2023-12-24
Viste dalla valle di Cognetti le montagne sono una punizione
Paolo Cognetti (Getty Images)
Nel nuovo romanzo dello scrittore, il paesaggio sembra fregarsene dell’uomo. Anzi, lo spinge ad esser cattivo per sopravvivere. Restare è come scontare una pena, in attesa di una svolta che probabilmente non arriverà.Che ti piacciano o meno le storie ambientate in un orizzonte montano, il lettore curioso e appassionato dei nostri giorni se le ritrova a leggere. Ovviamente uno degli autori più letti e noti del genere è Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega e di tanti altri riconoscimenti con Le otto montagne, romanzo sull’amicizia e sulla natura tradotto in oltre quaranta lingue e che ha venduto milioni di copie. Ma Cognetti non è e non può ridursi soltanto al successo clamoroso di un romanzo, se vogliamo concederci un po’ di facile ironia, fortunato, né del film che ne è stato tratto. Cognetti è un uomo che vive in una baita in montagna a 1.900 metri, è un appassionato lettore di tante opere del panorama nordamericano, un saggista riconosciuto, basti pensare ai testi con cui accompagna in libreria opere di grandi scrittori quali Mario Rigoni Stern, Raymond Carver o Antonia Pozzi e, non ultima, la prefazione a Pensare come una montagna di Aldo Leopold (Piano B).Ora, al di là dell’impegno per una vera e non utilitaristica protezione della natura, idee messe in risalto sulle pagine del quotidiano La Repubblica, quel che qui mi interessa prendere in considerazione è la sua scrittura e i personaggi che popolano i suoi romanzi. E per farlo punterei all’ultimo uscito, Giù nella valle, da poche settimane nelle librerie per il suo editore principe, Einaudi. Alcune recensioni parlano addirittura di «superamento» del valore letterario de Le otto montagne e paragonano l’autore ad alcuni nomi sommitali della letteratura americana dello scorso secolo, il che mi pare, indipendentemente dall’autore considerato, azzardato e inaudito. Spesso si eccede in commenti veneranti o stroncanti: c’è chi adora Cognetti, per quel che è e per come scrive, talora anche per il suo successo, e c’è chi lo sminuisce con stroncature feroci, temo per le stesse identiche ragioni. Credo che per molti suoi non-lettori, fu un sollievo poterlo criticare apertamente grazie a opere non pienamente riuscite, Senza mai arrivare in cima e La felicità del lupo, a detta di molti opere minori, ma sulle quali, dopo la lettura di Giù nella valle, credo di voler ritornare.Leggendo Giù nella valle ho provato le stesse sensazioni che già avevo accumulato navigando, ai tempi, Le otto montagne, ma con un vantaggio a mio parere non di poco conto: la sintesi. Diversi autori si prodigano nella stesura di ampi romanzi, come se la dimensione o la quantità di materia narrativa prodotta fosse commisurata alle ambizioni e al respiro che si vuole dare al proprio raccontare; forse si tratta di un istinto letterario al gigantismo che in epoca di vanità editoriali si manifesta anche contrariamente ad una certa desiderabile oculatezza. Giù nella valle è un romanzo felicemente corto.La lettura offre diversi spunti di riflessione. C’è una bestia che sta falcidiando animali in valle e nessuno sa se sia un lupo, un ibrido o un cane fuori controllo. C’è il fantasma di un padre che si è tolto la vita. C’è una natura indolente che l’uomo contamina e se ne frega di noi o ogni tanto ci punisce. C’è un mare di alcol che rincretinisce la vita delle persone. Insomma, c’è un mondo qui fuori, popolato di gente ben poco edificante, dove una certa malignità di fondo rende cattivi semplicemente per sopravvivere ad un vita bara, competitiva e primitiva. E qui nulla di nuovo, è la stessa idea probabilmente generazionale che tocca boomer e post boomer (non so se si dica così) e che accomuna diversi autori «da montagna» emersi negli ultimi 20 anni, da Mauro Corona a Matteo Righetto a Claudio Morandini. Le descrizioni naturalistiche del paesaggio sono interessanti, l’ambientazione dei suoi romanzi è stata una delle chiavi dell’affermazione, eppure non direi che rappresentino il meglio della sua scrittura: non perché non siano ponderate ed efficaci, anzi, qualcosa si impara sempre, ma non dicono cose che non si leggano anche nelle pagine di altri autori e camminatori, filosofi o poeti, naturalisti e botanici divulgatori. Anzi, direi che la scrittura di Cognetti, così connotata oramai dal mondo agreste e montanaro, dia in parte il meglio invece quando non parla di quello, come se la montagna fosse alfine una specie di ideologia alla quale si resta legati perché i lettori se la aspettano e tu in quanto autore se scrivi devi comunque tirarla in ballo. Ma su quest’ultima considerazione mi riprometto di meditare ancora.Le parti che trovo più interessanti, dentro le quali mi immergo con piacere, sono i dialoghi a due: ad esempio, l’inizio del secondo capitolo, «Poliziotto della forestale», tra il forestale Luigi e la moglie, Betta o Elisabetta, e le diverse occasioni nelle quali i due fratelli ritrovati, Alfredo e Luigi, un larice e un abete tanto sono diversi, i due «Balma», stanno insieme. Qui il romanzo a mio parere dà il suo meglio, anzi, no, qui, in queste scene la scrittura di Cognetti diventa precisa e suggestiva; ecco, ricostruendo e scandagliando queste intimità tra due esseri umani che «si limitano a vivere» trovo che la sua scrittura sia meritevole di lettura e rilettura. In queste scene, in questi duetti composti di parole comuni, ordinarie, animate da bisticci e litigi, da tenerezze e ricordi, non c’è nemmeno bisogno della natura selvaggia, dei boschi o della roccia, vivono situazioni che possono animarsi indipendentemente e qui sta la sapienza narrativa di Paolo Cognetti.All’interno della manciata di umani presenti nel romanzo, una figura intrigante è certamente quella di Elisabetta, la straniera milanese che si adatta al respiro della provincia profonda, ragazza e dunque moglie di Luigi, quasi restia a volersi spiegare al lettore; non dice mai troppo, racconta con parsimonia, quasi che siano i personaggi che incontra a parlare di lei al suo posto. Ci sono ragazze del genere nei paesi, belle, a modo loro, in attesa di una svolta che probabilmente non arriverà mai. Questa sua velata ritrosia la rende interessante, mentre i due fratelli Balma non fanno che raccontare e ricordare e dire, lei, la Betta, si risparmia. La sua storia viene raccontata soprattutto nel capitolo «Donna nell’acqua», ricordando gli anni degli studi, la figura della madre, e laddove la vediamo leggere, è infatti lei che sostiene quel piccolo ponte che ci porta a un minimo di cultura, ai libri che le piacciono e che in fondo piacciono anche a noi che stiamo leggendo, come Robert Graves, Flannery O’Connor o Karen Blixen. Eppure, nonostante sia incinta, mi resta un dubbio: non lo capisco perché lei resti qui, nella valle, tra questi monti, tra questi ubriaconi, sembra quasi una punizione che stia pagando per qualcosa che ancora non sappiamo. Elisabetta vive qui come ci sono le rocce in cima a un vetta o il fiume che si gonfia d’acqua dopo la pioggia.Terminata la lettura lascio decantare le idee per alcuni giorni. Alla fine mi dico che la nuova narrativa italiana proprio non fa per me, i romanzi nei quali si cerca di raccontare storie senza storia, fatti di atmosfere, di umanità malridotte, di futuri incerti e passati laceranti, come una certa poesia dolente che dovrebbe dimostrare chissà quale sensibilità cosmica del poeta. Perché la mia generazione non sa andare avanti senza ossessionarsi col passato e col mondo che ci sta cascando addosso? Me lo chiedo a ogni romanzo che incomincio, ogni volta, ogni giro.
Maria Rita Parsi (Imagoeconomica)
La sede di Bankitalia. Nel riquadro, Claudio Borghi (Imagoeconomica)