Dalla crociata verde a export e chip: Ursula costretta a rinnegare sé stessa

L’annuncio Ue-Usa del 21 agosto - un framework agreement da tradurre in atti - segna un punto di non ritorno per l’Unione europea. L’Ue a guida Ursula von der Leyen è costretta ad ammettere che le sue pretese di campare di export trainato dalla domanda americana e di regolare l’universo si arrestano davanti alla costa atlantica degli Stati Uniti. Il testo lo dice chiaramente: Bruxelles «riconosce» le preoccupazioni di Washington sullo squilibrio commerciale e accetta di «risolvere» gli sbilanciamenti. È la fine dell’Europa maestrina che educa il mondo dall’alto dei propri regolamenti e delle proprie partite correnti.
La sostanza dell’intesa è asimmetrica. Nel testo si legge che l’Ue «intende eliminare» i dazi su tutti i beni industriali statunitensi e concedere accesso preferenziale a un ampio paniere agro-alimentare Usa. In cambio, Washington applicherà la clausola Wto della nazione più favorita o comunque un tetto del 15% su molte voci. Gli Usa abbasseranno i dazi su auto e componentistica (ora al 27,5%) solo quando l’Ue avrà modificato la propria legislazione. In pratica, l’Europa azzera e gli Stati Uniti plafonano. Nel capitolo auto arriva anche la «mutua accettazione» degli standard, cioè la rimozione delle barriere non tariffarie che Bruxelles ha eretto.
La sciabolata più profonda colpisce il cuore verde della costruzione europea. Sulla deforestazione l’Ue assegna in partenza un rischio trascurabile per i prodotti Usa e si impegna a evitare impatti del regolamento sulle esportazioni americane. Sul Cbam, dopo l’aumento della soglia de minimis, Bruxelles promette ulteriori flessibilità nell’attuazione, alla luce delle lagnanze degli esportatori Usa. Csrd e Csddd: l’Ue si impegna a garantire che le due direttive europee sulla responsabilità delle imprese non diventino restrizioni al commercio transatlantico. Dunque, tre pilastri del green europeo vanno in soffitta quando toccano l’interesse americano.
Sull’energia l’Ue intende approvvigionarsi di Lng, petrolio e distillati/raffinati dagli Usa per 750 miliardi di dollari in tre anni. Come potrà farlo, visto che oggi ne acquista circa 80-90 all’anno, è un mistero. Così come non si sa come Bruxelles possa imporre alle compagnie di acquistare prodotti americani se il prezzo di qualcun altro fosse più basso.
L’impegno di acquisire almeno 40 miliardi di chip Ia statunitensi mette in naftalina il tanto strombazzato Chips act, che dovrebbe creare una filiera europea. Per non parlare degli acquisti di armamenti.
Pare che siano gli Stati Uniti a fare politica industriale, più che Bruxelles. E l’Europa dovrà fornire molta domanda per i beni americani.
I problemi che l’accordo solleva sono almeno tre. Primo: la coerenza. Se il Green deal è principio universale, irrinunciabile veicolo di salvezza del pianeta, perché si archivia per Washington?
Secondo: la reciprocità. L’Ue cancella i dazi, ma gli Usa fissano un tetto: è diverso.
Terzo: le finalità. Bruxelles ha passato anni a fare la lezione agli altri, ma ora (punto 8 della dichiarazione congiunta) si impegna a un mutuo riconoscimento degli standard automobilistici con un Paese che ha cancellato obblighi e incentivi all’auto elettrica. Come saranno questi standard? Che fine farà il divieto di motore a combustione interna al 2035?
A Bruxelles si invoca il pragmatismo. «In fondo ci è andata bene, poteva andare peggio» è la canzone di Ursula von der Leyen. Sarebbe più onesto ammettere la sconfitta. Al confronto diretto con gli Usa, il paradigma unionale del surplus commerciale, dell’austerità dei consumi e della regolazione come potenza creatrice si è sgretolato come una statua di fango.
L’approccio negoziale di Donald Trump è stato sottovalutato, relegato all’ambito teatrale delle follie dell’imperatore. L’accordo fa piazza pulita di quei punti programmatici su cui l’Unione ha puntato tutto il suo capitale politico. Bruxelles deve riconoscere di essere un mercato aggredibile e non un’area protetta che campa di domanda altrui.






