2021-09-10
Usa al lavoro con gli 007 pakistani su Kabul
Il direttore della Cia, William J. Burns (Getty Images)
Il direttore della Cia ha incontrato il capo dell'esercito di Islamabad. La strategia degli States è cooperare coi «vicini di casa» dei talebani per mantenere un controllo sull'area. L'obiettivo finale è massimizzare le difficoltà dei cinesi con il nuovo governo. Non si arrestano le manovre statunitensi sul dossier afgano. Il direttore della Cia, William J. Burns, ha incontrato ieri il capo dell'esercito pakistano, il generale Qamar Bajwa, per discutere del nuovo regime di Kabul. Il meeting si è svolto nella città di Rawalpindi, alla presenza anche di Faiz Hameed, direttore generale dell'Isi (la principale agenzia d'intelligence del Pakistan). «Sono state discusse questioni di reciproco interesse, la situazione della sicurezza regionale e l'attuale situazione in Afghanistan», si legge in un comunicato stampa. «È stato ribadito che il Pakistan resta impegnato a cooperare con i suoi partner internazionali per la pace nella regione e per garantire un futuro stabile e prospero al popolo afgano», ha aggiunto la nota. Inoltre, secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa turca Anadolu, Burns avrebbe «elogiato il ruolo del Pakistan nella situazione afgana».Questo incontro è non poco significativo. Esso infatti testimonia come - contrariamente a una certa vulgata - Washington abbia tutta l'intenzione di mantenere alta la propria attenzione sul dossier afgano. Del resto, il fatto che gli Stati Uniti cerchino la sponda pakistana evidenzia che, con ogni probabilità, sono interessati a instaurare dei canali sotterranei con alcuni pezzi del variegato fronte talebano: una strategia verosimilmente volta a condurre attività di destabilizzazione in Iran e nello Xinjiang. Non dimentichiamo che storicamente Islamabad risultasse una sostenitrice dei «barbuti». E che, anche ultimamente, i suoi rapporti con questo gruppo non sono affatto stati improntati a una serrata inimicizia. Il Pakistan aveva d'altronde molto da guadagnare dalla caduta del governo di Ashraf Ghani: un governo che, specialmente negli ultimi anni, si era notevolmente avvicinato ad un atavico nemico di Islamabad come l'India. Inoltre, i contatti tra Kabul e i pakistani si stanno intensificando. All'inizio della settimana, il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha riferito che una delegazione pakistana - guidata proprio da Hameed - ha di recente visitato l'Afghanistan, per tenere delle discussioni in materia di cooperazione sulla sicurezza. Sotto questo aspetto, consolidare i rapporti con Islamabad permette a Washington di rompere le uova nel paniere alla stessa Cina. Difatti, negli ultimi tempi, i rapporti tra Pechino e il Pakistan si erano significativamente rafforzati. E non si può neanche escludere del tutto che proprio il Pakistan possa aver agito da mediatore tra i talebani e i cinesi. In tal senso, giocare di sponda con Islamabad permette agli americani di mettere sotto pressione il Dragone. Quel Dragone che ha sì offerto a Kabul 31 milioni di dollari in aiuti e assistenza contro il Covid-19, ma che non deve vedere troppo di buon occhio il nuovo governo afgano: un esecutivo costituito da molti personaggi della vecchia guardia, che non sono certo estranei a rapporti con il Movimento islamico del Turkestan orientale (organizzazione assai temuta da Pechino). Infine, non va neppure trascurato che l'attivismo americano debba essere inquadrato all'interno di una strategia complessiva in vista del G20 di ottobre. Washington non vuole farsi isolare nel consesso a tutto vantaggio del Dragone. È quindi anche in tal senso che punta a irrobustire i propri legami con l'ambiguo Pakistan e, in particolare, con il suo potente servizio segreto.Alla luce di tutto questo, gli attriti consumatisi negli ultimi giorni tra Washington e Kabul vanno considerati nelle loro giuste proporzioni. È vero che il dipartimento di Stato americano ha criticato la composizione del neonato governo talebano. Ed è anche vero che i «barbuti» hanno, dal canto loro, accusato gli americani di violare l'accordo di Doha, perché alcuni dei nuovi ministri risultano ancora inclusi nella blacklist statunitense. Eppure non solo Burns ha incontrato ieri il capo dell'Isi ma - due settimane fa - ha avuto anche un meeting con alti esponenti talebani. Segno dunque che, pur a fronte di indubbi attriti, la situazione è più complessa di come appaia a prima vista. D'altronde, lo abbiamo detto, va sempre ricordato che i talebani non sono un gruppo compatto, bensì diviso al suo stesso interno. Ed è verosimilmente su queste divisioni che gli americani punteranno a fare leva. Contrariamente a Pechino, Washington non ha d'altronde questo grande interesse - adesso - alla stabilizzazione del Paese. Un Paese che, al di là di una leadership spaccata, deve fare i conti con le sigle jihadiste nemiche e, dall'altra parte, con una società civile in subbuglio (ieri, nonostante il divieto del governo e il blocco di Internet in alcune aree di Kabul, si sono registrate non a caso nuove proteste). Ecco che dunque gli americani mirano probabilmente a spingere Pechino nel pantano, sulla base di una strategia che - pur mutatis mutandis - è già stata adottata in passato. Era il luglio 1979, quando l'allora presidente americano, Jimmy Carter, avviò l'operazione Cyclone per finanziare attraverso la Cia i mujaheddin afgani e - come anni dopo rivelato dal suo consigliere per la sicurezza nazionale, Zbigniew Brzezinski - aumentare così la probabilità di un intervento militare sovietico (che si sarebbe verificato alla fine di quello stesso anno). L'obiettivo era infatti far impantanare Mosca. Oggi è chiaro che i cinesi non stiano prevedendo un intervento militare, tuttavia il progressivo coinvolgimento politico ed economico in un Afghanistan instabile rischia di renderli pericolosamente vulnerabili. E di questo Washington è pienamente consapevole.