
Il capo di Iv, seppur nel suo interesse, ha sollevato una vera questione politica. Staccando la spina, il Pd compirebbe un atto di buon senso in extremis: serve un esecutivo che «scongeli» il Paese.L'abbiamo sentito dire troppe volte, come uno sfibrante mantra: non è il momento. Mentre la gente si chiede come e quando potrà vaccinarsi; si chiede quanti mesi ancora dovrà ballare sull'arcobaleno del rosso arancione e giallo; si chiede che succederà quando finirà (perché prima o poi finirà) la cassa integrazione; si chiede se fra pochi giorni (solo pochi giorni!), la scuola riaprirà davvero e, magari, dove siano finiti a banchi a rotelle che dovevano salvare il mondo; si chiede se ci sarà mai una risposta seria a tutto questo; ha smesso di prendere per buona la giustificazione che, in fondo, anche negli altri Paesi non se la passano meglio che da noi, dove fra l'altro si muore di più, ma solo perché siamo più vecchi (cit. presidente del Consiglio). Ebbene, andare avanti dicendo che non è il momento per una crisi di governo, significa continuare a camminare verso un precipizio ignorando gli avvertimenti di chi cerca di fermarsi in tempo. Il Paese reale ha cominciato a domandarsi perché la situazione non migliora e ha smesso di credere che sia tutta colpa nostra, di noi italiani, e della nostra scarsa disciplina alle regole. Ha cominciato a svegliarsi dopo aver ingerito a forza, per mesi, i calmanti somministrati dal premier «il modello siamo noi». Con la scusa che «non è il momento», siamo scivolati in un regime. Nel quale è vietato fare domande, dove l'informazione è preconfezionata da Palazzo Chigi, dove le veline da Minculpop sono un sistema di pressione e di ricatto giornalistico verso il quale nessuno ha più il coraggio di fiatare. A cominciare, si è visto, dal presidente dell'Ordine di questa categoria che tutti noi dovrebbe rappresentare (e tutelare). Magari non sarà il momento, ma ci sarà pure un momento per fermarsi e gridare che non vogliamo essere inghiottiti nel baratro. Se non ora, quando? Perfino i giornali istituzionali, sia pure ancora sommessamente, secondo i modi felpati e un po' appiccicosi ai quali siamo abituati, insinuano che così non si può più andare avanti. Ma il segnale più forte lo si avverte per strada, laddove almeno è stato possibile sfuggire alla reclusione casalinga. La gente comune sta cominciando a dire basta, perché «andrà tutto bene» è un'offesa all'intelligenza di chi s'è accorto che non sta andando così. Il primo a rendersi conto che il pifferaio con la pochette si ostina a leggere lo stesso spartito con le note ormai saltate dal pentagramma, il primo a capire come anche il cittadino che fino ad ora era caduto nella trappola si stia piano piano risvegliando dall'inebetimento collettivo, è stato l'uomo al quale si può contestare tutto, ma non la capacità di intuire prima degli altri come stia cambiando la percezione popolare. (almeno finché non riguarda la sua persona). Matteo Renzi sta mettendo alle corde Giuseppe Conte, certamente per un calcolo politico, ma interpretando il rovesciamento del consenso verso la classe dirigente che ci ha condotto fin qui. Detto in modi molto spicci, il senso è che rischiamo di perdere tutto: salute e soldi. Le finte rassicurazioni non bastano, le conferenze stampa di plastica a reti unificate sono state smascherate da una realtà che è ben diversa da come si vuol far apparire. Perfino il gregge della sinistra, che ha protetto l'incapacità di un governo costruito sulle sgocciolature del vaffa, un po' per vocazione sovietica e un po' per paura di perdere lo strapuntino del potere conquistato senza meriti elettorali, ha iniziato a incrinarsi. In un sussulto di credibilità verso il suo popolo, che ancorché assottigliato ha pur sempre una sua consistenza, il Pd avrebbe la possibilità di un risveglio prima del baratro. L'ultima possibilità, per il bene di tutti. Approfittando del fatto che la testa avanti l'ha già messa Renzi, che se non fosse per le sue innumerevoli giravolte bisognerebbe dirgli «bravo» e andargli dietro. Mettendo da parte anche lo spauracchio leghista sul quale è nato il governo giallorosso. Perché la crisi non è una parola velenosa che ci porterebbe all'inferno attraverso chissà quali atroci contorcimenti, magari ricollocando Salvini sul trono, perché poi è lui il lupo brandito per spaventare gli agnelli più ingenui. Questo ce lo vuol far credere una certa retroguardia giallorossa alla quale preme più la salvezza particolare che il baratro collettivo. Sono i «vantaggi di parte», per evocare un passaggio super citato del discorso di fine anno del presidente della Repubblica. Difetti che sono sempre in agguato nel nostro sistema politico, che tutti riconoscono ma li addossano, beninteso, alla bottega degli altri. La crisi non è una parolaccia che ci porterebbe alle elezioni, ché sarebbero troppo difficili da gestire ora, ma servirebbe a dare all'Italia un altro governo - che sia di coalizione, a guida Pd, con o senza Mario Draghi - purché vero e affidabile, capace di pilotare il Paese in un porto più sicuro. Ma sì, seguendo la rotta indicata dal vituperato Renzi (chi è causa del suo mal pianga sé stesso…), per un piano vero di spesa del Recovery fund, per un'organizzazione seria della distribuzione dei vaccini, per una ripresa graduale delle attività congelate, a cominciare da quella della scuola. È necessario fare qualcosa. E farla subito.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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