
Dalle scimmie agli elefanti, il dolore e la ritualità sono simili a quelli umani. E c'è chi non mangia più fino a perdere la vita.Cetacei, elefanti, scimpanzé: alcuni animali manifestano, di fronte alla morte, un dolore e una ritualità che ricordano quelli umani. L'ultimo caso è stato segnalato lo scorso luglio dai ricercatori del Whale Research, il Centro per lo studio e la conservazione delle orche che popolano il Pacifico. Gli studiosi stavano seguendo un'orca che nuotava col suo cucciolo, poi il piccolo all'improvviso è morto e la mamma l'ha spinto per decine di miglia nuotando verso l'isola di San Juan, davanti allo Stato di Washington. Se il cadaverino scivolava sotto la superficie, lei lo recuperava con delicatezza, lo sistemava meglio sulla pinna o sul muso, e solcava altro mare. Così per due giorni. Poi l'ha affidato all'oceano. «Abbiamo visto orche che dopo la morte del loro piccolo a volte non mangiano, non fanno nient'altro che portarselo in giro», ha raccontato Melissa Reggente, 34 anni, biologa specializzata in etologia. «Le abbiamo viste trascinare con sé il corpo fino a quando era quasi decomposto. A volte lo tengono dal peduncolo della coda. Poi c'è un momento in cui la madre lo lascia affondare e se ne va. E gli altri membri del suo gruppo sono nei paraggi, si tengono a distanza senza interagire, la accompagnano».Una sorta di rituale funebre che conferma una volta di più quello che i ricercatori notano da anni. E cioè che alcuni animali si comportano come se soffrissero per la morte dei propri simili, come se avessero il senso del lutto. Già nel 2007 il biologo marino Joan Gonzalvo aveva osservato una femmina di tursiope, una specie di delfino, che spingeva senza posa il suo cucciolo morto nelle acque al largo del Golfo di Arta, in Grecia. Andò avanti così per due giorni, senza mangiare. Anche alle Isole Canarie, nel 2001, Fabian Ritter della Mammal Encounters Education Research ha osservato una madre di steno, o delfino dai denti rugosi, spingere e recuperare il corpo del suo piccolo morto. Non era sola: in certi momenti era scortata da due adulti che nuotavano in sincronia con lei, in altri da un gruppo di almeno 15 delfini che modificava i suoi spostamenti per includere la madre e il cadaverino. Il quinto giorno, quando la mamma cominciò a dare segni di stanchezza, gli individui che le avevano fatto da scorta si unirono a lei sostenendo il piccolo sul loro dorso.Oltre i cetacei, tra le specie che esibiscono comportamenti che rispondono alla definizione del lutto ci sono gli elefanti, che per i loro morti organizzano vere veglie funebri, radunandosi intorno al corpo del compare e toccandolo a turno con la proboscide, gli occhi e le orecchie mogi per il dolore. George Wittemyer, dell'Università del Colorado, ha descritto i rituali compiuti da alcuni pachidermi davanti al cadavere di una matriarca: «Una femmina si è alzata in piedi, dondolandosi sul cadavere. Alcuni hanno sollevato una zampa sopra la sua testa. Altri hanno incrociato le loro zanne con le sue». Joyce Poole, specialista dell'etologia degli elefanti, riferendosi a un'elefantessa che aveva perso il suo piccolo, ha raccontato: «Non potrò mai dimenticare l'espressione degli occhi, della bocca, il portamento delle orecchie, della testa, del corpo. Ogni parte esprimeva dolore». E l'etologa Cynthia Moss, dal Kenya, ha descritto elefanti che accarezzavano le ossa dei parenti defunti.Anche tra le grandi scimmie si osservano i comportamenti sorprendenti. Come nel caso di Dorothy, una femmina di scimpanzé morta nel 2008, all'età di 40 anni, presso il Sanaga-Yong Chimpanzee Rescue Centre, in Camerun. Gli altri membri del gruppo, mentre il suo corpo veniva trasportato verso il luogo di sepoltura, si sono radunati in massa vicino alla rete, abbracciandosi e rimanendo in silenziosa contemplazione dell'amica (cosa piuttosto insolita per questi animali, di norma rumorosi). Dalla Tanzania la primatologa Jane Goodall riferiva invece di Flint, 8 anni, che vegliò per giorni il cadavere di Flo, la mamma di 50 anni, fino a lasciarsi morire. E dallo zoo di Münster commossero il mondo le immagini della gorilla Gana che non accettava la morte del suo cucciolo: per giorni continuò a portarlo con sé come se fosse vivo, ad attaccarlo al seno. Nessuno poteva avvicinarla per portarglielo via.Barbara J. King, un'antropologa che studia cognizione ed emozione negli animali, era convinta che solo gli esseri umani soffrissero per la morte dei loro simili: «Ma negli ultimi anni è emersa una grande quantità di nuove osservazioni, che mi hanno spinto a una sorprendente conclusione: a volte cetacei, grandi scimmie, elefanti e moltissime altre specie, inclusi gli animali d'allevamento e quelli da compagnia, possono, a seconda delle circostanze e delle loro personalità individuali, provare dolore per la morte di un parente o di un amico. Il fatto che una gamma così vasta di specie - alcune delle quali imparentate con l'uomo solo alla lontana - possa lamentare la perdita dei propri cari suggerisce che le radici della nostra capacità di soffrire per un lutto siano davvero profonde». Di tutti i casi di lutto animale registrati dalla King, «il più sorprendente è avvenuto al Farm Sanctuary di Watkins Glen, nello Stato di New York, dove nel 2006 arrivarono tre anatre mulard che soffrivano di lipidosi epatica, una malattia del fegato dovuta alla nutrizione forzata cui erano state sottoposte per la produzione di foie gras. Due dei volatili salvati, Kohl e Harper, erano in cattivo stato. Kohl aveva le zampe deformi e Harper era cieco da un occhio. I due strinsero una forte amicizia, che durò per quattro anni. Quando i dolori alle gambe si intensificarono al punto da non permettergli più di camminare, Kohl fu sottoposto a eutanasia. Harper, a cui fu consentito di guardare la procedura, subito dopo si accovacciò e posò il capo sul collo di Kohl, rimanendo fermo nella stessa posizione per ore. Harper, in realtà, non si riprese più dalla perdita. E due mesi dopo morì pure lui».Anche l'etologo Danilo Mainardi era convinto che gli animali soffrissero per la morte dei loro simili, però, spiegava, a differenza degli esseri umani non hanno coscienza che la stessa sorte capiterà a loro: «In molti animali c'è l'evidente consapevolezza della morte altrui, che spesso dà luogo a sofferenza. Ho visto due giovani gorilla soffrire in modo evidente per la morte del loro padre e capobranco», diceva l'etologo. Tuttavia, «ciò che solo l'uomo riesce a fare è il ragionamento che se un essere uguale a me muore, allora prima o poi toccherà anche a me. Manca, negli animali, la coscienza della propria morte».
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