2019-08-21
Ultima offerta Lega. Ma l’obiettivo è votare
Il leader al M5s: «Per taglio dei parlamentari e finanziaria, ci siamo. Dopodiché si vada alle urne» (e ritira la mozione di sfiducia). L'alternativa è l'inciucio: «Volete governare con Renzi, la Boschi e Lotti? Tanti auguri». A Giuseppe Conte: «Mi ha offeso, come Saviano».Pericoloso, autoritario, usurpatore, incosciente, inefficace. Matteo Salvini incassa il campionario di epiteti che il premier cadente Giuseppe Conte gli riserva in 55 minuti, poi lo gela con la battuta del giorno, efficace perché spontanea, che nessun foglietto potrebbe ospitare: «Mi spiace essere stato malsopportato per un anno. Per dirmelo così bastava un Saviano di turno, un Travaglio, un Renzi. Non il presidente del Consiglio». E anche Luigi Di Maio, impassibile come una sfinge per il resto del pomeriggio, sorride. Nella frase c'è il retrogusto malinconico dell'amante tradito, che se n'è andato sbattendo la porta dopo un rosario di provocazioni. E che adesso, proprio per quell'ultimo gesto fragoroso, rischia di passare dalla parte del torto.È un Salvini incravattato di verde quello che bacia il crocifisso del rosario e prende la parola dopo il presidente del Consiglio del Movimento 5 stelle in Senato per replicare e mostrare al Paese la sua visione della crisi. Per la prima volta è anche emozionato, fatica a prendere quota, sa che sta finendo un tempo e che non è più padrone del proprio destino; da oggi la palla passa a Sergio Mattarella. Chiede da dove può parlare, la presidente Maria Elisabetta Casellati lo manda fra i banchi della Lega dov'è certamente più a suo agio. Gira gli appunti, li stropiccia, poi decide di andare giù piatto come da carattere. «Finalmente», esplode nel Sennheiser. Nel senso che finalmente è finita. «Rifarei tutto quello che ho fatto con la grande forza di essere un uomo libero. Perché io non ho paura del giudizio del popolo italiano. Chi ha paura non è né una donna, né un uomo libero».Ciò che dice arriva di getto. L'ha pensato, affastellato, rimuginato mentre Conte lo prende a schiaffi, gli attribuisce la responsabilità dello showdown, lo accusa di comportamenti inappropriati, lo incalza come una signorina Rottermeier su felpe, mojito, Russiagate e madonne pellegrine. In silenzio, al suo fianco, il leader della Lega contrappunta le invettive alzando gli occhi al cielo, scuotendo il capo, mostrando misurato disgusto. E, quando dai banchi del Carroccio arrivano ondate di dissenso, placa i facinorosi con ampi gesti delle mani e con accenni di preghiera. Il suo discorso è breve e asciutto, si distingue per sobrietà rispetto ai bizantinismi verbali da amministratore di condominio del premier venuto da Marte. Tre sono i momenti politicamente concreti. Il primo è quando rinfaccia a Conte l'unico vero voto di sfiducia incassato in aula. «Dov'era quando la principale forza di questo governo ha votato la sfiducia contro di lei dicendo no alla Tav? Di cosa stiamo parlando?». Il secondo alla fine, quando apre di nuovo la porta alla prosecuzione a tempo dell'avventura: «O c'è già un accordo di potere e di spartizione fra 5 stelle e Pd, lecito ma irrispettoso del popolo italiano. Oppure c'è la voglia di costruire e terminare un percorso virtuoso. Volete il taglio dei parlamentari e poi votare? Noi ci stiamo a continuare. Volete anche lavorare per una Finanziaria che riduca le tasse? Noi ci siamo. Se invece volete governare con Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti, allora auguri». Il terzo momento arriva a sera, quando la Lega ritira la mozione di sfiducia a Conte.Il resto è un ribadire concetti già espressi. Il resto è sottolineare che «è assurdo affermare che non si fanno le crisi in agosto perché i politici sono in ferie. Ma molti lavoratori italiani non lo sono, quindi possiamo lavorare anche noi». Il resto è far sapere che «l'Iva non aumenta se si vota, perché in autunno votano anche gli austriaci, i polacchi, i portoghesi, forse gli spagnoli e i britannici. Il destino dev'essere in mano al popolo italiano e non a 30 senatori che per non mollare la poltrona voterebbero anche la Fata Turchina». Il resto è mostrare ai grillini il loro incubo notturno con tre contraddizioni in termini: «Vi vedo riformare le banche con la Boschi. Vi vedo riformare la giustizia con Lotti. Vi vedo riformare il lavoro e smantellare il Jobs Act con Renzi». Nel giorno del giudizio Salvini ha tempo anche per un bilancio. «Ci prendiamo metà dei meriti e metà dei demeriti, anche se sento già dire che hanno fatto tutto gli altri. Abbiamo anche commesso degli errori perché chi fa sbaglia, solo chi non fa e pontifica non sbaglia mai» (qui il suo sguardo incrocia quello di Renzi). Poi mette in fila i riscontri positivi. Immigrazione: «Da ministro dell'Interno porto a casa un'Italia più sicura. Adesso nel nostro Paese si arriva se si ha il permesso di arrivare. Se qualcuno ha nostalgia dell'immigrazione di massa non può andare d'accordo con me». Dialogo con le parti sociali: «Ho convocato tutti al Viminale, dai sindacati alle associazioni, perché non li ascoltava nessuno. Non si deve avere paura di aprire le porte all'Italia, di ascoltare il Paese reale. Infatti non capisco il disvalore, sottolineato da Conte, di uscire dai palazzi e ascoltare i cittadini. Io lo faccio sempre perché voglio capire, ascoltare suggerimenti. Rimanendo dentro i palazzi si rischia di parlare solo a se stessi».Non si rivolge mai a Di Maio e dice di avere a cuore l'Italia del 2050, quella in cui si perderanno 6 milioni di persone in età lavorativa e verranno importati 10,5 milioni di immigrati. «Non mi rassegno a prefigurare un Paese impaurito, anziano e con nuovi schiavi». E non vuol sentire parlare di decrescita felice. Qui tocca il nervo scoperto della crisi, quella vocazione da «signornò» dei pentastellati nei confronti degli investimenti in economia, delle infrastrutture, della ripartenza. Quel vento positivo che soprattutto le aziende del nord e del centro attendono per combattere sui mercati è fondamentale soprattutto alla vigilia di una possibile recessione tedesca e francese.Poi l'affondo sull'Europa che da sempre vorrebbe diversa da una finanziaria composta di burocrati (i famosi «gnomi di Zurigo» di Woodrow Wilson trasferiti a Bruxelles) con il pallottoliere sulla scrivania. Per non essere ripetitivo, arriva al punto citando Cicerone: «Libertà non consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non avere nessun padrone. E allora il nostro deve essere un Paese sovrano, libero di difendere i confini, le aziende, le spiagge. Germania e Francia se ne fregano delle regole che impongono a noi. Io non mi rassegno a una crescita da zero virgola».C'è il Salvini più sanguigno in tutto questo, che accusa i grillini di «cambiare giacca a seconda della stagione», ma poi lancia la ciambella di salvataggio al governo. E ottiene (come al solito) il risultato di far salire il sangue agli occhi dei dem quando evoca la protezione di Maria Immacolata sulla testa degli italiani e dei loro figli. «Famiglie con una mamma, un papà e dei figli», tanto per mandare ai matti Monica Cirinnà che vorrebbe lanciarsi verso la sua giugulare. «Siamo gli unici dittatori che vogliono il voto», finisce così mentre già cominciano le manovre al Quirinale. Tutti chiedono un gesto al capo dello Stato, forse serve un'ispirazione divina. Per mezzo secolo Mattarella è stato eletto in un partito che aveva la croce nel simbolo elettorale e nessuno si è mai lamentato. Può farcela.
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