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2023-04-27
«Kiev ha tentato di uccidere Putin». Xi cerca di mediare con Zelensky
Xi Jinping e Volodymyr Zelensky (Ansa)
Dopo più di un anno, Kiev e Pechino hanno ripreso a parlarsi. È la prima volta da quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Il riallacciamento dei rapporti è avvenuto tramite una conversazione telefonica tra Xi Jinping e Volodymyr Zelensky. Entrambi i capi di Stato si sono detti soddisfatti del colloquio: «Ho avuto una telefonata lunga e significativa con il presidente cinese Xi Jinping», ha scritto Zelensky su Twitter. «Credo che questa chiamata, così come la nomina dell’ambasciatore dell’Ucraina in Cina, darà un potente impulso allo sviluppo delle nostre relazioni bilaterali».
Da parte sua, il presidente della Cina ha specificato che «il dialogo e la negoziazione sono l’unica via d’uscita praticabile». In particolare, Xi Jinping ci ha tenuto a sottolineare che «non ci sono vincitori in una guerra nucleare». Pertanto, ha proseguito, «tutte le parti interessate dovrebbero rimanere calme e sobrie, e gestire e controllare congiuntamente la crisi».
In tutto questo, Xi Jinping ha poi ribadito che la Cina è «sempre dalla parte della pace» e che, in merito alla «crisi ucraina», il suo obiettivo è per l’appunto «promuovere la pace» per via diplomatica. È significativo che Pechino non parli mai di «guerra» (figurarsi di «aggressione russa»), rimarcando così di non voler concedere troppo a Kiev e ai suoi alleati occidentali. Tuttavia, un primo passo è stato fatto. Per il momento, la telefonata tra i due presidenti ha avuto come effetto concreto uno scambio di diplomatici: la Cina invierà in Ucraina il proprio Rappresentante speciale del governo per l’Eurasia, mentre Zelensky ha nominato il nuovo ambasciatore ucraino a Pechino, e cioè Pavlo Ryabikin.
Sulla ricucitura dei rapporti tra Cina e Ucraina, salutata favorevolmente da tutti, si è espressa anche Mosca, che però ha anche manifestato un certo scetticismo: «Prendiamo atto della disponibilità cinese a compiere sforzi per i negoziati, ma riteniamo che il problema non sia la mancanza di buoni piani», ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. Che poi ha spiegato: «Le autorità ucraine e i loro curatori occidentali hanno già dimostrato la loro capacità di ostacolare le iniziative di pace. Pertanto, qualsiasi appello alla pace difficilmente può essere adeguatamente percepito dai burattini controllati da Washington». Infatti, ha attaccato la portavoce russa, Kiev «rifiuta ogni sana iniziativa per la soluzione del conflitto».
In sintesi, malgrado tutti si professino disposti a trattare per la pace, ancora nessuno sembra davvero intenzionato a fare il passo decisivo. Del resto, John Kirby, il portavoce del Consiglio per la sicurezza americana, ha sottolineato che «non possiamo sapere se questa telefonata porterà a qualcosa. Sta all’Ucraina e Zelensky decidere se vogliono sedersi al tavolo dei negoziati per la pace». E proprio ieri, in visita a Roma, il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, è stato molto chiaro in proposito: «ci sarà sicuramente una controffensiva di primavera», ha detto. «Non vi dirò quando, perché non voglio facilitare la Russia, ma stiamo preparando le nostre forze armate». La strada, insomma, è ancora tutta in salita.
Che i rapporti tra le controparti siano ancora tesissimi lo confermano diversi indizi. Tanto per cominciare, ieri Mosca ha decretato l’espulsione di 10 diplomatici norvegesi. Si tratta di una risposta alla decisione di Oslo di allontanare dal proprio territorio 15 funzionari dell’ambasciata russa, accusati di essere «agenti dell’intelligence». Inoltre, sempre ieri, ha preso fuoco l’Istituto di cultura russa a Nicosia, che ha riportato «ingenti danni». Secondo diversi testimoni oculari, si sarebbe trattato di un incendio doloso. «Abbiamo sentito due colpi, e poi è scoppiato l’incendio», ha dichiarato Alina Radchenko, la direttrice dell’istituto. Le fiamme potrebbero essere state provocate dal lancio di bombe molotov all’interno dell’edificio. «Sono sicura che i terroristi fossero sostenitori del regime di Kiev», ha dichiarato Maria Zakharova.
La vera notizia però arriva dalla Germania. Secondo Bild, infatti, domenica scorsa i servizi segreti ucraini avrebbero tentato di uccidere Vladimir Putin con un drone esplosivo. Sebbene l’agguato sia fallito, il tentativo sarebbe stato tenuto segreto dalle autorità russe. Secondo il giornale tedesco, nel pomeriggio del 23 aprile sarebbe stato fatto partire dall’Ucraina un drone UJ-22 con una portata fino a 800 km e con a bordo «30 blocchi di esplosivo C4, per un peso totale di 17 kg». L’obiettivo sarebbe stato il parco industriale di Rudnevo, vicino Mosca, in cui avrebbe potuto esserci una visita di Putin. Il drone è però precipitato 20 km prima. Non è chiaro se la visita di Putin sul posto ci sia mai stata.
E proprio il capo di Stato russo, nel frattempo, in risposta al sequestro di proprietà russe all’estero, ha firmato un decreto per porre sotto «amministrazione controllata» i beni di Paesi ostili su territorio russo. Per ora l’agenzia federale per la gestione delle proprietà dello Stato rileverà l’83,73% della proprietà della tedesca Unipro e il 98% della divisione russa della finlandese Fortum. Come se non bastasse, l’aeronautica tedesca ha dato notizia che alcuni suoi caccia, in collaborazione con altri velivoli britannici della Nato, hanno intercettato tre aerei da ricognizione russi nello spazio aereo internazionale sul Mar Baltico. Si tratterebbe di due caccia SU-27 e di un bombardiere Ilyushin Il-20. Inoltre, durante i combattimenti nei pressi di Kherson, è rimasto ferito un reporter italiano. Si tratta di Corrado Zunino, giornalista di Repubblica. Come riferito dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, il cronista «sta bene ed è seguito dalla nostra ambasciata a Kiev».
Il doppio gioco di Mosca in Sudan
Si fanno sempre più fondati i sospetti di un coinvolgimento di Mosca nella crisi sudanese. Per rendersene conto, basta pensare alle parole pronunciate martedì da Sergej Lavrov in riferimento ai mercenari del Wagner Group. «La Repubblica centrafricana e il Mali, così come il Sudan e una serie di altri Paesi i cui governi, autorità legittime si rivolgono a tali servizi, hanno il diritto di farlo, non dimentichiamolo», ha dichiarato il ministro degli Esteri russo, secondo Anadolu.
Non è d’altronde un mistero che il Cremlino abbia fatto ricorso al Wagner Group per rafforzare la propria influenza in varie aree africane. Inoltre, i paramilitari sudanesi delle Rsf, capeggiati dal generale Hemeti, intrattengono storici legami con la nota organizzazione di mercenari russi. In particolare, Mosca guarda da tempo soprattutto all’oro sudanese, che utilizza anche per sostenere il proprio sforzo bellico in Ucraina. Non solo.
La settimana scorsa, Cnn ha riferito che i mercenari russi avrebbero fornito alle Rsf dei missili attraverso basi collocate nella Libia orientale: un’area in cui è solido il potere del generale Khalifa Haftar, il quale è storicamente appoggiato da Mosca e dagli stessi Wagner. Nonostante il diretto interessato neghi, Cnn ha riportato che l’uomo forte della Cirenaica starebbe probabilmente sostenendo le forze di Hemeti già da prima che la crisi sudanese scoppiasse. Inoltre, secondo la Bbc, una brigata delle Rsf sarebbe stata inviata in sostegno di Haftar durante la sua offensiva del 2019 contro il governo di Tripoli.
Nel frattempo, ieri Mosca si è proposta come mediatrice nel conflitto sudanese. «Chiediamo alle parti opposte di mostrare volontà politica e di prendere provvedimenti immediati per cessare il fuoco», ha dichiarato la vice rappresentante russa all’Onu, Anna Evstigneeva. Ebbene, fino a poco tempo fa Hemeti era uno stretto alleato dell’attuale capo di Stato sudanese, Abdel Fattah al-Burhan: un’alleanza che si è tuttavia man mano incrinata, a causa della resistenza opposta dalla Rsf a farsi includere nell’esercito sudanese. Questo ha portato alla lotta di potere attuale, che presenta anche dei fattori internazionali. Al-Burhan, negli ultimi mesi, era sembrato parzialmente avvicinarsi all’Occidente: secondo l’Associated Press, gli Usa, tramite i vertici dell’intelligence egiziana, lo avevano infatti esortato a estromettere i Wagner dal Paese lo scorso gennaio.
Non è quindi da escludere che Mosca possa vedere di buon occhio un indebolimento di al-Burhan e che, proponendosi ora come mediatrice, punti a rafforzare la propria influenza politica sul Sudan. Negli ultimi due anni, il Cremlino, grazie soprattutto al Wagner, ha rafforzato la propria longa manus su Mali e Burkina Faso, approfittando della crescente debolezza della Francia. Infine, secondo informazioni d’intelligence citate dal Washington Post, i Wagner starebbero reclutando ribelli del Ciad per rovesciarne il governo. Il quadro complessivo mette in evidenza il ruolo centrale che l’Est libico riveste nella strategia africana di Mosca. Si tratta di un dossier cruciale per l’Italia e per il fianco meridionale della Nato. Il Sahel è uno snodo fondamentale per i flussi migratori diretti verso l’Europa occidentale. O l’amministrazione Biden lo capisce in fretta, o il Wagner Group continuerà a spadroneggiare pericolosamente nell’area. Nel mentre, secondo quanto risulta alla Verità, è partita ieri da Port Sudan una nave francese diretta a Gedda con a bordo quattro italiani: il lavoro dell’intelligence, diretta dal generale Giovanni Caravelli, sta proseguendo.
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Rivelazione di «Bild»: drone kamikaze doveva ammazzare lo Zar con 17 chili di esplosivo durante una visita. Primo contatto tra Cina e Ucraina dall’inizio della guerra. A Cipro bombe molotov sull’istituto di cultura russo.Mentre i mercenari della compagnia Wagner consegnano (grazie alla sponda libica) missili ai paramilitari, il Cremlino si propone come paciere. Aria di golpe pure in Ciad.Lo speciale contiene due articoli.Dopo più di un anno, Kiev e Pechino hanno ripreso a parlarsi. È la prima volta da quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Il riallacciamento dei rapporti è avvenuto tramite una conversazione telefonica tra Xi Jinping e Volodymyr Zelensky. Entrambi i capi di Stato si sono detti soddisfatti del colloquio: «Ho avuto una telefonata lunga e significativa con il presidente cinese Xi Jinping», ha scritto Zelensky su Twitter. «Credo che questa chiamata, così come la nomina dell’ambasciatore dell’Ucraina in Cina, darà un potente impulso allo sviluppo delle nostre relazioni bilaterali».Da parte sua, il presidente della Cina ha specificato che «il dialogo e la negoziazione sono l’unica via d’uscita praticabile». In particolare, Xi Jinping ci ha tenuto a sottolineare che «non ci sono vincitori in una guerra nucleare». Pertanto, ha proseguito, «tutte le parti interessate dovrebbero rimanere calme e sobrie, e gestire e controllare congiuntamente la crisi».In tutto questo, Xi Jinping ha poi ribadito che la Cina è «sempre dalla parte della pace» e che, in merito alla «crisi ucraina», il suo obiettivo è per l’appunto «promuovere la pace» per via diplomatica. È significativo che Pechino non parli mai di «guerra» (figurarsi di «aggressione russa»), rimarcando così di non voler concedere troppo a Kiev e ai suoi alleati occidentali. Tuttavia, un primo passo è stato fatto. Per il momento, la telefonata tra i due presidenti ha avuto come effetto concreto uno scambio di diplomatici: la Cina invierà in Ucraina il proprio Rappresentante speciale del governo per l’Eurasia, mentre Zelensky ha nominato il nuovo ambasciatore ucraino a Pechino, e cioè Pavlo Ryabikin.Sulla ricucitura dei rapporti tra Cina e Ucraina, salutata favorevolmente da tutti, si è espressa anche Mosca, che però ha anche manifestato un certo scetticismo: «Prendiamo atto della disponibilità cinese a compiere sforzi per i negoziati, ma riteniamo che il problema non sia la mancanza di buoni piani», ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. Che poi ha spiegato: «Le autorità ucraine e i loro curatori occidentali hanno già dimostrato la loro capacità di ostacolare le iniziative di pace. Pertanto, qualsiasi appello alla pace difficilmente può essere adeguatamente percepito dai burattini controllati da Washington». Infatti, ha attaccato la portavoce russa, Kiev «rifiuta ogni sana iniziativa per la soluzione del conflitto».In sintesi, malgrado tutti si professino disposti a trattare per la pace, ancora nessuno sembra davvero intenzionato a fare il passo decisivo. Del resto, John Kirby, il portavoce del Consiglio per la sicurezza americana, ha sottolineato che «non possiamo sapere se questa telefonata porterà a qualcosa. Sta all’Ucraina e Zelensky decidere se vogliono sedersi al tavolo dei negoziati per la pace». E proprio ieri, in visita a Roma, il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, è stato molto chiaro in proposito: «ci sarà sicuramente una controffensiva di primavera», ha detto. «Non vi dirò quando, perché non voglio facilitare la Russia, ma stiamo preparando le nostre forze armate». La strada, insomma, è ancora tutta in salita.Che i rapporti tra le controparti siano ancora tesissimi lo confermano diversi indizi. Tanto per cominciare, ieri Mosca ha decretato l’espulsione di 10 diplomatici norvegesi. Si tratta di una risposta alla decisione di Oslo di allontanare dal proprio territorio 15 funzionari dell’ambasciata russa, accusati di essere «agenti dell’intelligence». Inoltre, sempre ieri, ha preso fuoco l’Istituto di cultura russa a Nicosia, che ha riportato «ingenti danni». Secondo diversi testimoni oculari, si sarebbe trattato di un incendio doloso. «Abbiamo sentito due colpi, e poi è scoppiato l’incendio», ha dichiarato Alina Radchenko, la direttrice dell’istituto. Le fiamme potrebbero essere state provocate dal lancio di bombe molotov all’interno dell’edificio. «Sono sicura che i terroristi fossero sostenitori del regime di Kiev», ha dichiarato Maria Zakharova.La vera notizia però arriva dalla Germania. Secondo Bild, infatti, domenica scorsa i servizi segreti ucraini avrebbero tentato di uccidere Vladimir Putin con un drone esplosivo. Sebbene l’agguato sia fallito, il tentativo sarebbe stato tenuto segreto dalle autorità russe. Secondo il giornale tedesco, nel pomeriggio del 23 aprile sarebbe stato fatto partire dall’Ucraina un drone UJ-22 con una portata fino a 800 km e con a bordo «30 blocchi di esplosivo C4, per un peso totale di 17 kg». L’obiettivo sarebbe stato il parco industriale di Rudnevo, vicino Mosca, in cui avrebbe potuto esserci una visita di Putin. Il drone è però precipitato 20 km prima. Non è chiaro se la visita di Putin sul posto ci sia mai stata. E proprio il capo di Stato russo, nel frattempo, in risposta al sequestro di proprietà russe all’estero, ha firmato un decreto per porre sotto «amministrazione controllata» i beni di Paesi ostili su territorio russo. Per ora l’agenzia federale per la gestione delle proprietà dello Stato rileverà l’83,73% della proprietà della tedesca Unipro e il 98% della divisione russa della finlandese Fortum. Come se non bastasse, l’aeronautica tedesca ha dato notizia che alcuni suoi caccia, in collaborazione con altri velivoli britannici della Nato, hanno intercettato tre aerei da ricognizione russi nello spazio aereo internazionale sul Mar Baltico. Si tratterebbe di due caccia SU-27 e di un bombardiere Ilyushin Il-20. Inoltre, durante i combattimenti nei pressi di Kherson, è rimasto ferito un reporter italiano. Si tratta di Corrado Zunino, giornalista di Repubblica. Come riferito dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, il cronista «sta bene ed è seguito dalla nostra ambasciata a Kiev».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/zelensky-xi-cina-ucraina-2659918935.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-doppio-gioco-di-mosca-in-sudan" data-post-id="2659918935" data-published-at="1682593995" data-use-pagination="False"> Il doppio gioco di Mosca in Sudan Si fanno sempre più fondati i sospetti di un coinvolgimento di Mosca nella crisi sudanese. Per rendersene conto, basta pensare alle parole pronunciate martedì da Sergej Lavrov in riferimento ai mercenari del Wagner Group. «La Repubblica centrafricana e il Mali, così come il Sudan e una serie di altri Paesi i cui governi, autorità legittime si rivolgono a tali servizi, hanno il diritto di farlo, non dimentichiamolo», ha dichiarato il ministro degli Esteri russo, secondo Anadolu. Non è d’altronde un mistero che il Cremlino abbia fatto ricorso al Wagner Group per rafforzare la propria influenza in varie aree africane. Inoltre, i paramilitari sudanesi delle Rsf, capeggiati dal generale Hemeti, intrattengono storici legami con la nota organizzazione di mercenari russi. In particolare, Mosca guarda da tempo soprattutto all’oro sudanese, che utilizza anche per sostenere il proprio sforzo bellico in Ucraina. Non solo. La settimana scorsa, Cnn ha riferito che i mercenari russi avrebbero fornito alle Rsf dei missili attraverso basi collocate nella Libia orientale: un’area in cui è solido il potere del generale Khalifa Haftar, il quale è storicamente appoggiato da Mosca e dagli stessi Wagner. Nonostante il diretto interessato neghi, Cnn ha riportato che l’uomo forte della Cirenaica starebbe probabilmente sostenendo le forze di Hemeti già da prima che la crisi sudanese scoppiasse. Inoltre, secondo la Bbc, una brigata delle Rsf sarebbe stata inviata in sostegno di Haftar durante la sua offensiva del 2019 contro il governo di Tripoli. Nel frattempo, ieri Mosca si è proposta come mediatrice nel conflitto sudanese. «Chiediamo alle parti opposte di mostrare volontà politica e di prendere provvedimenti immediati per cessare il fuoco», ha dichiarato la vice rappresentante russa all’Onu, Anna Evstigneeva. Ebbene, fino a poco tempo fa Hemeti era uno stretto alleato dell’attuale capo di Stato sudanese, Abdel Fattah al-Burhan: un’alleanza che si è tuttavia man mano incrinata, a causa della resistenza opposta dalla Rsf a farsi includere nell’esercito sudanese. Questo ha portato alla lotta di potere attuale, che presenta anche dei fattori internazionali. Al-Burhan, negli ultimi mesi, era sembrato parzialmente avvicinarsi all’Occidente: secondo l’Associated Press, gli Usa, tramite i vertici dell’intelligence egiziana, lo avevano infatti esortato a estromettere i Wagner dal Paese lo scorso gennaio. Non è quindi da escludere che Mosca possa vedere di buon occhio un indebolimento di al-Burhan e che, proponendosi ora come mediatrice, punti a rafforzare la propria influenza politica sul Sudan. Negli ultimi due anni, il Cremlino, grazie soprattutto al Wagner, ha rafforzato la propria longa manus su Mali e Burkina Faso, approfittando della crescente debolezza della Francia. Infine, secondo informazioni d’intelligence citate dal Washington Post, i Wagner starebbero reclutando ribelli del Ciad per rovesciarne il governo. Il quadro complessivo mette in evidenza il ruolo centrale che l’Est libico riveste nella strategia africana di Mosca. Si tratta di un dossier cruciale per l’Italia e per il fianco meridionale della Nato. Il Sahel è uno snodo fondamentale per i flussi migratori diretti verso l’Europa occidentale. O l’amministrazione Biden lo capisce in fretta, o il Wagner Group continuerà a spadroneggiare pericolosamente nell’area. Nel mentre, secondo quanto risulta alla Verità, è partita ieri da Port Sudan una nave francese diretta a Gedda con a bordo quattro italiani: il lavoro dell’intelligence, diretta dal generale Giovanni Caravelli, sta proseguendo.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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