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2023-09-14
Ursula si fa scudo con la faccia di Draghi e la usa contro Letta
Mario Draghi (Getty Images)
Più che l’ultimo discorso sullo stato dell’Unione, quello di ieri da parte di Ursula von der Leyen è sembrato il primo di un nuovo mandato. Non solo per la speranza che l’ex ministro tedesco palesemente serba di fare il bis, ma anche per le carte che ha calato di fronte ai parlamentari. Il tentativo di tenere uniti i popolari e i socialisti, di strizzare gli occhi ai deputati più vicini a Emmanuel Macron, con l’obiettivo di mantenere gli stessi diktat dell’attuale commissione ma senza quella connotazione politica socialdemocratica che ha contraddistinto la maggioranza Ursula uscente. La carta del mazzo più pesante si chiama però Mario Draghi.
La Von der Leyen ha annunciato a sorpresa la decisione di affidare all’ex premier e presidente della Bce il compito di stilare un report «sul futuro della competitività europea». Il presidente della commissione ha sottolineato che per l’Europa sono tre le sfide fondamentali nel prossimo futuro: lavoro, inflazione e contesto imprenditoriale. Sfide che arrivano «in un momento in cui chiediamo anche all’industria di guidare la transizione pulita. Dobbiamo quindi guardare più avanti e definire come rimanere competitivi mentre lo facciamo. Per questo motivo ho chiesto a Mario Draghi - una delle più grandi menti economiche europee - di preparare un rapporto sul futuro della competitività europea». Perché l’Europa farà «whatever it takes per mantenere il suo vantaggio competitivo». Ovviamente il riferimento è alla celebre frase con cui Draghi ha segnato il mandato in Bce e la sua fama di risolutore. Al di là dei contenuti di questo incarico non si può però non notarne la valenza politica. Una in totale antitesi con il consiglio Ue e con il semestre spagnolo in corso. L’altra, invece, di proiezione verso un’Ursula bis con il sostegno di un commissario tecnico primus inter pares. Appunto Draghi. È altrettanto interessante che il primo aspetto dell’analisi, quello che vede il braccio di ferro tra commissione e singoli Stati rappresentati nel consiglio, passa attraverso due figure italiane. Lo scorso 22 luglio Enrico Letta dopo aver lasciato un Pd smembrato nelle mani di Elly Schlein ha ricevuto dalla presidenza di turno spagnola (a guida socialista) l’incarico di redigere un rapporto «strategico» per rilanciare la competitività del mercato unico.
La notizia era stata diffusa dal quotidiano belga Le Soir in un’intervista allo stesso Letta sulla «delicata missione» conferita. Il giornale sottolineava come, «in un momento di cambiamenti decisivi», sulla scia della Brexit e in vista di un altro possibile allargamento (all’Ucraina), il compito di dare una spinta alla competitività della Ue sia «fondamentale».
Rispondendo alle domande del cronista, l’ex segretario dem, oggi presidente dell’Institut Jacques Delors, ha detto che sta «cercando la formula magica per rilanciare il mercato unico europeo». La mirabolante missione lo vedrà in prima linea con il ministro belga all’Economia, il socialista Pierre-Yves Dermagne (Ps), con l’obiettivo di stendere un rapporto da pubblicare a marzo 2024, poco prima delle elezioni per il rinnovo dell’Europarlamento. Un frangente in cui, avvertiva Letta tramite Le Soir, «ci sarà il rischio che i Paesi di dividano» e invece, «l’unità tra di noi è ciò che è importante, ciò che deve venire prima, molto più che marcare le nostre differenze». Pazienza per la frasi di circostanza in cui probabilmente nemmeno Letta crede. A far drizzare le antenne è il termine «competitività». Pilastro dello studio assegnato sia a Letta sia a Draghi. Non è da escludere che i due lavori saranno presentati in contemporanea. Il peso internazionale di Draghi dovrebbe schiacciare l’avversario. Tant’è che ieri anche la Meloni ha salutato l’incarico come una buona notizia: «Spero che in un ruolo del genere possa avere un occhio di riguardo». In contrapposizione alle critiche rivolte a Gentiloni. Il che ci riporta al secondo corno dell’analisi politica.
L’impressione è che la Von der Leyen puntando sull’asso di mister Bce voglia non solo consolidare il primato della commissione, che negli ultimi mesi è stata penalizzata dalle mosse troppo fuori le righe di Frans Timmermans, ma anche aprirsi le strade a nuove e più larghe alleanze. L’uscita di Manfred Weber di ieri riporta l’asse con i socialisti in linea di marcia. D’altra parte serviranno anche i macroniani, ma soprattutto è chiaro che l’intento di un’Ursula bis è quello di mantenere i binari su cui l’attuale commissione ha messo l’Europa. Cambiando il colore della locomotiva e al massimo qualche vagone. Avere dalla propria l’immagine di Draghi fornirà il vantaggio alla Von der Leyen di diluire il colore socialista che ormai anche agli alleati reca più danni che benefici e al tempo stesso raddoppiare gli sforzi sulla transizione green, sul rinnovamento degli schemi di approvvigionamento energetico e soprattutto sulla riforma del Patto di stabilità. In una recente intervista al Financial Times, Draghi ha spiegato che non si può tornare ai vecchi schemi e che ne servono di nuovi. È certo che il lavoro affidato ieri servirà anche a questo. Difficile che il governo Meloni provi a opporsi alle risultanze, visto i rapporti e lo stesso varrà per i tedeschi. Vedremo Macron che cosa chiederà in cambio. La partita è aperta.
E il povero Letta? Il Pd fuori dai palazzi non serve più a nulla, così devono pensarla a Bruxelles. E il predecessore della Schlein è più che mai oggi sacrificabile, una volta per tutte.
Weber fiuta il vento e si riavvicina ai socialisti
Il leader del Partito popolare europeo, Manfred Weber, ha (o forse aveva) in testa un’idea meravigliosa: diventare il presidente della Commissione europea, prendendo il posto di Ursula von der Leyen, a capo di una maggioranza di centrodestra, con i socialisti all’opposizione e i conservatori di Ecr, il gruppo di cui fa parte Fratelli d’Italia, al loro posto. Il vispo esponente della Csu tedesca si è però reso conto che fare a meno dei socialisti e democratici, dopo le Europee del 2024, sarà comunque molto difficile, e ha invertito la rotta. Risultato: Weber, ieri, dopo aver lavorato per mesi per scalzarla, in aula a Strasburgo ha tessuto le lodi di Ursula e della maggioranza che di lei porta il nome, ringraziando la presidente del gruppo dei Socialisti, Iratxe Garcia Perez, e di Renew Europe, Stephane Sejournè, per la «proficua collaborazione»: «Cara Iratxe, caro Stephane», ha detto Weber, «voglio ringraziarvi per la nostra collaborazione di successo in questi momenti cruciali. Il motore politico dell’Europa funziona. La maggioranza Von der Leyen ha reso tutto questo possibile». Parlando con il Corriere della Sera, Weber si è spinto anche oltre. Ci sarà un cambio di maggioranza nel prossimo parlamento e un’alleanza tra il Ppe e i conservatori dell’Ecr? «Bisogna tenere presente», ha risposto Weber, «che i leader di Spagna e Germania sono socialisti, il presidente francese è liberale e il Ppe è il primo partito in Europa: credo sia ovvio che i tre partiti debbano sedersi insieme e trovare, prima di tutto, un’intesa comune per il futuro dell’Europa». Un riposizionamento repentino, quello di Weber, che non è bastato a evitargli la durissima reprimenda di Iratxe Garcìa Pèrez: «Oggi», ha detto la leader spagnola dei Socialisti e Democratici europei, «l’alleanza tra destra ed estrema destra rappresenta il clamoroso fallimento di un progetto fondato sull’involuzione. Signor Weber, lei ha commesso un errore storico e la storia la ricorderà. Non può invocare questa maggioranza e poi cercare voti inseguendo altre alleanze in quest’aula». All’insegna della cautela, in attesa dei risultati delle elezioni, le valutazioni dei membri italiani di Ecr, esponenti di Fratelli d’Italia: «Presidente Von der Leyen», ha detto il capodelegazione Carlo Fidanza in aula, «abbiamo ascoltato una sorta di manifesto elettorale. In parte condivisibile, in parte no, in parte in estremo ritardo». «La revisione della direttiva sulla qualità dell’aria, approvata oggi a Strasburgo», ha successivamente sottolineato Fidanza insieme all’eurodeputato di Fdi Pietro Fiocchi, «è una bruttissima pagina per l’Italia. Tutti abbiamo a cuore la salute dei cittadini, ma tale direttiva si pone degli obiettivi irraggiungibili». «Ho apprezzato», ha commentato il copresidente del gruppo Ecr al Parlamento europeo Nicola Procaccini, «l’annuncio della Von der Leyen in merito alla conferenza internazionale contro il traffico di esseri umani, ma non basta. È certamente utile discuterne, ma è necessario soprattutto agire in modo risoluto». Ieri sera, ospite di Porta a Porta e Cinque minuti su Rai Uno, il premier Giorgia Meloni ha detto la sua sull’ipotesi di un’alleanza Ecr-Ppe-Socialisti: «Una coalizione con i socialisti in Ue? È molto difficile», ha detto la Meloni, «non l’abbiamo fatta in Italia non vedo perché in Europa. Di solito con la sinistra non sono avvezza a fare accordi. Rivendico con orgoglio quello che abbiamo fatto sul reddito di cittadinanza, se fosse vero che c’è qualcuno che gestisce i soldi del reddito di cittadinanza, cioè la camorra, su questa cosa spero che la magistratura vada fino in fondo. Su Ita Airways e sull’accordo con Lufthansa», ha aggiunto la Meloni, «ci dicono da anni di trovare una soluzione, il governo trova una soluzione dopo anni, quando la troviamo mi aspetto che ci si dica bravi e che tutti quanti si remi nella stessa direzione. Chiediamo che l’Europa ci dia una mano». Su Gentiloni: «Ho visto un approccio più critico che collaborativo», ha detto il premier, «ma non vuol dire che io voglia litigare o discutere con Paolo Gentiloni. La tassa sugli extraprofitti delle banche? Se ci sono correttivi da fare si possono fare ma non intendo fare marcia indietro. Modifiche si possono fare a parità di gettito. I bonus edilizi messi in campo da Conte sono costati ad oggi circa 140 miliardi. Qualcosa deve non aver funzionato».
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La Von der Leyen gli chiede un report sulla competitività: il Consiglio aveva scomodato l’ex Pd. Giorgia Meloni: Mario può aiutarci.Dopo le polemiche, il leader del Ppe Manfred Weber loda gli alleati per il lavoro fatto. Il premier: no ad intese con la sinistra.Lo speciale contiene due articoli.Più che l’ultimo discorso sullo stato dell’Unione, quello di ieri da parte di Ursula von der Leyen è sembrato il primo di un nuovo mandato. Non solo per la speranza che l’ex ministro tedesco palesemente serba di fare il bis, ma anche per le carte che ha calato di fronte ai parlamentari. Il tentativo di tenere uniti i popolari e i socialisti, di strizzare gli occhi ai deputati più vicini a Emmanuel Macron, con l’obiettivo di mantenere gli stessi diktat dell’attuale commissione ma senza quella connotazione politica socialdemocratica che ha contraddistinto la maggioranza Ursula uscente. La carta del mazzo più pesante si chiama però Mario Draghi. La Von der Leyen ha annunciato a sorpresa la decisione di affidare all’ex premier e presidente della Bce il compito di stilare un report «sul futuro della competitività europea». Il presidente della commissione ha sottolineato che per l’Europa sono tre le sfide fondamentali nel prossimo futuro: lavoro, inflazione e contesto imprenditoriale. Sfide che arrivano «in un momento in cui chiediamo anche all’industria di guidare la transizione pulita. Dobbiamo quindi guardare più avanti e definire come rimanere competitivi mentre lo facciamo. Per questo motivo ho chiesto a Mario Draghi - una delle più grandi menti economiche europee - di preparare un rapporto sul futuro della competitività europea». Perché l’Europa farà «whatever it takes per mantenere il suo vantaggio competitivo». Ovviamente il riferimento è alla celebre frase con cui Draghi ha segnato il mandato in Bce e la sua fama di risolutore. Al di là dei contenuti di questo incarico non si può però non notarne la valenza politica. Una in totale antitesi con il consiglio Ue e con il semestre spagnolo in corso. L’altra, invece, di proiezione verso un’Ursula bis con il sostegno di un commissario tecnico primus inter pares. Appunto Draghi. È altrettanto interessante che il primo aspetto dell’analisi, quello che vede il braccio di ferro tra commissione e singoli Stati rappresentati nel consiglio, passa attraverso due figure italiane. Lo scorso 22 luglio Enrico Letta dopo aver lasciato un Pd smembrato nelle mani di Elly Schlein ha ricevuto dalla presidenza di turno spagnola (a guida socialista) l’incarico di redigere un rapporto «strategico» per rilanciare la competitività del mercato unico. La notizia era stata diffusa dal quotidiano belga Le Soir in un’intervista allo stesso Letta sulla «delicata missione» conferita. Il giornale sottolineava come, «in un momento di cambiamenti decisivi», sulla scia della Brexit e in vista di un altro possibile allargamento (all’Ucraina), il compito di dare una spinta alla competitività della Ue sia «fondamentale». Rispondendo alle domande del cronista, l’ex segretario dem, oggi presidente dell’Institut Jacques Delors, ha detto che sta «cercando la formula magica per rilanciare il mercato unico europeo». La mirabolante missione lo vedrà in prima linea con il ministro belga all’Economia, il socialista Pierre-Yves Dermagne (Ps), con l’obiettivo di stendere un rapporto da pubblicare a marzo 2024, poco prima delle elezioni per il rinnovo dell’Europarlamento. Un frangente in cui, avvertiva Letta tramite Le Soir, «ci sarà il rischio che i Paesi di dividano» e invece, «l’unità tra di noi è ciò che è importante, ciò che deve venire prima, molto più che marcare le nostre differenze». Pazienza per la frasi di circostanza in cui probabilmente nemmeno Letta crede. A far drizzare le antenne è il termine «competitività». Pilastro dello studio assegnato sia a Letta sia a Draghi. Non è da escludere che i due lavori saranno presentati in contemporanea. Il peso internazionale di Draghi dovrebbe schiacciare l’avversario. Tant’è che ieri anche la Meloni ha salutato l’incarico come una buona notizia: «Spero che in un ruolo del genere possa avere un occhio di riguardo». In contrapposizione alle critiche rivolte a Gentiloni. Il che ci riporta al secondo corno dell’analisi politica. L’impressione è che la Von der Leyen puntando sull’asso di mister Bce voglia non solo consolidare il primato della commissione, che negli ultimi mesi è stata penalizzata dalle mosse troppo fuori le righe di Frans Timmermans, ma anche aprirsi le strade a nuove e più larghe alleanze. L’uscita di Manfred Weber di ieri riporta l’asse con i socialisti in linea di marcia. D’altra parte serviranno anche i macroniani, ma soprattutto è chiaro che l’intento di un’Ursula bis è quello di mantenere i binari su cui l’attuale commissione ha messo l’Europa. Cambiando il colore della locomotiva e al massimo qualche vagone. Avere dalla propria l’immagine di Draghi fornirà il vantaggio alla Von der Leyen di diluire il colore socialista che ormai anche agli alleati reca più danni che benefici e al tempo stesso raddoppiare gli sforzi sulla transizione green, sul rinnovamento degli schemi di approvvigionamento energetico e soprattutto sulla riforma del Patto di stabilità. In una recente intervista al Financial Times, Draghi ha spiegato che non si può tornare ai vecchi schemi e che ne servono di nuovi. È certo che il lavoro affidato ieri servirà anche a questo. Difficile che il governo Meloni provi a opporsi alle risultanze, visto i rapporti e lo stesso varrà per i tedeschi. Vedremo Macron che cosa chiederà in cambio. La partita è aperta. E il povero Letta? Il Pd fuori dai palazzi non serve più a nulla, così devono pensarla a Bruxelles. E il predecessore della Schlein è più che mai oggi sacrificabile, una volta per tutte.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ursula-scudo-draghi-contro-letta-2665376051.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="weber-fiuta-il-vento-e-si-riavvicina-ai-socialisti" data-post-id="2665376051" data-published-at="1694674616" data-use-pagination="False"> Weber fiuta il vento e si riavvicina ai socialisti Il leader del Partito popolare europeo, Manfred Weber, ha (o forse aveva) in testa un’idea meravigliosa: diventare il presidente della Commissione europea, prendendo il posto di Ursula von der Leyen, a capo di una maggioranza di centrodestra, con i socialisti all’opposizione e i conservatori di Ecr, il gruppo di cui fa parte Fratelli d’Italia, al loro posto. Il vispo esponente della Csu tedesca si è però reso conto che fare a meno dei socialisti e democratici, dopo le Europee del 2024, sarà comunque molto difficile, e ha invertito la rotta. Risultato: Weber, ieri, dopo aver lavorato per mesi per scalzarla, in aula a Strasburgo ha tessuto le lodi di Ursula e della maggioranza che di lei porta il nome, ringraziando la presidente del gruppo dei Socialisti, Iratxe Garcia Perez, e di Renew Europe, Stephane Sejournè, per la «proficua collaborazione»: «Cara Iratxe, caro Stephane», ha detto Weber, «voglio ringraziarvi per la nostra collaborazione di successo in questi momenti cruciali. Il motore politico dell’Europa funziona. La maggioranza Von der Leyen ha reso tutto questo possibile». Parlando con il Corriere della Sera, Weber si è spinto anche oltre. Ci sarà un cambio di maggioranza nel prossimo parlamento e un’alleanza tra il Ppe e i conservatori dell’Ecr? «Bisogna tenere presente», ha risposto Weber, «che i leader di Spagna e Germania sono socialisti, il presidente francese è liberale e il Ppe è il primo partito in Europa: credo sia ovvio che i tre partiti debbano sedersi insieme e trovare, prima di tutto, un’intesa comune per il futuro dell’Europa». Un riposizionamento repentino, quello di Weber, che non è bastato a evitargli la durissima reprimenda di Iratxe Garcìa Pèrez: «Oggi», ha detto la leader spagnola dei Socialisti e Democratici europei, «l’alleanza tra destra ed estrema destra rappresenta il clamoroso fallimento di un progetto fondato sull’involuzione. Signor Weber, lei ha commesso un errore storico e la storia la ricorderà. Non può invocare questa maggioranza e poi cercare voti inseguendo altre alleanze in quest’aula». All’insegna della cautela, in attesa dei risultati delle elezioni, le valutazioni dei membri italiani di Ecr, esponenti di Fratelli d’Italia: «Presidente Von der Leyen», ha detto il capodelegazione Carlo Fidanza in aula, «abbiamo ascoltato una sorta di manifesto elettorale. In parte condivisibile, in parte no, in parte in estremo ritardo». «La revisione della direttiva sulla qualità dell’aria, approvata oggi a Strasburgo», ha successivamente sottolineato Fidanza insieme all’eurodeputato di Fdi Pietro Fiocchi, «è una bruttissima pagina per l’Italia. Tutti abbiamo a cuore la salute dei cittadini, ma tale direttiva si pone degli obiettivi irraggiungibili». «Ho apprezzato», ha commentato il copresidente del gruppo Ecr al Parlamento europeo Nicola Procaccini, «l’annuncio della Von der Leyen in merito alla conferenza internazionale contro il traffico di esseri umani, ma non basta. È certamente utile discuterne, ma è necessario soprattutto agire in modo risoluto». Ieri sera, ospite di Porta a Porta e Cinque minuti su Rai Uno, il premier Giorgia Meloni ha detto la sua sull’ipotesi di un’alleanza Ecr-Ppe-Socialisti: «Una coalizione con i socialisti in Ue? È molto difficile», ha detto la Meloni, «non l’abbiamo fatta in Italia non vedo perché in Europa. Di solito con la sinistra non sono avvezza a fare accordi. Rivendico con orgoglio quello che abbiamo fatto sul reddito di cittadinanza, se fosse vero che c’è qualcuno che gestisce i soldi del reddito di cittadinanza, cioè la camorra, su questa cosa spero che la magistratura vada fino in fondo. Su Ita Airways e sull’accordo con Lufthansa», ha aggiunto la Meloni, «ci dicono da anni di trovare una soluzione, il governo trova una soluzione dopo anni, quando la troviamo mi aspetto che ci si dica bravi e che tutti quanti si remi nella stessa direzione. Chiediamo che l’Europa ci dia una mano». Su Gentiloni: «Ho visto un approccio più critico che collaborativo», ha detto il premier, «ma non vuol dire che io voglia litigare o discutere con Paolo Gentiloni. La tassa sugli extraprofitti delle banche? Se ci sono correttivi da fare si possono fare ma non intendo fare marcia indietro. Modifiche si possono fare a parità di gettito. I bonus edilizi messi in campo da Conte sono costati ad oggi circa 140 miliardi. Qualcosa deve non aver funzionato».
Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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Ecco #DimmiLaVerità del 5 dicembre 2025. Il senatore Gianluca Cantalamessa della Lega commenta il caso dossieraggi e l'intervista della Verità alla pm Anna Gallucci.