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2024-11-15
Pronti, via e Ursula è già senza maggioranza
Ursula von der Leyen (Ansa)
Uno stallo pericoloso quello che si sta vivendo in queste ore Bruxelles per l’avvio della nuova Commissione. Uno stallo frutto di veti incrociati e malumori che trovano sfogo sulle nomine dei vicepresidenti ma che nasce da prima dell’ultimo voto europeo.
La maggioranza Ursula, infatti, già scricchiolava sulla fine del primo mandato: già lì i nodi di certe politiche stavano venendo al pettine, malumori mai esplosi e sedati fin qui. La divisione interna si è resa ieri plastica con il voto in Parlamento sulla legge di contrasto alla deforestazione, quando a emergere è stata una maggioranza «Venezuela». Si chiama così da quando, in occasione del riconoscimento di Edmundo González Urrutia come legittimo presidente del Venezuela, il Ppe si trovò a votare con Ecr, Patrioti (il gruppo di Fidesz, Lega, Rassemblement National e Vox) ed Europa delle Nazioni Sovrane (Alternative fur Deutschland). Ieri è accaduto di nuovo, ma per la prima volta su un testo legislativo: la maggioranza formata da Ppe socialisti, liberali e verdi non ha retto, nel momento più delicato in cui poteva accadere.
Sì, perché sono ore di tensione per via del braccio di ferro che si sta consumando tra socialisti e popolari, non solo per nomina di Raffaele Fitto, il designato vicepresidente italiano e conservatore, ma anche, inaspettatamente, sul il nome di Teresa Ribera. I mal di pancia per la nomina della socialista spagnola nascono da dissidenti interni a Madrid. Ribera, vicepremier e ministro per la Transizione, è fortemente contestata perché ritenuta responsabile del mancato allarme in occasione dell’alluvione che a Valencia ha ucciso centinaia di persone. Per questo i popolari spagnoli chiedono che ne dia conto e che lo faccia al Congresso spagnolo. È prevista un’audizione per il 20 novembre e lì, allora, lo stallo potrebbe cadere. C’è dell’altro, però.
Sembra che Ribera non piaccia agli industriali spagnoli, ma non solo. È accusata di attuare politiche green troppo radicali, che danneggiano la produttività. Anche per questo si spiegherebbe l’audizione molto cauta del 12 novembre, quando è sembrata intenzionata a lasciare più libero arbitrio sulla transizione di quanto sostenuto fino a quel momento. Ad ogni modo il nervosismo intorno alla socialista ha contribuito a tirar fuori rigurgiti di conflitti che sembravano superati. Sul nome di Fitto, infatti, sembrava si fosse trovata la quadra. Oggi, però, viene usato come leva da S&D e dai verdi che, infatti, hanno sfruttato il voto sulla deforestazione come un test politico al fine del via libera alla Commissione Von der Leyen 2.
Si vocifera anche di una possibile candidatura di Ursula von der Leyen come cancelliere per le prossime elezioni tedesche, con una Cdu che, stando ai sondaggi, doppierebbe i socialisti di Olaf Scholz. Insomma dinamiche interne che si ripercuotono ai danni della Commissione.
In Italia il Pd, che rappresenta il gruppo più numeroso all’interno di S&D a Strasburgo, sembra subire la situazione. Rivendicando persino la richiesta di far cadere la vicepresidenza di Fitto, a danno degli interessi dell’Italia intera. Fitto nel frattempo ha ricevuto la benedizione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ieri lo ha ricevuto al Quirinale e, sostanzialmente, lo ha blindato per il suo nuovo incarico in Europa. Nel corso del colloquio gli ha esternato gli auguri per l’affidamento dell’incarico definendolo «così importante per l’Italia».
La nota sembra essere un messaggio ai dem: è il momento di abbozzare e chiudere la partita. Il segretario Elly Schlein non ha proferito parola fin qui, ma è chiaro che il Pd a Strasburgo avrebbe i numeri per fare la differenza. «Da giorni chiedo alla segretaria del Pd di dire quale sia la posizione ufficiale del Pd» su Raffaele Fitto «e non riesco ad avere una risposta» ,ribatte Giorgia Meloni. «Dice “Non devo rispondere alla Meloni“. Non deve rispondere a me ma ai cittadini italiani, le persone serie fanno così».
Il vicepremier Antonio Tajani, che è anche vicepresidente del Partito popolare dal 2002, dice: «Basta capricci. Credo che si debba lavorare nell’interesse dell’Europa, abbiamo di fronte un nuovo vertice degli Stati Uniti, anche l’Europa deve rinnovare il proprio, non si può perdere tempo per capricci di questo o quel partito. Fitto ha le carte in regola per fare il commissario e il vicepresidente esecutivo, lo hanno riconosciuto tutti, quindi credo sia giusto andare avanti per poterlo avere operativo, insieme a tutta la Commissione, quanto prima».
Per il vicepremier Matteo Salvini, «se l’Europa perde altro tempo bisogna ripensare tutto quanto. La Lega, col gruppo dei Patrioti, è il terzo gruppo all’Europarlamento e voteremo quello che serve all’Italia. Spero che Fitto diventi commissario. Lui e qualche altro commissario sono persone valide e in gamba, conto che non vengano travolti dallo scontro politico».
Il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, predica calma e gesso. «Si voterà sulla prossima Commissione il 27 novembre. C’è ancora tempo. Il Parlamento è pienamente impegnato a garantire l’insediamento della nuova Commissione. Questa è la nostra responsabilità e la prendiamo molto sul serio. Soprattutto quando guardiamo cosa sta succedendo nel mondo», ha detto in Aula. «I primi mesi di ogni nuova legislatura sono sempre difficili», ha continuato, «l’importante è lavorare insieme. Abbiamo bisogno di stabilità in tempi di cambiamento».
Satelliti e analisi del Dna sul legno con sanzioni fino al 4% del fatturato
Il Parlamento europeo, nella giornata di ieri, ha approvato il rinvio dell’applicazione del nuovo regolamento sulla deforestazione. La proroga è passata in Aula con 371 voti favorevoli, 240 contrari e 30 astensioni. Si tratta di una normativa che, secondo gli intenti della Commissione europea, «mira a garantire che i prodotti venduti in Ue non provengano da terreni disboscati». La data per l’entrata in vigore della legge avrebbe dovuto essere il 30 dicembre 2024. Tuttavia, «in risposta alle preoccupazioni espresse dai Paesi dell’Ue, da Paesi terzi, da commercianti e da operatori sull’impossibilità di rispettare pienamente le norme» entro la fine del 2024, l’Europarlamento ha deciso di rinviare tutto di un anno: per quanto riguarda i grandi operatori, il regolamento sarà applicato a partire dal 30 dicembre 2025, mentre per le piccole imprese la legge entrerà in vigore il 30 giugno 2026.
Adottato il 19 aprile 2023 e pubblicato il 9 giugno dello stesso anno in Gazzetta ufficiale, il regolamento Ue sulla deforestazione abroga e sostituisce la legge del 2010, il cosiddetto «regolamento Legno», ponendosi come obiettivo quello di «contrastare i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità» imponendo alle imprese di «garantire che i prodotti venduti nell’Ue non siano all’origine di deforestazione». Nel concreto, la legge prevede che «le aziende potranno vendere nell’Ue solo i prodotti il cui fornitore abbia rilasciato una dichiarazione di “diligenza dovuta” (due diligence in inglese) che attesti che il prodotto non proviene da terreni deforestati e non ha contribuito al degrado di foreste dopo il 31 dicembre 2020». Le imprese, inoltre, «dovranno verificare che tali prodotti siano conformi alla legislazione pertinente del Paese di produzione, anche in materia di diritti umani, e che i diritti delle popolazioni indigene interessate siano stati rispettati».
Il regolamento riguarda diversi prodotti, tra cui rientrano capi di bestiame, cacao, caffè, olio di palma, soia, legno e loro derivati (come per esempio cuoio, cioccolato, mobili ecc.), nonché gomma, carbone e prodotti di carta stampata. Nel testo approvato nel 2023, inoltre, è stata ampliata la definizione di «degrado forestale» che, adesso, include «la conversione delle foreste primarie o rigenerate naturalmente in piantagioni forestali o in altri terreni boschivi».
Per quanto riguarda le aree interessate dalla deforestazione da cui provengono questi prodotti, la Commissione Ue aveva classificato i Paesi «come a basso rischio, rischio standard o alto rischio». Più basso è il rischio e più le procedure di diligenza dovuta sono semplificate e viceversa. Per controllare che tutto sia a norma, Bruxelles ha preteso di «avere accesso alle informazioni fornite dalle società, come ad esempio le coordinate di geolocalizzazione», a cui si aggiunge l’uso di «strumenti di monitoraggio via satellite e analisi del Dna per verificare la provenienza dei prodotti». In caso di violazioni, è prevista «un’ammenda massima pari ad almeno il 4% del fatturato annuo totale nell’Ue dell’operatore o commerciante».
Oltre al rinvio dell’entrata in vigore del regolamento, il Parlamento europeo ha approvato alcuni emendamenti alla normativa. Tra questi, figura anche l’introduzione di una quarta categoria per classificare le nazioni di provenienza dei prodotti. Accanto a Paesi ad alto, medio e basso rischio, adesso ci sono pure quelli «senza rischio» che, quindi, «sarebbero soggetti a requisiti significativamente meno rigorosi». Sempre secondo il testo emendato e approvato ieri, la Commissione si è impegnata a «mettere a punto un sistema di analisi comparativa per Paese entro il 30 giugno 2025». Adesso il testo dovrà essere negoziato con il Consiglio Ue: è l’ultimo passaggio formale prima che la normativa possa entrare definitivamente in vigore.
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Il Ppe vota con Ecr, Patrioti e Afd il rinvio del legge sulla deforestazione. Tensioni con socialisti, liberali e verdi sui veti incrociati a Teresa Ribera e Raffaele Fitto (blindato, però, da Sergio Mattarella) vicepresidenti. Voto in Aula il 27 novembre. Giorgia Meloni: «Ma che posizione ha il Pd?».Satelliti e analisi del Dna sul legno con sanzioni fino al 4% del fatturato. Cosa dice il testo dello scontro: divieti e obblighi sulle importazioni slittano fino al 2026.Lo speciale contiene due articoli.Uno stallo pericoloso quello che si sta vivendo in queste ore Bruxelles per l’avvio della nuova Commissione. Uno stallo frutto di veti incrociati e malumori che trovano sfogo sulle nomine dei vicepresidenti ma che nasce da prima dell’ultimo voto europeo.La maggioranza Ursula, infatti, già scricchiolava sulla fine del primo mandato: già lì i nodi di certe politiche stavano venendo al pettine, malumori mai esplosi e sedati fin qui. La divisione interna si è resa ieri plastica con il voto in Parlamento sulla legge di contrasto alla deforestazione, quando a emergere è stata una maggioranza «Venezuela». Si chiama così da quando, in occasione del riconoscimento di Edmundo González Urrutia come legittimo presidente del Venezuela, il Ppe si trovò a votare con Ecr, Patrioti (il gruppo di Fidesz, Lega, Rassemblement National e Vox) ed Europa delle Nazioni Sovrane (Alternative fur Deutschland). Ieri è accaduto di nuovo, ma per la prima volta su un testo legislativo: la maggioranza formata da Ppe socialisti, liberali e verdi non ha retto, nel momento più delicato in cui poteva accadere. Sì, perché sono ore di tensione per via del braccio di ferro che si sta consumando tra socialisti e popolari, non solo per nomina di Raffaele Fitto, il designato vicepresidente italiano e conservatore, ma anche, inaspettatamente, sul il nome di Teresa Ribera. I mal di pancia per la nomina della socialista spagnola nascono da dissidenti interni a Madrid. Ribera, vicepremier e ministro per la Transizione, è fortemente contestata perché ritenuta responsabile del mancato allarme in occasione dell’alluvione che a Valencia ha ucciso centinaia di persone. Per questo i popolari spagnoli chiedono che ne dia conto e che lo faccia al Congresso spagnolo. È prevista un’audizione per il 20 novembre e lì, allora, lo stallo potrebbe cadere. C’è dell’altro, però. Sembra che Ribera non piaccia agli industriali spagnoli, ma non solo. È accusata di attuare politiche green troppo radicali, che danneggiano la produttività. Anche per questo si spiegherebbe l’audizione molto cauta del 12 novembre, quando è sembrata intenzionata a lasciare più libero arbitrio sulla transizione di quanto sostenuto fino a quel momento. Ad ogni modo il nervosismo intorno alla socialista ha contribuito a tirar fuori rigurgiti di conflitti che sembravano superati. Sul nome di Fitto, infatti, sembrava si fosse trovata la quadra. Oggi, però, viene usato come leva da S&D e dai verdi che, infatti, hanno sfruttato il voto sulla deforestazione come un test politico al fine del via libera alla Commissione Von der Leyen 2.Si vocifera anche di una possibile candidatura di Ursula von der Leyen come cancelliere per le prossime elezioni tedesche, con una Cdu che, stando ai sondaggi, doppierebbe i socialisti di Olaf Scholz. Insomma dinamiche interne che si ripercuotono ai danni della Commissione.In Italia il Pd, che rappresenta il gruppo più numeroso all’interno di S&D a Strasburgo, sembra subire la situazione. Rivendicando persino la richiesta di far cadere la vicepresidenza di Fitto, a danno degli interessi dell’Italia intera. Fitto nel frattempo ha ricevuto la benedizione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ieri lo ha ricevuto al Quirinale e, sostanzialmente, lo ha blindato per il suo nuovo incarico in Europa. Nel corso del colloquio gli ha esternato gli auguri per l’affidamento dell’incarico definendolo «così importante per l’Italia».La nota sembra essere un messaggio ai dem: è il momento di abbozzare e chiudere la partita. Il segretario Elly Schlein non ha proferito parola fin qui, ma è chiaro che il Pd a Strasburgo avrebbe i numeri per fare la differenza. «Da giorni chiedo alla segretaria del Pd di dire quale sia la posizione ufficiale del Pd» su Raffaele Fitto «e non riesco ad avere una risposta» ,ribatte Giorgia Meloni. «Dice “Non devo rispondere alla Meloni“. Non deve rispondere a me ma ai cittadini italiani, le persone serie fanno così».Il vicepremier Antonio Tajani, che è anche vicepresidente del Partito popolare dal 2002, dice: «Basta capricci. Credo che si debba lavorare nell’interesse dell’Europa, abbiamo di fronte un nuovo vertice degli Stati Uniti, anche l’Europa deve rinnovare il proprio, non si può perdere tempo per capricci di questo o quel partito. Fitto ha le carte in regola per fare il commissario e il vicepresidente esecutivo, lo hanno riconosciuto tutti, quindi credo sia giusto andare avanti per poterlo avere operativo, insieme a tutta la Commissione, quanto prima».Per il vicepremier Matteo Salvini, «se l’Europa perde altro tempo bisogna ripensare tutto quanto. La Lega, col gruppo dei Patrioti, è il terzo gruppo all’Europarlamento e voteremo quello che serve all’Italia. Spero che Fitto diventi commissario. Lui e qualche altro commissario sono persone valide e in gamba, conto che non vengano travolti dallo scontro politico».Il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, predica calma e gesso. «Si voterà sulla prossima Commissione il 27 novembre. C’è ancora tempo. Il Parlamento è pienamente impegnato a garantire l’insediamento della nuova Commissione. Questa è la nostra responsabilità e la prendiamo molto sul serio. Soprattutto quando guardiamo cosa sta succedendo nel mondo», ha detto in Aula. «I primi mesi di ogni nuova legislatura sono sempre difficili», ha continuato, «l’importante è lavorare insieme. Abbiamo bisogno di stabilità in tempi di cambiamento».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ursula-gia-senza-maggioranza-2669885379.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="satelliti-e-analisi-del-dna-sul-legno-con-sanzioni-fino-al-4-del-fatturato" data-post-id="2669885379" data-published-at="1731678591" data-use-pagination="False"> Satelliti e analisi del Dna sul legno con sanzioni fino al 4% del fatturato Il Parlamento europeo, nella giornata di ieri, ha approvato il rinvio dell’applicazione del nuovo regolamento sulla deforestazione. La proroga è passata in Aula con 371 voti favorevoli, 240 contrari e 30 astensioni. Si tratta di una normativa che, secondo gli intenti della Commissione europea, «mira a garantire che i prodotti venduti in Ue non provengano da terreni disboscati». La data per l’entrata in vigore della legge avrebbe dovuto essere il 30 dicembre 2024. Tuttavia, «in risposta alle preoccupazioni espresse dai Paesi dell’Ue, da Paesi terzi, da commercianti e da operatori sull’impossibilità di rispettare pienamente le norme» entro la fine del 2024, l’Europarlamento ha deciso di rinviare tutto di un anno: per quanto riguarda i grandi operatori, il regolamento sarà applicato a partire dal 30 dicembre 2025, mentre per le piccole imprese la legge entrerà in vigore il 30 giugno 2026. Adottato il 19 aprile 2023 e pubblicato il 9 giugno dello stesso anno in Gazzetta ufficiale, il regolamento Ue sulla deforestazione abroga e sostituisce la legge del 2010, il cosiddetto «regolamento Legno», ponendosi come obiettivo quello di «contrastare i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità» imponendo alle imprese di «garantire che i prodotti venduti nell’Ue non siano all’origine di deforestazione». Nel concreto, la legge prevede che «le aziende potranno vendere nell’Ue solo i prodotti il cui fornitore abbia rilasciato una dichiarazione di “diligenza dovuta” (due diligence in inglese) che attesti che il prodotto non proviene da terreni deforestati e non ha contribuito al degrado di foreste dopo il 31 dicembre 2020». Le imprese, inoltre, «dovranno verificare che tali prodotti siano conformi alla legislazione pertinente del Paese di produzione, anche in materia di diritti umani, e che i diritti delle popolazioni indigene interessate siano stati rispettati». Il regolamento riguarda diversi prodotti, tra cui rientrano capi di bestiame, cacao, caffè, olio di palma, soia, legno e loro derivati (come per esempio cuoio, cioccolato, mobili ecc.), nonché gomma, carbone e prodotti di carta stampata. Nel testo approvato nel 2023, inoltre, è stata ampliata la definizione di «degrado forestale» che, adesso, include «la conversione delle foreste primarie o rigenerate naturalmente in piantagioni forestali o in altri terreni boschivi». Per quanto riguarda le aree interessate dalla deforestazione da cui provengono questi prodotti, la Commissione Ue aveva classificato i Paesi «come a basso rischio, rischio standard o alto rischio». Più basso è il rischio e più le procedure di diligenza dovuta sono semplificate e viceversa. Per controllare che tutto sia a norma, Bruxelles ha preteso di «avere accesso alle informazioni fornite dalle società, come ad esempio le coordinate di geolocalizzazione», a cui si aggiunge l’uso di «strumenti di monitoraggio via satellite e analisi del Dna per verificare la provenienza dei prodotti». In caso di violazioni, è prevista «un’ammenda massima pari ad almeno il 4% del fatturato annuo totale nell’Ue dell’operatore o commerciante». Oltre al rinvio dell’entrata in vigore del regolamento, il Parlamento europeo ha approvato alcuni emendamenti alla normativa. Tra questi, figura anche l’introduzione di una quarta categoria per classificare le nazioni di provenienza dei prodotti. Accanto a Paesi ad alto, medio e basso rischio, adesso ci sono pure quelli «senza rischio» che, quindi, «sarebbero soggetti a requisiti significativamente meno rigorosi». Sempre secondo il testo emendato e approvato ieri, la Commissione si è impegnata a «mettere a punto un sistema di analisi comparativa per Paese entro il 30 giugno 2025». Adesso il testo dovrà essere negoziato con il Consiglio Ue: è l’ultimo passaggio formale prima che la normativa possa entrare definitivamente in vigore.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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