2021-06-22
Ursula porta un po’ di soldi e tanti laccioli
Ursula von der Leyen (Ansa)
Oggi il via libera formale della Ue al Recovery plan italiano avverrà a Cinecittà: luogo perfetto di sogni e finzioni. E quello degli «aiuti» europei si candida a essere un film purtroppo già visto. Senza lieto fine. Sappiamo già più o meno ciò che Ursula von der Leyen dirà e farà oggi. Un metaforico bacetto sulla nostra fronte e un buffetto sulla guancia. Siamo stati bravi nei compiti a casa. La valutazione della Commissione Ue del Pnrr italiano vede tutte A, cioè il massimo voto, e una B alla voce «costi», come per gli altri piani approvati finora. La pagella sarà consegnata oggi. Il piano «contribuisce ad affrontare in modo soddisfacente» le raccomandazioni; è «ben allineato», con il 37% di misure indirizzate alla transizione climatica. Al digitale è dedicato il 25% del piano. Arriverà quindi il tanto agognato acconto sulla fiducia di 25 miliardi, pari al 13% del totale degli investimenti programmati da qui al 2026. 191 miliardi e mezzo composti da sussidi per 69 e prestiti per 123. Uno sforzo che richiederà l'approvazione di ben 930 atti normativi fra leggi, decreti-legge, leggi delega, decreti ministeriali e chi più ne ha più ne metta. Per non parlare delle riforme previste. Orizzontali, abilitanti, settoriali e di accompagnamento da svilupparsi su linee verticali, lineari, trasversali e circolari. Perché «i piani nazionali di ripresa e resilienza sono innanzitutto piani di riforma», come è riportato a pagina 43 del nostro Recovery plan. E una miriade di termini inglesi: da «empowerment» a «once-only»; da «cloud-first» a «flagship»; da «big-data» a «soft-skill». Passando per «stakeholder», «backhand», «benchmarking», «outcome-based», «performance», «target», «partnership», «learning», «communities», «track-record». Il tutto per arrivare a percentuali di crescita del Pil potenziale risibili, sempre che nulla vada storto di qui al 2026. Come ha chiosato Giulio Tremonti, «se dopo tutta questa palingenesi pianificatoria te ne esci con un modesto +1,4% vuol dire che il primo a non credere nel piano è il governo stesso. Se la previsione è realistica, allora è il piano è surrealistico». Ma è tutto molto ipotetico. Gli ostacoli che rendono quasi impossibile attingere a quei fondi sono tanti. Lo ha spiegato come meglio non si potrebbe il commissario europeo Paolo Gentiloni in un'intervista al Messaggero lo scorso 3 maggio. Gli ulteriori finanziamenti (prima i sussidi e, una volta esauriti, i prestiti) «arriveranno un paio di volte l'anno: per un Paese come l'Italia parliamo di tranche di una ventina di miliardi circa». Ma «sono legati al raggiungimento di obiettivi previsti nei tempi previsti. Se non vengono realizzati in modo sostanziale e se i tempi vengono disattesi» i soldi non arrivano. Chiaro il concetto? E qualora non lo fosse il commissario è stato ancora più esplicito: «I fondi europei, di norma» restano lì. «Se fai tardi vieni rimproverato ma le risorse non le perdi. Nel caso del Recovery rischi la cancellazione di intere rate di questa enorme provvista finanziaria». La portata di questa operazione targata Ue è inoltre tutt'altro che monumentale, soprattutto se confrontata con quanto fatto dagli Stati Uniti. L'ultimo report del Fondo monetario internazionale mette a confronto le misure di stimolo fiscale approvate dai diversi Paesi. Quelle riferibili alla Unione europea sono praticamente pari al 3,8% del Pil contro il quasi 17% di quelle degli Usa. Con una non trascurabile postilla. Washington ha praticamente già speso tutto, mentre l'Ue deve cominciare ancora a spendere. Lo farà dal 2021 al 2026. I difensori militanti dell'ortodossia europeistica ribattono che il paragone è ingiusto. Quello dell'Ue non è che una parte dell'intervento. Non essendo uno Stato federale bisogna considerare anche gli interventi di stimolo attuati da ciascun Paese a livello nazionale. Difesa apparentemente logica, che però non regge. Per due ordini di ragioni. La prima è che anche considerando le misure anticicliche approvate da ciascun Paese dell'Ue, arriveremmo comunque a un 10-11% del Pil, ben lontani da quanto fatto dagli Usa. Ma soprattutto, seguendo questa logica, il Piano Ue avrebbe alla fine un impatto nullo, e quindi scenderemmo al 6% circa. Il motivo è elementare. Il tanto strombazzato Recovery fund altro non è che un po' di soldi in più nel bilancio dell'Ue 2021-2027. E i soldi dentro questo bilancio ci stanno perché qualcuno ce li ha messi prima. Se si considerano come stimoli fiscali anticiclici i soldi che riceverà il Portogallo (e quindi contabilizzabili col segno più), vanno tolti quelli che metterà l'Olanda (e quindi da contabilizzare col segno meno). Comunque la si rigiri, i conti non tornano mai. Perché i sussidi anti Covid in Alabama non li ha mica materialmente pagati il Texas. La Fed ha stampato i dollari necessari ed è morta lì. Il finale del film è purtroppo già scritto. Perché lo abbiamo già visto in un'altra sala. Il mondo ha vissuto una crisi prima finanziaria e poi economica apparentemente meno severa di quella attuale. Ma in realtà molto più dura e più lunga. Quella del 2008. In quel momento le economie dell'Eurozona e dell'Ue erano rispettivamente pari al 96% e al 111% di quella americana. L'Europa «valeva» quanto gli Usa, per intendersi. A fine 2019 - prima del Covid - queste percentuali erano rispettivamente scese al 62% ed al 73%. L'Europa vale cioè poco più della metà. Il continente somiglia tanto a un pinguino dentro la savana, intendendo per tale l'intero pianeta. Non andrà tutto bene.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)