronti di M5s e di Conte nel corso dell'ultima crisi di governo. Da qui l'appello all'unità, «se si vuole evitare di implodere», ma anche il rinvio al mittente delle accuse di lontananza dai territori, avanzate anche in maniera ruvida dal cosiddetto «partito dei sindaci» guidato da Dario Nardella, Giorgio Gori e Antonio Decaro. Zingaretti si è difeso a spada tratta anche su quello che attualmente rappresenta il vero nervo scoperto, e cioè la rappresentanza femminile, su cui era uscito con le ossa rotte dal primo giro di nomine governative e ha tentato di limitare i danni con una pattuglia di sottosegretari quasi interamente rosa. Quindi, ha additato il primo banco di prova per la «controffensiva»: la prossima Assemblea nazionale, prevista per il 13 e 14 marzo, che nei voti del segretario dovrà essere l'avvio della grande «rigenerazione» del partito, alla quale qualcuno ha addirittura ipotizzato che Zingaretti possa arrivare dimissionario. Le smentite su questa ipotesi sono arrivate immediatamente ed energicamente, ma al di là dell'extrema ratio, resta il problema di far venire allo scoperto gli oppositori e stoppare un logoramento che il segretario potrebbe non reggere fino al congresso, previsto tra ottobre di quest'anno e l'inizio del 2022. Anticiparlo potrebbe essere l'altra mossa, nel caso gli attacchi al quartier generale continuassero con l'attuale modalità da guerriglia, perché se è vero che le cose, all'interno del Pd, non sono degenerate nella rissa permanente stile M5s, è altrettanto vero che lo scontro si va facendo quanto meno aspro, con punte da livello di guardia, come quelle toccate dal vicesegretario, Andrea Orlando, e dal senatore Dario Stefano. Il primo, in un'intervista concessa al Quotidiano Nazionale, ha parlato di «rigurgiti centristi» e di «renziani all'opera», attaccando frontalmente la corrente Base riformista e il «partito dei sindaci», innescando così la risposta del secondo, che gli ha consigliato di «vedere meno film noir».