2025-02-04
Quei venti centimetri tra la vita e la morte
Sono a Pokrovsk, in uno dei furgoni che gli «angeli bianchi» usano per recuperare i civili ucraini sotto le bombe. All’improvviso un lampo bianco, il fuoco, le urla e il sangue in viso: ci ha colpito un drone russo. A salvarci qualche albero spoglio (e la fortuna).Venti centimetri per cambiare questo racconto, venti giorni che non tornavano sul fronte di Pokrovsk, venti minuti di terrore da Fpw, come qui chiamano i droni. Stavo scrivendo proprio di questo lo scorso mercoledì, della mancanza di fondi e di antenne anti drone, perché durante tutto il giorno abbiamo documentato il lavoro dei «white angels» un gruppo della polizia di Pokrovsk che si dedica a evacuare e soccorrere i civili in tutta questa zona di fronte.Seduti nella piccola stanzetta al piano terra di un palazzo nel centro che ora usano come hub per le evacuazioni, annotavo di come la blindatura dei loro furgoni sia l’unico scudo contro i droni. Per pranzo avevamo mangiato tra due palazzi dentro quel furgone con cui fanno la spola per portare in salvo gli abitanti che tramite una app Telegram chiedono di essere evacuati. Il fronte sta avanzando, i bombardamenti sulla città si sono intensificati e le persone rimaste mettono le poche cose di valore in due piccole valigie o una, per far spazio al trasportino con dentro il cane o il gatto, e aspettano a casa questi ragazzi e ragazze che viaggiano così esposti per le strade tutto il giorno. La sera erano più o meno le 5 il mezzo su cui viaggiavamo ha forato. Mentre iniziamo a cambiare la gomma si ferma Vassil. La sua auto è piena, stanno tornando in zona sicura e ci intima di entrare, perché c’è un drone sopra le nostre teste: dobbiamo fare veloce. Khristyna si siede dietro, la macchina è piena di zaini, generatori, un’antenna di Starlink e taniche di benzina sfoggia un sorriso a 44 denti e un buon inglese, subito ci mettiamo a parlare, «hai un bel sorriso» e lei: «Grazie, lo sai che sono stata in Italia? I miei genitori lavoravano lì vicino a Napoli. Parlo anche un po’ italiano, qualche parola». Occhi chiari, capelli biondi, piccolina di statura: stretta dentro casco e giubbotto antiproiettile, Khrystyna sembra una ragazzina entusiasta e il suo umore mette allegria. Tornare verso una zona sicura e un letto comodo dopo le giornate al fronte è sempre un momento positivo, così chiacchieriamo ancora, poi la macchina svolta sul viale che esce fuori dalla città. La donna spiega di far parte di questo corpo di soccorritori, «We are the white angels» mi dice. Sono le ultime parole prima dello schianto.Quando il drone Fpv colpisce sul retro, appena sotto il finestrino del bagagliaio, la prima cosa che vedi è un lampo: luce bianca e poi il fuoco con la vampata di calore alle spalle e al collo. Le palpebre si chiudono velocissime e senti i detriti sul viso, riapri gli occhi ma per un istante le tue orecchie non sentono niente ma il tuo naso sì: aspiri l’odore del fumo, della polvere da sparo, ma vedi poco. Poi il cervello compresso dall’onda d’urto si riattiva, riacquisti i sensi ma tutto è ancora ovattato. Senti le urla di Khrystyna che è stata colpita al volto, non sa quanto è grave e avverte tutti. Gli airbag sono tutti saltati, i finestrini sono implosi, degli attacchi sul mio casco non ne resiste uno, la telecamera Gopro vola via spaccando la base, la torcia sulla sinistra del mio casco si stacca nonostante fosse incredibilmente salda. Ti rendi conto che il tuo corpo e la testa con il casco sono stati sbattuti violentemente nell’abitacolo, ti guardi intorno ora per capire cosa sia successo, anche se lo sai dal primo istante. Non sono passati ancora tre secondi dall’esplosione, mi giro verso Khrystyna e vedo il sangue copioso ma non posso fare niente, la macchia sta ancora andando, è difficile muoversi e la priorità è uscire il più in fretta possibile: spesso i droni sono due, a volte tre in volo comune. La macchina è ancora in corsa, la mano ha già aperto la maniglia per essere pronti a uscire, Khrystyna urla, è sotto shock al mio fianco e davanti nessuno si lamenta: vuol dire che nessuno di loro è ferito. Appena l’auto si ferma voliamo fuori, sotto gli alberi spogli. Mai come in quel momento vorresti che fosse estate. Riesco a fare poche fotografie, poi con la coda dell’occhio mi rendo conto che la ragazza è una maschera di sangue a bordo strada da sola, allora lascio la macchina fotografica. Mentre la medico i ragazzi cercano di spegnere l’incendio che si è sviluppato nel bagagliaio dell’auto: è l’unico mezzo con cui scappare, qualcuno urla che c’è un altro drone, entriamo ancora più profondamente nella vegetazione, vedo finalmente cos’ha la ragazza: un buco alla tempia. Ma sono felice. «You are lucky», le dico per tranquillizzarla, nonostante il sangue continui a uscire in quantità. L’auto riparte, le gomme - graziate come tutti noi - funzionano ancora, così come il motore: siamo ammassati ora sui sedili posteriori. Si corre con una portiera aperta perché non c’è spazio per chiuderla, la benda emostatica inizia a fare un leggero effetto sulla ferita e dopo otto minuti siamo in un posto più sicuro. I ragazzi dell’altro gruppo ci raggiungono, trasferiscono la ragazza in ospedale. Noi rimettiamo in ordine cioè che resta delle nostre idee. Ci stringiamo le mani, ci diamo pacche sulle spalle, proviamo a rimettere a posto le cose e realizzare ciò che ci è appena successo. Sono tutti sotto shock. Compreso chi ha potuto scrivere quello che è accaduto.
Eugenia Roccella (Getty Images)
Carlotta Vagnoli (Getty Images)