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2025-02-04
Su Apple Tv+ la serie dedicata alla guerra del Vietnam
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«Vietnam: La Guerra che ha cambiato gli Stati Uniti» (Apple Tv+)
La voce è quella di Ethan Hawke, ma le memorie, i resoconti, i ricordi non sono suoi. A parlare, nelle sei puntate di Vietnam: La Guerra che ha cambiato gli Stati Uniti, sono i reduci, ex militari tornati dall'Asia per vivere una vita quanto più normale possibile. Parlano, e le lancette dell'orologio prendono a girare ancora, al contrario, fino a ritrovare quei giorni: quei rumori, il dolore, la speranza. Pure, una sorta di estemporanea empatia, la capacità di scoprirsi fratelli dove la famiglia non sarebbe mai potuta arrivare. Vietnam: La Guerra che ha cambiato gli Stati Uniti, disponibile su Apple Tv+ da venerdì 31 gennaio, riesce a camminare su un doppio binario, restituendo, insieme, l'idea di cosa potesse significare vivere uno fra i conflitti più lunghi della storia e il sentimento umano che nel conflitto si è generato. I reduci, quelli intervistati, parlano in prima persona e dove non ci sono parole subentrano i filmati, inediti per lo più. Le immagini mozzano il fiato, c'è violenza e orrore. Ma c'è, più di tutto, la voglia di capire come la Guerra del Vietnam, a cinquant'anni dalla caduta di Saigon, abbia plasmato l'identità di un Paese, gli Stati Uniti, inducendo trasformazioni che niente, nel tempo a venire, avrebbe potuto inficiare.
Gli episodi partono, dunque, dalle storie umane e particolari di chi è stato mandato al fronte per arrivare ad indagare il clima sociale e politico degli anni compresi tra i Sessanta e i Settanta. Siamo nel 1965, quando la serie inizia. I soldati sono giovani, spediti in Vietnam senza avere contezza di cosa e come sia quel Paese lontano. Seguono le loro vicende, i ricordi, i momenti cruciali del conflitto, l’Offensiva del Têt e il ritorno dei veterani. I reduci parlano, e parlando si trovano a spiegare quali e quante sfide - al contempo, morali e personali - abbiano dovuto affrontare per tenere fede alla propria bandiera. Bill Broyles, celebre sceneggiatore di Hollywood e tenente in Vietnam, si riunisce con un membro del suo plotone, cinquant'anni dopo aver fatto rientro in patria. Hilary Brown, prima donna ad aver servito come corrispondente estera di Abc News, ricorda il proprio lavoro, la caduta di Saigon così come l'ha seguita in prima persona. E segue Melvin Pender, il corridore che ha vinto la medaglia d’oro olimpica nei Giochi del Messico del 1968, trovandosi poi soldato in Vietnam. Poi, i soldati del Viet Cong che hanno combattuto nell’offensiva del Tet: tra loro, la prima donna Viet Cong nel suo distretto ad abbattere un aereo nemico.
In Vietnam: La Guerra che ha cambiato gli Stati Uniti non c'è una prospettiva univoca, da seguire ciecamente, ma un pluralismo di voci, capaci - insieme - di ricomporre un quadro nitido e vivo di quegli anni, di quel conflitto. Parlano tutti, ciascuno per sé. Parlano, e parlando restituiscono tridimensionalità, profondità e complessità alla guerra, al novero di ossimori e antitesi che si porta appresso. Le sei puntate del documentario, in cui un veterano ricorda l'attimo in cui ha pensato che la sua vita finisse quel giorno, con un lancio in paracadute sopra il sentiero di Ho Chi Minh, riesce a dare spazio alla storia, senza trascurare le fragilità di chi volente o nolente si è trovato a farla.
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Vietnam: La Guerra che ha cambiato gli Stati Uniti, disponibile su Apple Tv+ da venerdì 31 gennaio, riesce a camminare su un doppio binario, restituendo, insieme, l'idea di cosa potesse significare vivere uno fra i conflitti più lunghi della storia e il sentimento umano che nel conflitto si è generato. I reduci, quelli intervistati, parlano in prima persona e dove non ci sono parole subentrano i filmati, inediti per lo più. Le immagini mozzano il fiato, c'è violenza e orrore.La voce è quella di Ethan Hawke, ma le memorie, i resoconti, i ricordi non sono suoi. A parlare, nelle sei puntate di Vietnam: La Guerra che ha cambiato gli Stati Uniti, sono i reduci, ex militari tornati dall'Asia per vivere una vita quanto più normale possibile. Parlano, e le lancette dell'orologio prendono a girare ancora, al contrario, fino a ritrovare quei giorni: quei rumori, il dolore, la speranza. Pure, una sorta di estemporanea empatia, la capacità di scoprirsi fratelli dove la famiglia non sarebbe mai potuta arrivare. Vietnam: La Guerra che ha cambiato gli Stati Uniti, disponibile su Apple Tv+ da venerdì 31 gennaio, riesce a camminare su un doppio binario, restituendo, insieme, l'idea di cosa potesse significare vivere uno fra i conflitti più lunghi della storia e il sentimento umano che nel conflitto si è generato. I reduci, quelli intervistati, parlano in prima persona e dove non ci sono parole subentrano i filmati, inediti per lo più. Le immagini mozzano il fiato, c'è violenza e orrore. Ma c'è, più di tutto, la voglia di capire come la Guerra del Vietnam, a cinquant'anni dalla caduta di Saigon, abbia plasmato l'identità di un Paese, gli Stati Uniti, inducendo trasformazioni che niente, nel tempo a venire, avrebbe potuto inficiare. Gli episodi partono, dunque, dalle storie umane e particolari di chi è stato mandato al fronte per arrivare ad indagare il clima sociale e politico degli anni compresi tra i Sessanta e i Settanta. Siamo nel 1965, quando la serie inizia. I soldati sono giovani, spediti in Vietnam senza avere contezza di cosa e come sia quel Paese lontano. Seguono le loro vicende, i ricordi, i momenti cruciali del conflitto, l’Offensiva del Têt e il ritorno dei veterani. I reduci parlano, e parlando si trovano a spiegare quali e quante sfide - al contempo, morali e personali - abbiano dovuto affrontare per tenere fede alla propria bandiera. Bill Broyles, celebre sceneggiatore di Hollywood e tenente in Vietnam, si riunisce con un membro del suo plotone, cinquant'anni dopo aver fatto rientro in patria. Hilary Brown, prima donna ad aver servito come corrispondente estera di Abc News, ricorda il proprio lavoro, la caduta di Saigon così come l'ha seguita in prima persona. E segue Melvin Pender, il corridore che ha vinto la medaglia d’oro olimpica nei Giochi del Messico del 1968, trovandosi poi soldato in Vietnam. Poi, i soldati del Viet Cong che hanno combattuto nell’offensiva del Tet: tra loro, la prima donna Viet Cong nel suo distretto ad abbattere un aereo nemico.In Vietnam: La Guerra che ha cambiato gli Stati Uniti non c'è una prospettiva univoca, da seguire ciecamente, ma un pluralismo di voci, capaci - insieme - di ricomporre un quadro nitido e vivo di quegli anni, di quel conflitto. Parlano tutti, ciascuno per sé. Parlano, e parlando restituiscono tridimensionalità, profondità e complessità alla guerra, al novero di ossimori e antitesi che si porta appresso. Le sei puntate del documentario, in cui un veterano ricorda l'attimo in cui ha pensato che la sua vita finisse quel giorno, con un lancio in paracadute sopra il sentiero di Ho Chi Minh, riesce a dare spazio alla storia, senza trascurare le fragilità di chi volente o nolente si è trovato a farla.
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Alberto Stasi (Ansa)
Ieri, nell’aula del tribunale di Pavia, quell’ombra è stata cancellata dall’incidente probatorio. «È stato chiarito definitivamente che Stasi è escluso». Lo dice senza giri di parole all’uscita dal palazzo di giustizia Giada Bocellari, difensore con Antonio De Rensis di Stasi. «Tenete conto», ha spiegato Bocellari, «che noi partivamo da una perizia del professor Francesco De Stefano (il genetista che nel 2014 firmò la perizia nel processo d’appello bis, ndr) che diceva che il Dna era tutto degradato e che Stasi non poteva essere escluso da quelle tracce». È il primo elemento giudiziario della giornata di ieri. La stessa Bocellari, però, mette anche un freno a ogni lettura forzata: «Non è che Andrea Sempio verrà condannato per il Dna. Non verrà mai forse neanche rinviato a giudizio solo per il Dna». Gli elementi ricavati dall’incidente probatorio, spiega, sono «un dato processuale, una prova che dovrà poi essere valutata e questo lo potrà fare innanzitutto la Procura quando dovrà decidere, alla fine delle indagini, cosa fare». Dentro l’aula, però, la tensione non è stata solo scientifica. È stata anche simbolica. Perché Stasi era presente. Seduto, in silenzio. E la sua presenza ha innescato uno scontro.
«È venuto perché questa era una giornata importante», spiega ancora Bocellari, aggiungendo: «Tenete conto che sono undici anni che noi parliamo di questo Dna e finalmente abbiamo assunto un risultato nel contraddittorio». Una scelta rivendicata senza tentennamenti: «Tenete conto anche del fatto che lui ha sempre partecipato al suo processo, è sempre stato presente alle udienze e quindi questo era un momento in cui esserci, nel massimo rispetto anche dell’autorità giudiziaria che oggi sta procedendo nei confronti di un altro soggetto». E quel soggetto è Sempio. Indagato. Ma assente. Una scelta opposta, spiegata dai suoi legali. «In ogni caso non avrebbe potuto parlare», chiarisce Angela Taccia, che spiega: «Il Dna non è consolidato, non c’è alcuna certezza contro Sempio. Il software usato non è completo, anzi è molto scarno, non si può arrivare a nessun punto fermo». Lo stesso tono lo usa Liborio Cataliotti, l’altro difensore di Sempio. «Confesso che non mi aspettavo oggi la presenza di Stasi. Però non mi sono opposto, perché si è trattato di una presenza, sia pur passiva, di chi è interessato all’espletamento della prova. Non mi sembrava potessero esserci controindicazioni alla sua presenza». Se per la difesa di Sempio la presenza di Stasi è neutra, sul fronte della famiglia Poggi il clima è diverso. L’avvocato Gian Luigi Tizzoni premette: «Vedere Stasi non mi ha fatto nessun effetto, non ho motivi per provare qualsiasi tipo di emozione». Ma la linea processuale è chiara. Durante l’udienza i legali dei Poggi (rappresentati anche dall’avvocato Francesco Compagna) hanno chiesto che Stasi uscisse dall’aula perché «non è né la persona offesa né l’indagato». Richiesta respinta dal gip Daniela Garlaschelli come «irrilevante e tardiva», perché giunta «a sei mesi di distanza dall’inizio dell’incidente probatorio». Stasi è stato quindi ammesso come «terzo interessato». Ma l’avvocato Compagna tiene il punto: «Credo che di processuale ci sia poco in questa vicenda, è un enorme spettacolo mediatico». E attacca sul merito: «La verità è che le unghie sono prive di significato, visto che la vittima non si è difesa e giocare su un dato che non è scientifico è una follia».
La perita Denise Albani, ricorda Compagna, «ha ribadito che non si può dire come, dove e quando quella traccia è stata trasferita e quindi non ha valore». Deve essersi sentito un terzo interessato anche il difensore dell’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (indagato a Brescia per un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari riferita all’archiviazione della posizione di Sempio nel 2017). L’avvocato Domenico Aiello, infatti, ha alzato il livello dello scontro: «Non mi risulta che esista la figura della parte processuale del “terzo interessato”. Si è palesato in aula a Pavia il titolare effettivo del subappalto di manodopera nel cantiere della revisione». E insiste: «Sarei curioso di capire se sia soddisfatto e in quale veste sarà registrato al verbale di udienza, se spettatore abusivo o talent scout od osservatore interessato. Ancora una grave violazione del Codice di procedura penale. Spero non si sostituisca un candidato innocente con un altro sfortunato innocente e a spese di un sicuro innocente».
Ma mentre le polemiche rimbalzano fuori dall’aula, dentro il dato resta tecnico. E su quel dato, paradossalmente, tutti escono soddisfatti. «Dal nostro punto di vista abbiamo ottenuto risposte che riteniamo molto ma molto soddisfacenti sulla posizione di Sempio», dice Cataliotti. Taccia conferma: «Siamo molto soddisfatti di com’è andata oggi». La difesa di Sempio ribadisce che il dato è neutro, parziale, non decisivo. La difesa di Stasi incassa l’esclusione definitiva del Dna. E alla fine l’incidente probatorio ha fatto la sua parte. Ha prodotto una prova. Ha chiarito un equivoco storico. E ha lasciato ognuno con il proprio argomento in mano. Fuori dall’aula, però, il processo mediatico si è concentrato tutto sulla presenza di Stasi e sull’assenza di Sempio, come se l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno fosse misurabile a colpi di apparizioni sceniche.
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Getty Images
E come si può chiamare un tizio che promette «appena posso (violare la legge, ndr) lo rifaccio»?. «Costi quel che costi», disse Luca Casarini, «al vostro ordine continuerò a disobbedire, perché obbedisco ad altro, di fronte al quale le vostre leggi ingiuste e criminali, ciniche e orribili non possono niente». Quelle contestate sono le leggi dello Stato italiano, approvate dal Parlamento italiano, vigilate dalla Corte costituzionale italiana, rispettate dalla maggioranza degli italiani. Ma per Casarini e compagni si possono ignorare. Anzi, si devono violare. E nessuno può permettersi il diritto di critica e di chiamarli pirati. «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno», disse Beppe Caccia, capo missione di Mediterranea, «ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana, alle leggi dell’umanità». Chi si può arrogare il diritto di stabilire che ci si può infischiare di una legge? Ve la immaginate quale sarebbe la reazione di fronte a un tizio che ignora il codice della strada o la normativa fiscale e dice che lui risponde a una legge superiore? E vi ricorda qualche cosa la definizione di «legge criminale»? Negli anni della contestazione lo Stato era criminale, le misure repressive, i divieti autoritari. Come sia finita si sa.
Il soccorso in mare ha un obiettivo politico: è un’azione che mira a «contrastare e a sovvertire il sistema capitalista e patriarcale» come ha spiegato don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea. «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo», ha aggiunto Carola Rackete, la capitana che nella foga di attraccare nonostante le fosse stato negato il diritto allo sbarco andò a sbattere con la sua nave contro una motovedetta della Guardia di finanza. E costoro non si possono definire pirati? Chiamarli tali, perché come diceva il filosofo Giulio Giorello a proposito dei bucanieri, ritengono la loro coscienza «superiore a ogni legge», sarebbe diffamatorio? E quale offesa alla propria reputazione, quale danno, avrebbero patito, di grazia? È evidente che le querele hanno un obiettivo: tappare la bocca a chi esprime un giudizio critico, impedire alla libera stampa di dire quel che pensa e di chiamare le cose con il loro nome.
Da una settimana si discute di giornali comprati e venduti, perché John Elkann ha messo in vendita Repubblica e La Stampa. Ma la minaccia all’articolo 21 della Costituzione non viene da un imprenditore greco o italiano che compra una testata, bensì dal tentativo di imbavagliare chi si oppone, con le inchieste e le notizie, alla strategia dell’immigrazione, arma - come predica don Ferrari - usata per abbattere il sistema capitalistico e patriarcale. Sono certo che di fronte alla sentenza contro Panorama non si leveranno le voci degli indignati speciali. Quelle si alzano solo quando condannano Roberto Saviano a pagare mille euro per aver chiamato bastardi Meloni e Salvini. Visti i risultati, mi conveniva titolare «I nuovi bastardi».
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