2018-11-21
Giorgio Locatelli, Antonino Cannavacciuolo e Bruno Barbieri al photocall di MasterChef (Ansa)
La quindicesima stagione di MasterChef Italia, al via ieri su Sky, conferma la forza di un format immutabile: giudici rodati, prove iconiche e una scrittura autoriale che bilancia tradizione, ritmo e personaggi, rendendo il talent un appuntamento ormai rituale.
Come il Natale, parte di un rituale che, di anno in anno, si ripete identico a se stesso. MasterChef Italia, la cui quindicesima stagione è partita ieri su Sky nella prima serata di giovedì 11 dicembre, è l'usato sicuro, quello che vince. Di più, convince. Senza, per giunta, avere bisogno di colpi di scena. Il talent show, alla cui giuria siederanno, ancora una volta, Bruno Barbieri, Antonino Cannavacciuolo e Giorgio Locatelli, è riuscito nella mirabile impresa di bastare a se stesso, elevando quel che avrebbe potuto essere un triste effetto già-visto a chiave del proprio successo.
Sono i fornelli sempre accesi, le prove sempre uguali, è l'alternarsi di casi umani e talenti ai Casting, l'ansia palpabile di chi, davanti alla triade stellata, non riesce più a proferire parola.
Sono le Mistery Box, i Pressure Test, la Caporetto di Iginio Massari, con i suoi tecnicismi di pasticceria. Sono, ancora, i grembiuli sporchi, le urla, le esterne e i livori fra brigate, la prosopopea di chi crede di meritare la vittoria a rendere MasterChef un appuntamento imperdibile. Tradizionale, per il modo silenzioso che ha di insinuarsi tra l'Immacolata e il Natale, addobbando i salotti come dovrebbe fare l'albero.
MasterChef è fra i pochissimi programmi televisivi cui il tempo non ha tolto, ma dato forza. E il merito, più che dei giudici, bravissimi - loro pure - a rendere vivo lo spettacolo, è della compagine autoriale. Gli autori sono il vanto dello show, perfetti nel bilanciare fra loro gli elementi della narrazione televisiva, come comanderebbe l'algoritmo di Boris. La retorica, che pur c'è, con l'attenzione alla sostenibilità e alla rappresentazione di tutte le minoranze, non ha fagocitato l'impianto scenico. L'imperativo di portare a casa la doggy bag sfuma, perché a prevalere è l'esito delle prove. Il battagliarsi di concorrenti scelti con precisione magistrale e perfetto cerchiobottismo. Ci sono, gli antipatici, quelli messi lì perché devono, perché il politicamente corretto lo impone. Ma, tutto sommato, si perdono, perché accanto hanno chi merita e chi, invece, riesce con la propria goffaggine a strappare una risata sincera. E, intanto, le puntate vanno, queste chiedendo più attenzione alla tradizione, indispensabile per una solida innovazione. Vanno, e poco importa somiglino alle passate. Sono nuovi i concorrenti, nuove le loro alleanze. Pare sempre sincero il divertimento di chi è chiamato a giudicarle, come sincero è il piacere di vedere altri affannarsi in un gesto che, per ciascuno di noi, è vitale e quotidiano, quello del cucinare.
Bene, male, pazienza. L'importante, come ci ha insegnato MasterChef, è farlo con amore e rispetto. E, pure, con un pizzico di arroganza in più, quella dovuta al fatto che la consuetudine televisiva ci abbia reso più istruiti, più pronti, più giudici anche noi del piatto altrui.
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Riduci
(iStock). Nel riquadro, Andrea Furlan e la madre Cristina Calore
Andrea Furlan, impiegato in un supermercato nel Padovano, è paralizzato da quando, 12 anni fa, un rapinatore (mai trovato) gli sparò in testa. La giustizia italiana, prodiga coi malviventi, non gli ha riconosciuto un euro.
Come se non bastassero le tragedie che ti sconvolgono la vita improvvisamente, ecco i tempi della giustizia che sono anch’esse una tragedia ma di quelle che si potrebbero evitare. La vera tragedia, per Andrea Furlan, è avvenuta 12 anni fa nel suo posto di lavoro, il supermercato Prix di Albignasego, in provincia di Padova. È lì che uno dei due banditi, armato, fa partire un colpo di pistola che perfora la testa del ragazzo riducendolo in stato vegetativo. Tragedie che ti sconvolgono la vita e ti domandi: perché? Perché a me? L’altra tragedia - quella che invece si dovrebbe evitare - è ritrovarsi con lo Stato che latita, che non riesce a dare un nome e una fisionomia al killer e che soprattutto si presenta nella veste del temporeggiatore.
Sono 12 anni che Cristina Calore, la mamma di Andrea, attende giustizia e un risarcimento, ma per ora pare non esserci verso. E anche qui ti domandi: perché? Perché a me? Già, perché non si riesce ad avere giustizia? Ti dicono: perché le telecamere presso il supermercato, quel giorno, non funzionavano e quindi diventa difficile. Ma davvero lo Stato non riesce a dare il giusto risarcimento a una vittima? Diventa difficile rispondere e nello stesso tempo confortare quando poi ti informano di casi in cui persino chi attenta alla vita delle persone riesce a ottenere un risarcimento del danno. Lo prevede la legge.
Intanto, in quel pezzo di Italia, sulla legge cala il crepuscolo dei rinvii. Come quello di pochi giorni fa della Corte d’Appello, l’ennesimo, che ha il sapore amaro della beffa. Cristina attende giustizia ma è stanca; come non esserlo quando vedi come hanno ridotto il tuo Andrea; e ripensi che l’ultima cosa che Andrea in salute aveva fatto era stato scendere dallo spogliatoio del supermercato giù al primo piano dove aveva lasciato la bicicletta. Poi… il colpo di pistola diretto alla testa. Una esecuzione criminale. Da lì l’inferno. Per quel ragazzotto che divorava la vita nulla è stato più come prima: non si muove più, non parla più, per qualsiasi attività ha bisogno di un sostegno. Ed è per questo che pensi: se tutto è ingiusto, se del rapinatore e del complice non si è mai saputo nulla, possibile che chi dovrebbe rappresentare il giusto prende tempo? Solo l’Inail ha riconosciuto ad Andrea un assegno di invalidità. Ma l’Inail non rappresenta la giustizia.
Quindi dove sono gli operatori del giusto che riparano i torti? Eccome se te lo domandi: il giudice civile in primo grado ha negato il risarcimento perché il supermercato Prix non deve nulla ad Andrea. Ma come, è lecito domandarsi? «C’erano delle telecamere in quel supermercato, ma non funzionavano», ha commentato mamma Cristina. «Io non credo che i titolari del supermercato abbiano delle colpe, hanno però delle responsabilità ed è mio dovere andare avanti». Già, possibile che un giudice non abbia il coraggio di dire all’assicurazione: «Tocca a te pagare»? O le assicurazioni sono diventate intoccabili? (Domanda retorica).
Fatto sta che la famiglia non si arrende. Né l’avvocato Matteo Mion è un tipo che si accontenta: si va in appello. Già, ma quando? Boh… per ora sembra che la giustizia si sia impastata di quella gomma ciccosa che ci mettiamo in bocca, che s’appiccica ai denti, che si dilata e perde sapore. L’avvocato Mion sta facendo il possibile per anticipare i tempi dell’appello e non si capacita dei tanti rinvii: cosa pensare? Davvero tutto può ridursi a fatalità? Davvero non c’è un buco in questo muro di gomma? Davvero è impossibile pensare a un appiglio che consenta quel risarcimento che diventa il minimo per gestire i risvolti della tragedia? In casa di Andrea tragedia e burocrazia stanno togliendo energie e speranze.
Che si facessero un giro lì, in quella casa dove la vita ha cominciato a girare da un altro verso. Vogliono vedere come si gestisce una persona a cui un criminale ha bucato la testa? Vogliono vedere le due persone che si prendono cura di questo ragazzo che passa dal letto alla carrozzina? Vogliono provare la fatica di prendersi cura di una persona che vive senza vita? Mamma Cristina e il papà di Andrea non hanno problemi a dar prova di quel che per loro è la quotidianità. Delle loro sofferenze e delle paure legate al «dopo di noi».
Eccome se i genitori ci sperano nell’appello, invece altro giro a vuoto, altro rinvio. Altro perché da tre anni non c’è ancora stata nemmeno la prima udienza. «Ci sentiamo presi in giro», ha commentato la madre. «È l’ennesima volta che rinviano l’inizio di un processo. Ci sentiamo raggirati, è come se a un certo punto lo Stato fosse diventato nostro nemico: ogni volta questa data si sposta di sei mesi in avanti, come se davanti a noi ci fosse tutto il tempo del mondo, come se mio figlio potesse aspettare i tempi infiniti».
La burocrazia ha i suoi tempi, il suo traffico da regolare: c’è da comprendere, signora mia. E quante cose debbono comprendere la mamma e il papà di Andrea? Debbono comprendere che il colpevole non si trova ed è già un cazzotto alla bocca dello stomaco. Debbono comprendere la decisione di primo grado del giudice civile. Debbono comprendere che i tribunali sono pieni di cause. Ora dovrebbero pure comprendere che le vittime non sono tutte uguali?
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Riduci
2025-12-12
Dimmi La Verità | Alessandro Da Rold: «Sviluppi dell'inchiesta sull'urbanistica di Milano»
Ecco #DimmiLaVerità del 12 dicembre 2025. Il nostro Alessandro Da Rold ci rivela gli ultimi sviluppi dell'inchiesta sull'urbanistica di Milano e i papabili per il dopo Sala.
Beppe Sala (Ansa)
Sequestrato il cantiere della Torre «Unico-Brera», in via Anfiteatro 7, che prevede appartamenti di lusso. I pm: «Nuova costruzione spacciata per restauro». Ma il Comune aveva ammesso la Scia: 27 indagati.
A Milano, nel cuore di Brera, un’area venduta per 20,9 milioni di euro è diventata un affare capace di sfiorare i 50 milioni di ricavi. Il progetto «Unico-Brera» dei costruttori Carlo Rusconi e Stefano Rusconi si reggeva su permessi comunali concessi come ristrutturazione e non come nuova costruzione. Una classificazione che ha aperto la strada a risparmi sugli oneri, tempi più rapidi e un aumento del margine operativo.
Ieri la Guardia di finanza ha sequestrato i due edifici di via Anfiteatro 7: la torre di 11 piani e il corpo di 4, per 27 appartamenti. Il gip Mattia Fiorentini ha accolto la richiesta dei pm Marina Petruzzella, Paolo Filippini e Mauro Clerici, con l’aggiunto Tiziana Siciliano. Per l’accusa, dietro quella Scia c’era un edificio nuovo. E mancavano perfino le verifiche antincendio. Sono 27 gli indagati per le ipotesi di lottizzazione abusiva, abuso edilizio e falso ideologico, tra progettisti, tecnici comunali, membri della commissione Paesaggio e i costruttori Rusconi.
Brera è uno dei mercati immobiliari più cari d’Italia e le nuove costruzioni possono raggiungere i 10/15.000 euro al metro quadro. «Unico-Brera» poteva valere oltre 42 milioni. Decisivo lo sconto sugli oneri: 800.000 euro pagati con la Scia contro i circa due milioni dovuti per una nuova costruzione.
L’ex vicesindaco Riccardo De Corato ha attaccato il sindaco Giuseppe Sala, chiedendo che si assuma la responsabilità politica di un sistema che continua a produrre «casi disastrosi». La storia del lotto è segnata da continui cambi di rotta. Negli anni Ottanta era destinato a ospitare nove alloggi popolari. Nel 2006 i ruderi settecenteschi vengono demoliti d’urgenza. Nel 2007 e nel 2008 risultano ancora «complessi edilizi con valore storico testimoniale». Nel 2010 passa a Bnp Paribas per 20,9 milioni di euro. Nel 2018 arriva ai Rusconi.
I residenti protestano da anni. Alberto Villa, che vive accanto al cantiere, ha perso i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato e oggi denuncia balconi a pochi metri, una lamiera davanti alle finestre e un appartamento che non riesce più ad affittare. Per il gip la ristrutturazione è solo una formula. La Scia non basta. La natura di nuova costruzione era «talmente ovvia» che nei progetti scompaiono i metri cubi e resta solo la superficie lorda di pavimento. Marco Emilio Maria Cerri, allora nella commissione Paesaggio, aveva spiegato agli inquirenti che «a Milano si usa così». Il gip definisce quella giustificazione uno «stravolgimento del significato letterale», ricordando che il progettista precedente calcolava regolarmente i volumi.
Le intercettazioni aggravano il quadro. Il 26 settembre 2024 Cerri ammette all’architetto Andrea Beretti: «Anche la pratica di Anfiteatro l’ho categorizzata come ristrutturazione». Pochi giorni prima, parlando con Giovanni Oggioni, ex vicepresidente della commissione Paesaggio già arrestato a marzo, teme guai imminenti: «Prima o poi arriverà anche Anfiteatro».
Secondo la Procura, l’area era in zona B2, dove sono ammessi solo restauri e risanamenti conservativi. Le stesse regole sarebbero state confermate nei Pgt 2012 e 2020, ma la Guardia di finanza non le trova più negli uffici comunali e le recupera solo nella Cittadella degli Archivi. Per il gip non esiste buona fede: costruttori, progettisti e tecnici comunali «non erano sprovveduti». Un piano attuativo avrebbe certamente bocciato il progetto. L’avvocato Michele Bencini, legale di Rusconi, ricorda che Tar e Consiglio di Stato nel 2021 e 2022 avevano giudicato regolare il percorso amministrativo e definito «infondata» la lettura urbanistica ora adottata dalla Procura. Annuncia ricorso contro il sequestro.
Il caso di via Anfiteatro si intreccia con quello di viale Papiniano 48. Lì il gip Sonia Mancini ha dissequestrato un cantiere riconoscendo la buona fede dei costruttori e del progettista Mauro Colombo. La Procura ha impugnato il provvedimento. I pm Giovanna Cavalleri e Luisa Baima Bollone sostengono che un imprenditore esperto non possa invocare incertezza delle norme quando trae «vantaggi economici lucrabili». Richiamano la giurisprudenza che impone cautela: in caso di dubbio, i lavori devono fermarsi. Un principio che ritorna anche in via Anfiteatro.
Sullo sfondo, la questione abitativa della città. Mentre operazioni milionarie su aree pubbliche dismesse inseguono la massima rendita, l’edilizia sociale rallenta. Ieri il Consorzio cooperative lavoratori ha presentato il catalogo dei suoi 50 anni: 15.800 abitazioni costruite, 8.041 solo a Milano, 135.000 metri quadrati di spazi pubblici restituiti ai quartieri. Il presidente Alessandro Maggioni ha ricordato che «la cooperazione è un soggetto di mercato con finalità sociali, capace di generare valore e redistribuzione». Poi ha puntato il dito sul presente: 390 alloggi sono pronti, ma fermi in attesa di atti comunali. Un paradosso che pesa.
A Milano chi rispetta le regole frena, chi le piega invece accelera. Almeno finché un cantiere non si ritrova i sigilli della Guardia di finanza.
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