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2021-03-14
Così l’Ue ha perso la guerra dei vaccini
Ursula von der Leyen (Ansa)
Abbiamo ricostruito la filiera dei vaccini con tanto di mappe per l'Europa, la Gran Bretagna e gli Usa. L'obiettivo è comprendere chi produce, chi assembla e chi tiene in mano le chiavi di ciascun vaccino e chi gestisce i singoli siti come fossero carri armati. Purtroppo, l'Europa dimostra di avere perso la guerra dei vaccini. Di non poter essere autonoma dalla A alla Z e di dipendere da altri. Soprattutto dagli Usa, ma anche dalla Gran Bretagna e persino indirettamente dall'India. È chiaro a chiunque che le nazioni in grado di vaccinare prima i propri cittadini vinceranno la battaglia contro il virus e arriveranno prime nella corsa alla ripresa economica. Tradotto: chi vince la guerra dei vaccini salirà sul podio delle potenze globali. Per arrivare a questo obiettivo, semplice da comprendere e difficile da realizzare, un governo deve aver chiaro il concetto di sicurezza nazionale. E perseguirlo in tutti i modi. Israele ha utilizzato le proprie strategie. Ha dirottato già ad aprile del 2020 i fondi della Difesa ed è andato sul mercato opzionando a suon di shekel le prime tranche delle produzioni future. Gli Stati Uniti hanno unito la forza della finanza alla gestione militare per lavorare a stretto contatto con i colossi produttori. Il programma Warp Speed è stato voluto già lo scorso maggio da Donald Trump ed è stato rilanciato a gennaio da Joe Biden. Risultato? Gli Usa adesso sono completamente autonomi e sul proprio territorio nazionale gestiscono l'intera filiera che va dalla produzione di lipidi, dei vettori virali, dei principi attivi fino all'infialamento. Gli Usa sono autonomi anche dal punto di vista dell'mRna e del relativo inserimento nelle nanoparticelle.
Grazie all'aiuto di un esperto La Verità ha tracciato la filiera americana su ricerche Oitaf. Nella tabella a fianco è possibile vedere che Pfizer, Moderna, Novavax e Johnson & Johnson hanno siti produttivi, di gestione dei bulk delle materie prime e siti di infialamento sparsi dal New Hampshire all'Alabama. Lo stabilimento di Kalamazoo in Tennesse è uno dei principali poli mondiali di assemblaggio, secondo solo agli stabilimenti indiani di Serum. Negli ultimi mesi Pfizer ha messo in attività due siti (McPherson in Kansas e Groton nel Connecticut) che hanno consentito quasi il raddoppio della produzione settimanale. Moderna a sua volta non scherza con il sito di Bloomington nell'Indiana, così scendendo fino a Rochester nel Michigan. Ma gli Stati Uniti sono anche stati in grado di utilizzare la celebre Fujifilm con il suo ramo biotecnologico per convertirsi alla produzione di un vaccino di cui ancora non si sa nulla. Il progetto è secretato.
Washington ha anche avviato la produzione di un vaccino straniero. Si tratta dell'anglosvedese Astrazeneca. Il motivo è molto semplice. Gli Usa non solo hanno raggiunto l'obiettivo sovrano, ma lavorano pure alla scalabilità della produzione per realizzare milioni di fiale.
In poche parole se Joe Biden manterrà la promessa di vaccinare tutti entro il 4 luglio, dal giorno successivo i colossi a stelle strisce saranno in grado di inondare il mondo esportando di nuovo la democrazia Usa come si faceva ai vecchi tempi con i «tank», la Nato o i dollari. Userà la leva di forza in Europa, ma anche in altre parti del mondo. Questo anche perché Bruxelles non ha giocato di anticipo e non ha saputo applicare il concetto di sicurezza nazionale a una pandemia. Non l'ha fatto perché l'Ue non è una nazione e perché non ha afferrato un concetto: se ci si avvia a una guerra, bisogna avere le armi per vincerla. Come si può vedere dalla mappa della filiera vaccinale che La Verità ha potuto ricostruire, si vede chiaramente come la gran parte dei Paesi ha stabilimenti in grado di assemblare e infialare dosi le cui materie prima provengono al momento dagli Usa o dalla Germania. Berlino è l'area che, grazie a Biontech, ha più siti produttivi. Ma per arrivare prima ha dovuto allearsi con Pfizer, il colosso che in quanto americano risponde a Biden. Al di fuori però della joint venture con Biontech, sia Pfizer che Curevac devono rispettare una clausola contenuta negli accordi chiamata «breach of contract» - se non la rispetti , decade il contratto - che di fatto impedisce loro di «deviare» negli Stati Uniti l'eventuale parte in eccesso di vaccini prodotti nell'Unione. Se lo fanno, devono restituire il 50% dell'importo come risarcimento. Bruxelles potrebbe anche decidere di bloccare il sito in Portogallo dove si lavora per l'americana Novavax o lo stabilimento di Saint Amand in Francia dove si assembla Moderna, ma sarebbe come fare il solletico a chi sta Oltreoceano.
Per capire ancor meglio quanto l'Ue cammini sul filo di lana bisogna analizzare il rapporto con la Gran Bretagna, fresca di Brexit.
Astrazenaca è la pietra dello scandalo. Il produttore anglosvedese ci ha messo del suo infilando una serie di errori, ma la prima a bloccare l'export è stata proprio l'Ue, adottando a fine gennaio il meccanismo che ha permesso nei giorni scorsi all'Italia di stoppare le 250.000 dosi di vaccino verso l'Australia.
Così Astrazeneca, mentre fa i conti con il caso dei lotti finiti sotto inchiesta, venerdì sera ha annunciato nuovi tagli alle forniture. In sostanza, il gruppo ha ridotto le previsioni di fornitura all'Ue nel primo trimestre a circa 30 milioni di dosi. Si tratta dell'ennesimo rallentamento dopo quello annunciato il 24 febbraio. In quell'occasione veniva inoltre precisato che «il contratto con la Commissione europea è stato siglato in agosto del 2020 e in quel momento non era possibile fare una stima precisa delle dosi. A questa complessità si è aggiunta una produttività inferiore alle previsioni nello stabilimento destinato alla produzione Ue, e per questo non siamo ancora in grado di fornire previsioni dettagliate per il secondo trimestre». Per restare in linea con quanto indicato nel contratto, Astrazeneca aveva sottolineato come «circa la metà delle dosi previste provenga dalla catena di approvvigionamento europea nella quale stiamo continuando a lavorare per aumentarne la produttività. Il resto proverrà dalla nostra rete internazionale». Per raggiungere la consegna di 180 milioni di dosi all'Europa nel secondo trimestre sarebbe stata dunque sfruttata la capacità globale. Perché allora la produzione è tornata in affanno?
Dopo i problemi di esportazioni con gli Usa, dalla scorsa domenica anche l'India - che con il colosso Serum produce centinaia di milioni di dosi Astrazeneca - ha deciso di porre un freno alle esportazioni privilegiando la sua popolazione. L'effetto ricade così non solo su Londra ma anche su tutto il Vecchio continente. Ma c'è di più. Il Financial Times svela che le difficoltà di Astrazeneca sono in parte legate all'impianto olandese gestito da Halix che non ha ancora ricevuto il via libera dell'Ue, chiesto lo scorso agosto. «Significherebbe che tre dei quattro impianti elencati nel contratto originale dell'Ue non forniscono dosi all'Ue», scrive l'Ft. La supply chain di Astrazeneca dedicata all'Europa continentale oggi si compone, escludendo i fornitori secondari (tipo la Catalent di Anagni), dell'olandese Halix e di uno stabilimento a Seneffe in Belgio che si occupa di produrre e fornire il vettore virale. Questo impianto, che oggi regge la maggior parte della produzione di adenovirus, era di proprietà di Novasep, ma a metà gennaio è stato rilevato dall'americana Thermo Fisher. E proprio a Seneffe si sono verificati alcuni problemi alla fase di filtraggio che hanno provocato la riduzione della produzione già nei mesi scorsi. Intanto ci sono dosi stoccate nello stabilimento olandese che attendono l'ok di Ema e di Bruxelles per essere rilasciate. La cosa strana è che l'agenzia del farmaco olandese (corrispondente alla nostra Aifa) ha già dato a dicembre il suo ok alla prima linea produttiva. Quindi, da una parte l'Ue continua a minacciare misure contro Astrazeneca perché «non sta facendo di tutto per onorare i suoi impegni», come ha tuonato venerdì il commissario all'industria, Thierry Breton, chiamando in causa addirittura il cda dell'azienda. Ma dall'altra non concede il via libera alla distribuzione, o almeno così sembra. È chiaro però che una guerra così organizzata fa solo che male ai Paesi membri.
Un altro esempio per essere più chiari. Uno dei brevetti vaccinali su cui Bruxelles vuole puntare è in mano alla francese Valneva. L'azienda in patria ha solo sede e attività amministrative. I siti di produzione e assemblaggio sono divisi tra Vienna, Solna in Svezia e Livingstone in Scozia. Inutile dire che quest'ultimo è il principale. Se l'ostruzionismo (giustificato che sia) contro Astrazeneca e Boris Johnson andrà avanti, a Londra basterà mettere il divieto di export dalla Scozia per troncare sul nascere le aspettative di un nuovo vaccino made in Ue. Il medesimo discorso vale anche per altre filiere di produttori tedeschi come Curevac o Corden.
Non è un caso che dietro la strategia Ue ci siano il pensiero tedesco e il braccio politico del Ppe. Il primo a sparare contro Boris Johnson è stato, in effetti, Charles Michel, con l'intento di alzare la palla al presidente del gruppo Max Weber. Il quale ha twittato: «La smettano di darci delle lezioni e ci mostrino i dati dell'esportazione dei vaccini in Europa o altrove. Negli ultimi mesi sono stati inviati 8 milioni di vaccini Biontech/Pfizer dall'Europa al Regno Unito, quanti vaccini avete inviato in Europa?», ha scritto Weber. Dichiarazioni utili per la campagna elettorale tedesca, entrata già nel vivo, ma alla fine dannose per la campagna vaccinale europea. Perché come adesso appare evidente, il Vecchio continente non è autosufficiente sul fronte delle dosi.
Speriamo che l'Italia non resti schiacciata tra i problemi tedeschi e le fregole anti Brexit. E che, mentre mette in piedi un polo produttivo per il 2022, trovi una terza via.
Farmaco tricolore. Gli indizi uniscono Patheon a Reithera
«Abbiamo già ricevuto 7,9 milioni di dosi, ma contiamo su una forte accelerazione nelle prossime settimane, anche a seguito della recente approvazione del vaccino Johnson & Johnson. Inoltre, di oggi è la conclusione del primo contratto tra un'azienda italiana e un'azienda titolare di un brevetto». Questo è solo un passaggio del lungo discorso che Mario Draghi ha tenuto venerdì scorso durante l'inaugurazione del centro vaccinale anti Covid dell'aeroporto di Fiumicino. Ma vi si nasconde una notizia estremamente importante per la futura produzione dei vaccini nel nostro Paese, su cui il ministero dello Sviluppo economico, guidato da Giancarlo Giorgetti, ha aperto un tavolo con i rappresentanti delle case farmaceutiche. Il presidente del Consiglio non ha fatto nomi, ha solo parlato di un contratto firmato tra un'azienda italiana e un'altra - senza specificarne la nazionalità - titolare del brevetto del vaccino. Di chi si tratta?
Nella tarda serata di venerdì, fonti di Palazzo Chigi hanno riferito alle agenzie di stampa che la Patheon Thermo Fisher ha firmato una lettera di intenti per la produzione di massa di un vaccino in Italia e che, a questo stadio, «l'azienda non intende fornire ulteriori dettagli». Che tipo di azienda è la Patheon? Farmaceutica canadese oggi controllata dalla multinazionale americana Thermo Fisher, quotata a Wall Street, che l'ha rilevata nel 2017 per 7,2 miliardi, è specializzata nello sviluppo di prodotti sterili iniettabili e liofilizzati, è dotata di bioreattori e ha due stabilimenti in Italia: uno di oltre 14.000 metri quadri a Ferentino (Lazio) e uno a Monza, specializzato nella produzione di farmaci iniettabili sterili per conto terzi, con oltre 1.000 dipendenti. Sempre a Monza è operativo un centro all'avanguardia che rifornisce oltre 20 Paesi, inclusi Stati Uniti, Europa e Asia Pacifico. Nell'aprile 2020, inoltre, la Regione Lazio ha annunciato lo stanziamento di 3,9 milioni di euro come contributo all'investimento da parte del colosso farmaceutico di circa 130 milioni per potenziare il sito industriale ciociaro di Patheon. Il nuovo centro però non sarà operativo prima del 2022.
Quindi il primo nome è saltato fuori. Ma la Patheon, come abbiamo visto, sviluppa e produce farmaci conto terzi. Chi è quindi il partner titolare di brevetto? Insomma, quale sarà il vaccino che verrà prodotto? E qui non abbiamo comunicazioni ufficiali quindi possiamo solo azzardare delle ipotesi. La Thermo Fisher a metà gennaio ha comprato da Novasep lo stabilimento a Seneffe in Belgio che si occupa di produrre e fornire il vettore virale di Astrazeneca. Il gruppo anglosvedese, però, non ha problemi di infialamento, ma fa i conti con colli di bottiglia nella produzione che non possono aspettare i tempi necessari per trasferire la tecnologia e avviare la collaborazione con Patheon sui cosiddetti bulk (il principio attivo dei vaccini). Thermo Fisher collabora negli Stati Uniti anche con Pfizer, ma solo per quanto riguarda le forniture dei frigoriferi necessari a conservare i vaccini a bassissime temperature. Pfizer, almeno per il momento, non ha inoltre necessità di produrre in Italia, così come resta da capire quale tipo di lavorazione potrebbe dirottare su Patheon. Thermo ha concluso un accordo per produrre il vaccino Covid-19 di Inovio, che però è ancora molto indietro con le autorizzazioni. Pare si possano escludere anche Novavax (non ha ancora ricevuto le autorizzazioni finali e comunque può contare già su una forte supply chain in Europa) e Moderna, che è in grado di fare le cose con la sua catena attuale, mentre la francese Sanofi ha solo da poco avviato lo studio della fase 2 del proprio vaccino.
Che si tratti di Johnson & Johnson? Inizialmente il gigante Usa aveva detto che avrebbe fatto una parte del cosiddetto fill & finish negli Stati Uniti, ma poi ha siglato un contratto con la Catalent di Anagni, che si occuperà dell'infialamento anche per i vaccini Janssen. Potrebbe aver bisogno di un altro partner per mettere il turbo alla produzione, chissà. Un altro possibile indiziato potrebbe essere l'italiana Reithera, su cui il governo Conte ha investito 80 milioni. Negli ospedali di Latina, lo scorso 9 marzo, è partita la sperimentazione della fase 2 e 3 del vaccino atteso per l'autunno e si sta cominciando a reclutare volontari, che dovranno avere circa 50 anni e non avere gravi patologie. Reithera potrebbe avere presto bisogno di un partner produttivo che si occupi anche di filling e che abbia le spalle larghe anche per aiutarlo nella fase 3 dello sviluppo (se si muove Thermo Fisher anche i grandi fondi internazionali possono infatti essere interessati a investire)? Vedremo.
Il problema - a prescindere da chi sarà il partner di Patheon - restano i tempi. Parliamo, infatti, di almeno otto-nove mesi. E lo stesso vale anche per altre aziende che compaiono nell'elenco sul tavolo aperto dal ministero dello Sviluppo economico, alcune delle quali sono state contattate anche dai russi che vorrebbero produrre in Italia il vaccino Sputnik. Di certo, bisognerà investire sulla produzione tricolore per il mantenimento e per allenare la nostra industria locale (nonché gli stabilimenti di proprietà straniera siti sul territorio nazionale) a produrre vaccini quando il coronavirus sarà diventato endemico. Si tratterà di farsi trovare pronti, anche con la ricerca, per la seconda generazione di vaccini più avanzati, capaci di proteggere da nuove varianti, e più facili da gestire dal punto di vista logistico e della somministrazione. Le alleanze saranno fondamentali.
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Grazie al suo sovranismo, Washington si è resa del tutto autonoma nella produzione. Si è inoltre accaparrata enormi quantità di Astrazeneca: dal 5 luglio inonderà il mondo. L'Unione invece non ha applicato il concetto di sicurezza nazionale e dipende dall'estero per molte fasi. Anche Londra è in grado di farci male. Farmaco italiano: Chigi annuncia un'intesa con l'azienda nordamericana Patheon, che però lavora per conto terzi. Ipotesi di un tandem con la ditta laziale Reithera. Lo speciale contiene due articoli. !function(e,i,n,s){var t="InfogramEmbeds",d=e.getElementsByTagName("script")[0];if(window[t]&&window[t].initialized)window[t].process&&window[t].process();else if(!e.getElementById(n)){var o=e.createElement("script");o.async=1,o.id=n,o.src="https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js",d.parentNode.insertBefore(o,d)}}(document,0,"infogram-async"); Abbiamo ricostruito la filiera dei vaccini con tanto di mappe per l'Europa, la Gran Bretagna e gli Usa. L'obiettivo è comprendere chi produce, chi assembla e chi tiene in mano le chiavi di ciascun vaccino e chi gestisce i singoli siti come fossero carri armati. Purtroppo, l'Europa dimostra di avere perso la guerra dei vaccini. Di non poter essere autonoma dalla A alla Z e di dipendere da altri. Soprattutto dagli Usa, ma anche dalla Gran Bretagna e persino indirettamente dall'India. È chiaro a chiunque che le nazioni in grado di vaccinare prima i propri cittadini vinceranno la battaglia contro il virus e arriveranno prime nella corsa alla ripresa economica. Tradotto: chi vince la guerra dei vaccini salirà sul podio delle potenze globali. Per arrivare a questo obiettivo, semplice da comprendere e difficile da realizzare, un governo deve aver chiaro il concetto di sicurezza nazionale. E perseguirlo in tutti i modi. Israele ha utilizzato le proprie strategie. Ha dirottato già ad aprile del 2020 i fondi della Difesa ed è andato sul mercato opzionando a suon di shekel le prime tranche delle produzioni future. Gli Stati Uniti hanno unito la forza della finanza alla gestione militare per lavorare a stretto contatto con i colossi produttori. Il programma Warp Speed è stato voluto già lo scorso maggio da Donald Trump ed è stato rilanciato a gennaio da Joe Biden. Risultato? Gli Usa adesso sono completamente autonomi e sul proprio territorio nazionale gestiscono l'intera filiera che va dalla produzione di lipidi, dei vettori virali, dei principi attivi fino all'infialamento. Gli Usa sono autonomi anche dal punto di vista dell'mRna e del relativo inserimento nelle nanoparticelle. Grazie all'aiuto di un esperto La Verità ha tracciato la filiera americana su ricerche Oitaf. Nella tabella a fianco è possibile vedere che Pfizer, Moderna, Novavax e Johnson & Johnson hanno siti produttivi, di gestione dei bulk delle materie prime e siti di infialamento sparsi dal New Hampshire all'Alabama. Lo stabilimento di Kalamazoo in Tennesse è uno dei principali poli mondiali di assemblaggio, secondo solo agli stabilimenti indiani di Serum. Negli ultimi mesi Pfizer ha messo in attività due siti (McPherson in Kansas e Groton nel Connecticut) che hanno consentito quasi il raddoppio della produzione settimanale. Moderna a sua volta non scherza con il sito di Bloomington nell'Indiana, così scendendo fino a Rochester nel Michigan. Ma gli Stati Uniti sono anche stati in grado di utilizzare la celebre Fujifilm con il suo ramo biotecnologico per convertirsi alla produzione di un vaccino di cui ancora non si sa nulla. Il progetto è secretato. Washington ha anche avviato la produzione di un vaccino straniero. Si tratta dell'anglosvedese Astrazeneca. Il motivo è molto semplice. Gli Usa non solo hanno raggiunto l'obiettivo sovrano, ma lavorano pure alla scalabilità della produzione per realizzare milioni di fiale. In poche parole se Joe Biden manterrà la promessa di vaccinare tutti entro il 4 luglio, dal giorno successivo i colossi a stelle strisce saranno in grado di inondare il mondo esportando di nuovo la democrazia Usa come si faceva ai vecchi tempi con i «tank», la Nato o i dollari. Userà la leva di forza in Europa, ma anche in altre parti del mondo. Questo anche perché Bruxelles non ha giocato di anticipo e non ha saputo applicare il concetto di sicurezza nazionale a una pandemia. Non l'ha fatto perché l'Ue non è una nazione e perché non ha afferrato un concetto: se ci si avvia a una guerra, bisogna avere le armi per vincerla. Come si può vedere dalla mappa della filiera vaccinale che La Verità ha potuto ricostruire, si vede chiaramente come la gran parte dei Paesi ha stabilimenti in grado di assemblare e infialare dosi le cui materie prima provengono al momento dagli Usa o dalla Germania. Berlino è l'area che, grazie a Biontech, ha più siti produttivi. Ma per arrivare prima ha dovuto allearsi con Pfizer, il colosso che in quanto americano risponde a Biden. Al di fuori però della joint venture con Biontech, sia Pfizer che Curevac devono rispettare una clausola contenuta negli accordi chiamata «breach of contract» - se non la rispetti , decade il contratto - che di fatto impedisce loro di «deviare» negli Stati Uniti l'eventuale parte in eccesso di vaccini prodotti nell'Unione. Se lo fanno, devono restituire il 50% dell'importo come risarcimento. Bruxelles potrebbe anche decidere di bloccare il sito in Portogallo dove si lavora per l'americana Novavax o lo stabilimento di Saint Amand in Francia dove si assembla Moderna, ma sarebbe come fare il solletico a chi sta Oltreoceano. Per capire ancor meglio quanto l'Ue cammini sul filo di lana bisogna analizzare il rapporto con la Gran Bretagna, fresca di Brexit. Astrazenaca è la pietra dello scandalo. Il produttore anglosvedese ci ha messo del suo infilando una serie di errori, ma la prima a bloccare l'export è stata proprio l'Ue, adottando a fine gennaio il meccanismo che ha permesso nei giorni scorsi all'Italia di stoppare le 250.000 dosi di vaccino verso l'Australia. Così Astrazeneca, mentre fa i conti con il caso dei lotti finiti sotto inchiesta, venerdì sera ha annunciato nuovi tagli alle forniture. In sostanza, il gruppo ha ridotto le previsioni di fornitura all'Ue nel primo trimestre a circa 30 milioni di dosi. Si tratta dell'ennesimo rallentamento dopo quello annunciato il 24 febbraio. In quell'occasione veniva inoltre precisato che «il contratto con la Commissione europea è stato siglato in agosto del 2020 e in quel momento non era possibile fare una stima precisa delle dosi. A questa complessità si è aggiunta una produttività inferiore alle previsioni nello stabilimento destinato alla produzione Ue, e per questo non siamo ancora in grado di fornire previsioni dettagliate per il secondo trimestre». Per restare in linea con quanto indicato nel contratto, Astrazeneca aveva sottolineato come «circa la metà delle dosi previste provenga dalla catena di approvvigionamento europea nella quale stiamo continuando a lavorare per aumentarne la produttività. Il resto proverrà dalla nostra rete internazionale». Per raggiungere la consegna di 180 milioni di dosi all'Europa nel secondo trimestre sarebbe stata dunque sfruttata la capacità globale. Perché allora la produzione è tornata in affanno? Dopo i problemi di esportazioni con gli Usa, dalla scorsa domenica anche l'India - che con il colosso Serum produce centinaia di milioni di dosi Astrazeneca - ha deciso di porre un freno alle esportazioni privilegiando la sua popolazione. L'effetto ricade così non solo su Londra ma anche su tutto il Vecchio continente. Ma c'è di più. Il Financial Times svela che le difficoltà di Astrazeneca sono in parte legate all'impianto olandese gestito da Halix che non ha ancora ricevuto il via libera dell'Ue, chiesto lo scorso agosto. «Significherebbe che tre dei quattro impianti elencati nel contratto originale dell'Ue non forniscono dosi all'Ue», scrive l'Ft. La supply chain di Astrazeneca dedicata all'Europa continentale oggi si compone, escludendo i fornitori secondari (tipo la Catalent di Anagni), dell'olandese Halix e di uno stabilimento a Seneffe in Belgio che si occupa di produrre e fornire il vettore virale. Questo impianto, che oggi regge la maggior parte della produzione di adenovirus, era di proprietà di Novasep, ma a metà gennaio è stato rilevato dall'americana Thermo Fisher. E proprio a Seneffe si sono verificati alcuni problemi alla fase di filtraggio che hanno provocato la riduzione della produzione già nei mesi scorsi. Intanto ci sono dosi stoccate nello stabilimento olandese che attendono l'ok di Ema e di Bruxelles per essere rilasciate. La cosa strana è che l'agenzia del farmaco olandese (corrispondente alla nostra Aifa) ha già dato a dicembre il suo ok alla prima linea produttiva. Quindi, da una parte l'Ue continua a minacciare misure contro Astrazeneca perché «non sta facendo di tutto per onorare i suoi impegni», come ha tuonato venerdì il commissario all'industria, Thierry Breton, chiamando in causa addirittura il cda dell'azienda. Ma dall'altra non concede il via libera alla distribuzione, o almeno così sembra. È chiaro però che una guerra così organizzata fa solo che male ai Paesi membri. Un altro esempio per essere più chiari. Uno dei brevetti vaccinali su cui Bruxelles vuole puntare è in mano alla francese Valneva. L'azienda in patria ha solo sede e attività amministrative. I siti di produzione e assemblaggio sono divisi tra Vienna, Solna in Svezia e Livingstone in Scozia. Inutile dire che quest'ultimo è il principale. Se l'ostruzionismo (giustificato che sia) contro Astrazeneca e Boris Johnson andrà avanti, a Londra basterà mettere il divieto di export dalla Scozia per troncare sul nascere le aspettative di un nuovo vaccino made in Ue. Il medesimo discorso vale anche per altre filiere di produttori tedeschi come Curevac o Corden. Non è un caso che dietro la strategia Ue ci siano il pensiero tedesco e il braccio politico del Ppe. Il primo a sparare contro Boris Johnson è stato, in effetti, Charles Michel, con l'intento di alzare la palla al presidente del gruppo Max Weber. Il quale ha twittato: «La smettano di darci delle lezioni e ci mostrino i dati dell'esportazione dei vaccini in Europa o altrove. Negli ultimi mesi sono stati inviati 8 milioni di vaccini Biontech/Pfizer dall'Europa al Regno Unito, quanti vaccini avete inviato in Europa?», ha scritto Weber. Dichiarazioni utili per la campagna elettorale tedesca, entrata già nel vivo, ma alla fine dannose per la campagna vaccinale europea. Perché come adesso appare evidente, il Vecchio continente non è autosufficiente sul fronte delle dosi. Speriamo che l'Italia non resti schiacciata tra i problemi tedeschi e le fregole anti Brexit. 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Ma vi si nasconde una notizia estremamente importante per la futura produzione dei vaccini nel nostro Paese, su cui il ministero dello Sviluppo economico, guidato da Giancarlo Giorgetti, ha aperto un tavolo con i rappresentanti delle case farmaceutiche. Il presidente del Consiglio non ha fatto nomi, ha solo parlato di un contratto firmato tra un'azienda italiana e un'altra - senza specificarne la nazionalità - titolare del brevetto del vaccino. Di chi si tratta? Nella tarda serata di venerdì, fonti di Palazzo Chigi hanno riferito alle agenzie di stampa che la Patheon Thermo Fisher ha firmato una lettera di intenti per la produzione di massa di un vaccino in Italia e che, a questo stadio, «l'azienda non intende fornire ulteriori dettagli». Che tipo di azienda è la Patheon? Farmaceutica canadese oggi controllata dalla multinazionale americana Thermo Fisher, quotata a Wall Street, che l'ha rilevata nel 2017 per 7,2 miliardi, è specializzata nello sviluppo di prodotti sterili iniettabili e liofilizzati, è dotata di bioreattori e ha due stabilimenti in Italia: uno di oltre 14.000 metri quadri a Ferentino (Lazio) e uno a Monza, specializzato nella produzione di farmaci iniettabili sterili per conto terzi, con oltre 1.000 dipendenti. Sempre a Monza è operativo un centro all'avanguardia che rifornisce oltre 20 Paesi, inclusi Stati Uniti, Europa e Asia Pacifico. Nell'aprile 2020, inoltre, la Regione Lazio ha annunciato lo stanziamento di 3,9 milioni di euro come contributo all'investimento da parte del colosso farmaceutico di circa 130 milioni per potenziare il sito industriale ciociaro di Patheon. Il nuovo centro però non sarà operativo prima del 2022. Quindi il primo nome è saltato fuori. Ma la Patheon, come abbiamo visto, sviluppa e produce farmaci conto terzi. Chi è quindi il partner titolare di brevetto? Insomma, quale sarà il vaccino che verrà prodotto? E qui non abbiamo comunicazioni ufficiali quindi possiamo solo azzardare delle ipotesi. La Thermo Fisher a metà gennaio ha comprato da Novasep lo stabilimento a Seneffe in Belgio che si occupa di produrre e fornire il vettore virale di Astrazeneca. Il gruppo anglosvedese, però, non ha problemi di infialamento, ma fa i conti con colli di bottiglia nella produzione che non possono aspettare i tempi necessari per trasferire la tecnologia e avviare la collaborazione con Patheon sui cosiddetti bulk (il principio attivo dei vaccini). Thermo Fisher collabora negli Stati Uniti anche con Pfizer, ma solo per quanto riguarda le forniture dei frigoriferi necessari a conservare i vaccini a bassissime temperature. Pfizer, almeno per il momento, non ha inoltre necessità di produrre in Italia, così come resta da capire quale tipo di lavorazione potrebbe dirottare su Patheon. Thermo ha concluso un accordo per produrre il vaccino Covid-19 di Inovio, che però è ancora molto indietro con le autorizzazioni. Pare si possano escludere anche Novavax (non ha ancora ricevuto le autorizzazioni finali e comunque può contare già su una forte supply chain in Europa) e Moderna, che è in grado di fare le cose con la sua catena attuale, mentre la francese Sanofi ha solo da poco avviato lo studio della fase 2 del proprio vaccino. Che si tratti di Johnson & Johnson? Inizialmente il gigante Usa aveva detto che avrebbe fatto una parte del cosiddetto fill & finish negli Stati Uniti, ma poi ha siglato un contratto con la Catalent di Anagni, che si occuperà dell'infialamento anche per i vaccini Janssen. Potrebbe aver bisogno di un altro partner per mettere il turbo alla produzione, chissà. Un altro possibile indiziato potrebbe essere l'italiana Reithera, su cui il governo Conte ha investito 80 milioni. Negli ospedali di Latina, lo scorso 9 marzo, è partita la sperimentazione della fase 2 e 3 del vaccino atteso per l'autunno e si sta cominciando a reclutare volontari, che dovranno avere circa 50 anni e non avere gravi patologie. Reithera potrebbe avere presto bisogno di un partner produttivo che si occupi anche di filling e che abbia le spalle larghe anche per aiutarlo nella fase 3 dello sviluppo (se si muove Thermo Fisher anche i grandi fondi internazionali possono infatti essere interessati a investire)? Vedremo. Il problema - a prescindere da chi sarà il partner di Patheon - restano i tempi. Parliamo, infatti, di almeno otto-nove mesi. E lo stesso vale anche per altre aziende che compaiono nell'elenco sul tavolo aperto dal ministero dello Sviluppo economico, alcune delle quali sono state contattate anche dai russi che vorrebbero produrre in Italia il vaccino Sputnik. Di certo, bisognerà investire sulla produzione tricolore per il mantenimento e per allenare la nostra industria locale (nonché gli stabilimenti di proprietà straniera siti sul territorio nazionale) a produrre vaccini quando il coronavirus sarà diventato endemico. Si tratterà di farsi trovare pronti, anche con la ricerca, per la seconda generazione di vaccini più avanzati, capaci di proteggere da nuove varianti, e più facili da gestire dal punto di vista logistico e della somministrazione. Le alleanze saranno fondamentali.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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