
L'Europarlamento, riunito ieri in sessione plenaria, ha bocciato la riforma del copyright. A settembre un'altra discussione. Esultano i grillini e i responsabili di Wikipedia, che per protesta aveva oscurato il sito. In rete, petizioni con migliaia di firme.La riforma del copyright non s'ha da fare, almeno per il momento. Il Parlamento europeo, riunito ieri in sessione plenaria, ha infatti respinto l'avvio del mandato negoziale che verosimilmente avrebbe finito per confermare il testo approvato lo scorso 20 giugno in commissione Affari giuridici. L'esito della consultazione era appeso a un filo, come alla vigilia del voto avevano riferito alla Verità fonti impegnate a seguire da vicino gli sviluppi della vicenda. E in effetti, aldilà dell'esito sulla carta piuttosto netto (318 contrari, 278 favorevoli, 31 astenuti), il voto ha letteralmente spaccato i gruppi parlamentari. Divisi in due i socialdemocratici (82 contrari, 80 favorevoli) e l'Europa delle nazioni e delle libertà (14 a 14). Decisamente contrari Europa della libertà e della democrazia diretta (a cui aderisce il M5s), Conservatori e riformisti, Sinistra europea e i Verdi. In bilico l'Alde, mentre ha votato in larga parte a favore il Partito popolare europeo.Per quanto riguarda gli eurodeputati italiani, dalla parte del «sì» una larga fetta della delegazione del Partito democratico a Strasburgo. Tra gli altri, Simona Bonafé, Mercedes Bresso, Roberto Gualtieri, Pina Picierno e David Sassoli. Tra le fila del Ppe italiano, spicca l'assenso di Elisabetta Gardini e Giovanni La Via. Dopo il voto, il relatore Axel Voss si è dichiarato dispiaciuto che «la maggioranza dei deputati non abbia sostenuto la posizione che io e la commissione giuridica abbiamo preparato». «Ma ciò», ha proseguito Voss, «fa parte del processo democratico. Torneremo sul tema a settembre con un ulteriore valutazione per cercare di rispondere alle preoccupazioni dei cittadini, aggiornando nel contempo le norme sul diritto d'autore per il moderno ambiente digitale». Nervoso il commento di Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo, che ha invitato a «non interferire con il lavoro del Parlamento» e a «non diffondere informazioni false e demagogiche». «Il Parlamento europeo deciderà liberamente la sua posizione in merito alla legge europea sul copyright con l'obiettivo di proteggere l'interesse di tutti i cittadini», ha aggiunto Tajani. Piccata anche la dichiarazione di Andrus Ansip, vicepresidente al mercato unico digitale della Commissione Ue, che su Twitter ha scritto «ora finiamola con gli slogan delle lobby e cominciamo a cercare soluzioni».L'esito del voto rappresenta «un vero peccato per chi aveva pensato di imbavagliare la libera circolazione delle idee e delle informazioni», dice l'eurodeputato Ignazio Corrao (M5s-Efdd) alla Verità. In effetti per gli euroburocrati la partita era già data per vinta dopo l'ok ottenuto in commissione Juri. E invece adesso tocca ripartire daccapo. Nelle ultime settimane la rete si è mobilitata nei modi più vari per scongiurare l'approvazione della direttiva. La petizione lanciata su Change.org dal comitato «Save the internet» nel momento in cui scriviamo è arrivata a sfiorare le 900.000 firme. Ma probabilmente il fattore decisivo per la vittoria del «no» è stata la clamorosa decisione, presa in segno di protesta nella notte tra lunedì e martedì, di oscurare la versione italiana di Wikipedia. «Wikimedia Italia accoglie con estremo favore la decisione del Parlamento europeo di non accettare l'attuale testo della direttiva sul copyright», recita una nota dell'associazione che si occupa nel nostro Paese della promozione e della diffusione della cultura libera. «Siamo lieti che l'azione di protesta a cui si è unita con forza la comunità di Wikipedia non sia stata vana e che la voce dei volontari attivi» sia stata «ascoltata dagli eurodeputati». Come spiega alla Verità il portavoce di Wikimedia Italia, Maurizio Codogno, l'obiettivo da qui a settembre è «proseguire nel dialogo con tutte le forze politiche che vorranno ascoltarci per inserire nel nuovo testo la libertà di panorama (cioè il diritto di scattare fotografie di edifici, opere e luoghi pubblici senza infrangere il diritto d'autore) e stralciare l'articolo 13». Ques'ultimo prevede l'obbligo per tutte le piattaforme che consentono il caricamento di contenuti di verificare prima dell'upload che il materiale non violi il diritto d'autore.«Adesso si apre una nuova partita», dichiara alla Verità l'eurodeputata Isabella Adinolfi (M5s-Efdd). «Noi non arretriamo di un millimetro e daremo battaglia anche in quell'occasione. Ripresenteremo i nostri emendamenti che mirano a eliminare i due articoli più controversi della direttiva, cioè l'11 (il corrispettivo per gli editori in caso di condivisione di un link o di un'anteprima, ndr) e il 13». «Nel frattempo», conclude la Adinolfi, «in coordinamento con il ministro Luigi Di Maio, la battaglia verrà portata avanti anche in seno al Consiglio. Nessuno può pensare di mettere il bavaglio alla rete».
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.
2025-11-20
Mondiali 2026, il cammino dell'Italia: Irlanda del Nord in semifinale e Galles o Bosnia in finale
True
Getty Images
Gli azzurri affronteranno in casa l’Irlanda del Nord nella semifinale playoff del 26 marzo, con eventuale finale in trasferta contro Galles o Bosnia. A Zurigo definiti percorso e accoppiamenti per gli spareggi che assegnano gli ultimi posti al Mondiale 2026.





