Le milizie a guida jihadista comandate da Al Jolani sono entrate a Damasco, la capitale siriana, e hanno preso il controllo del palazzo presidenziale di Bashar al-Assad. Dopo le voci circolate ieri in merito alla fuga del presidente siriano insieme alla sua famiglia, in un primo momento smentite, poche ore fa è arrivata la conferma da parte del ministero degli Esteri russo il quale ha comunicato che Assad ha lasciato la Siria, senza fornire riferimenti su dove si trovi e specificando che Mosca non ha partecipato a trattative relative alla fuoriuscita del presidente. Inoltre, si legge nella nota diffusa dalla Russia, «a seguito dei negoziati tra Assad e alcuni partecipanti al conflitto armato sul territorio della Siria, Assad ha deciso di lasciare la carica presidenziale e ha lasciato il Paese, dando istruzioni per effettuare pacificamente il trasferimento del potere».
I ribelli guidati da Al Jolani, che hanno preso il controllo anche dell'aeroporto internazionale, della radio e della tv pubblica e hanno aperto le porte del carcere di Sednaya, considerato il simbolo del potere di Assad, hanno dichiarato il «Paese non più prigioniero del potere». Secondo le ultime notizie raccolte da fonti qualificate, Il premier siriano, Muhammad al-Jalali, manterrebbe la carica per assicurare il passaggio di consegne.
Contestualmente, le milizie filo-turche guidate da Hayat Tahrir al-Sham (Hts) stanno occupando le postazioni militari evacuate dalle Forze governative siriane nel Sud del Paese. Secondo fonti dei media arabi, le Forze governative siriane avrebbero iniziato il ritiro dalla base aerea T-4, situata nei pressi dell’antica città di Palmira, nel governatorato di Homs.
Conosciuta anche come Tiyas, la base rappresenta un punto strategico per il traffico di armi e droga (ad esempio il captagon) destinate a Hezbollah in Libano, trasportate attraverso voli cargo iraniani che atterrano frequentemente sia al T-4, sia all’aeroporto internazionale di Damasco. Secondo l’intelligence israeliana, gli armamenti vengono stoccati nei magazzini della base prima di essere trasferito in Libano. Negli ultimi anni la base aerea T-4 è stata più volte bersaglio dei raid aerei israeliani.
Funzionari dell’amministrazione Biden, ieri, davanti all’avanzata delle fazioni jihadiste, ritenevano sempre più probabile la caduta del regime di Assad. E il fatto che gli insorti siano avanzati fino alla capitale incontrando pochi ostacoli è la dimostrazione che anche l’esercito siriano aveva capito che ha le ore fossero contate. Decine di militari governativi hanno deciso di disertare e di arrendersi alle autorità druse locali nella città di Suwayda, capoluogo della regione meridionale siriana al confine con la Giordania e roccaforte della comunità drusa. Le Forze di difesa israeliane (Idf), che stanno costantemente seguendo quanto accade in Siria, hanno reso noto che è stato deciso «un ulteriore rafforzamento delle proprie posizioni sulle alture del Golan, lungo il confine con la Siria, in risposta all’avanzata dei ribelli sunniti nella regione. L’aumento delle forze rafforzerà le difese regionali e preparerà le truppe a una serie di potenziali scenari». Ieri sera il governo israeliano si è riunito e lo farà anche oggi per discutere della situazione, mentre cresce la preoccupazione che i ribelli possano avanzare fino al confine meridionale della Siria, in prossimità delle alture del Golan. In ogni caso a Gerusalemme nessuno credeva alla possibilità che Bashar al-Assad riuscisse a riprendere il controllo del Paese.
Il titolare della Fernesina, Antonio Tajani, ha assicurato che la situazione degli italiani è «sotto controllo». Comunque, dal punto di vista politico, in Siria è il caos più totale, con i tre ministri degli Esteri, Abbas Araghchi per l’Iran, Serghei Lavrov per la Russia e Hakan Fidan per la Turchia, che si riuniscono - come scrive l’agenzia iraniana Irna - nel cosiddetto «formato Astana», da una riunione del 2017 nella capitale del Kazakistan, che fu convocata per garantire il futuro equilibrio politico-strategico nel Paese, oggi è in frantumi. Sul tavolo le posizioni sono divergenti, con gli iraniani che hanno espresso sostegno completo al governo siriano del presidente Assad e hanno accusato Israele e Stati Uniti di appoggiare i ribelli jihadisti, e i turchi che sono l’anima di questa rivolta, come ha ammesso più volte Recep Tayyip Erdoğan, che ieri ha affermato: «Nessuno più dei fratelli siriani merita la pace e di vivere in serenità dopo tanto sangue e sofferenza. In Siria c’è una nuova realtà, tutte le minoranze etniche e religiose hanno ora il diritto di sentirsi siriani alla stessa maniera». I russi invece non vogliono il regime change, nel timore di perdere le loro basi in Siria, ma nessuno sa cosa abbia in mente Putin, che potrebbe aver deciso di non sostenere più Assad, da lui ritenuto un debole. In questo caso le parole di Sergej Lavrov sarebbero solamente di circostanza: «È inammissibile permettere a un gruppo terroristico di prendere il controllo della Siria in violazione degli accordi esistenti, a partire dalla risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ha ribadito con forza la sovranità, l’integrità territoriale e l’unità della Repubblica araba siriana».
Il pensiero del presidente eletto degli Usa, Donald Trump, presente ieri alla cerimonia di riapertura di Notre Dame a Parigi, è chiaro: «La Siria è un disastro, ma non è nostra amica, e gli Stati Uniti non dovrebbero avere nulla a che fare con questo. Questa non è la nostra lotta. Lasciamo che la situazione si sviluppi. Non lasciamoci coinvolgere».
Un’ondata di arresti è in corso in Iran a seguito dell’assassinio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran. Secondo quanto riportato dal New York Times, che cita due fonti iraniane informate sulle indagini, per il momento più di 24 persone sono state arrestate, «tra cui numerosi ufficiali dell’intelligence, ufficiali militari e personale» presenti nel luogo dell’assassinio, una residenza gestita dai Guardiani della rivoluzione nel Nord di Teheran. Secondo il quotidiano britannico Daily Telegraph, il Mossad avrebbe ingaggiato agenti iraniani per piazzare esplosivi in tre diverse stanze della residenza dove solitamente alloggiava il leader politico di Hamas. Questi esplosivi sarebbero stati poi fatti detonare a distanza. I Guardiani della rivoluzione in una dichiarazione smentiscono le ricostruzioni dei giornali: «Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, è stato ucciso a Teheran da un proiettile a corto raggio con una testata di circa 7 chilogrammi». Mentre a Tasnim News «una fonte ben informata» ha riferito che «le ultime scoperte indicano che un proiettile, trasportato da un drone o da un altro vettore, è penetrato nell’edificio e ha causato l’esplosione». Ma allora perché stanno arrestando decine di persone? Per il momento è un mistero e l’impressione è che sarà molto difficile sapere come è stato ammazzato Haniyeh.
Lo Stato ebraico e gli Stati Uniti si stanno intanto preparando per l’attacco da parte dell’Iran contro Israele, previsto per questo fine settimana o nei primi giorni della prossima, mentre Teheran sta creando ostacoli agli sforzi diplomatici volti a evitare un conflitto regionale in Medio Oriente. I funzionari americani e arabi, che lavorano per prevenire un’escalation di violenza, si stanno scontrando con il silenzio dell’Iran e del suo alleato libanese, Hezbollah, che stanno pianificando la vendetta per le uccisioni avvenute a Teheran e Beirut. Un diplomatico iraniano ha dichiarato che gli sforzi di vari Paesi per convincere Teheran a non aumentare la tensione sono stati e saranno inutili a causa dei recenti attacchi israeliani: «È tutto inutile. Israele ha superato tutte le linee rosse. La nostra risposta sarà rapida e severa». A proposito di Beirut, l’ambasciata americana ha chiesto ai connazionali «di lasciare il Libano in qualsiasi modo possibile» e lo stesso hanno fatto le autorità britanniche mentre la Svezia ha chiuso la propria rappresentanza diplomatica. Venerdì, Israele ha comunicato che il suo esercito è in stato di massima allerta, mentre i funzionari statunitensi stanno predisponendo risorse militari e collaborazioni con partner regionali per prevenire un nuovo attacco, temuto da alcuni come più esteso e complesso rispetto a quello iraniano dell’aprile scorso. Durante quell’attacco l’Iran ha lanciato più di 300 droni e missili contro Israele, ma solo dopo aver anticipato la sua risposta ai diplomatici, dando così a Israele e agli Stati Uniti il tempo di prepararsi. Alla fine, la maggior parte dei proiettili è stata intercettata prima di raggiungere il territorio israeliano ma stavolta non è certo che i partner regionali faranno la loro parte. Secondo quanto riportato da SkyNews Arabia, la rappresentanza iraniana presso l’Onu ha comunicato che Hezbollah in risposta all’uccisione del comandante militare Fouad Shukr - freddato il 30 luglio a Beirut, mentre, secondo alcune fonti, si stava recando dall’amante - «potrebbe colpire obiettivi più ampi e profondi, inclusi i civili, oltre ai bersagli militari all’interno di Israele». In tal senso gli Stati Uniti, come ha dichiarato la portavoce del Pentagono Sabrina Singh, dispiegheranno uno squadrone di caccia da combattimento in Medio Oriente per rafforzare la loro presenza militare nella regione, sottolineando «come si sia continuato a prendere provvedimenti per mitigare la possibilità di un’escalation regionale da parte dell’Iran o dei suoi partner e sostenitori».
Ieri le Idf hanno ucciso durante un attacco con droni condotto da Israele a Bazourieh, una città nel Sud del Libano, Ali Abd Ali, descritto come «un terrorista chiave per il fronte meridionale di Hezbollah, coinvolto nella pianificazione e realizzazione di numerosi attacchi». Inoltre, a Tulkarem (Samaria), le Idf hanno eliminato Abdul Jaber, uno degli alti Comandanti sul campo dell’organizzazione terroristica della Jihad Islamica mentre i combattenti delle squadre da battaglia delle Brigate Nahal e Givati, sotto il comando della Divisione 162, hanno continuato a combattere nella zona di Rafah, ed in particolare nel quartiere di Tel Al Sultan. Secondo quanto riferito da Times of Israel, durante la giornata di ieri alcuni caccia israeliani hanno colpito diversi edifici utilizzati da Hezbollah a Tayr Harfa e Kafr Kila, nel Libano meridionale. Raid avvenuti dopo che Hezbollah ha rivendicato diversi attacchi missilistici contro comunità israeliane e postazioni delle Idf lungo il confine, nella Galilea settentrionale e occidentale.
Infine, la nomina, anche se a interim, di Khaled Meshal a capo del cosiddetto ufficio politico di Hamas ha lasciato molti scontenti soprattutto tra i mullah iraniani che lo detestano per il suo supporto ai ribelli siriani opposti a Bashar Al Assad, oggi vedono l’organizzazione jihadista spostarsi verso la Turchia, il Qatar e l’Egitto. Per questo faranno di tutto per evitare che la nomina venga ratificata dal Consiglio della Shura e dal Politburo di Hamas. Per far questi gli iraniani hanno già mandato in avanscoperta Bassem Naim, responsabile del dipartimento delle relazioni internazionali di Hamas che ha detto: «Il nuovo leader non è stato selezionato, serve il voto interno».
Il governo russo ha presentato nell’ottobre 2023 la sua proposta di bilancio per il 2024, con una svolta storica: per la prima volta la spesa militare supererà quella sociale, assorbendo il 6% del Pil. La guerra contro l’Ucraina e l’Occidente diventa la priorità assoluta del Cremlino e il principale motore dell’economia russa. Le cifre record stanziate per la difesa non lasciano dubbi: Mosca non ha intenzione di porre fine al conflitto in Ucraina. Che i combattimenti si intensifichino o si assestino in una guerra di trincea, i fondi serviranno a rimpinguare gli arsenali esauriti e a preparare la Russia a nuove sfide. La liquidità a disposizione permette di finanziare un’escalation del conflitto, con l’eventuale imposizione della legge marziale o la mobilitazione generale (ieri Putin ha firmato l’ordine di mobilitazione dei riservisti).
Elencare nel dettaglio l’immenso arsenale nucleare militare russo è qui impossibile, tuttavia alcuni numeri sono indicativi: 4.489 testate, che comprendono 1.674 testate strategiche schierate di cui 834 su missili balistici terrestri, 640 su missili balistici lanciati da sottomarini, 200 su bombardieri pesanti, più 999 testate strategiche immagazzinate integrate da 1.816 testate non strategiche, inoltre ci sono 1.400 testate ritirate ma in gran parte intatte. Non è certo da oggi che la Russia sta investendo risorse di ogni tipo nel suo arsenale militare, un fatto del quale qualche giorno fa ha parlato il Financial Times, che è venuto in possesso di 29 file militari russi segreti redatti tra il 2008 e il 2014, inclusi scenari di giochi di guerra e presentazioni per ufficiali della marina che discutono i principi operativi per l’uso delle armi nucleari e non solo. Ciò che deve preoccupare, e molto, è quello che la Russia sta facendo in due settori specifici: il primo è quello dei droni, vedi lo sviluppo del drone Piranya; presentato nel marzo 2023 è stato finora prodotto in 4.000 unità ed è in uso alle forze armate russe nelle aree di guerra. Prodotto dal Simbirsk Design Bureau di Ulyanovsk, in Russia, il Piranya è tecnologicamente molto avanzato e il suo punto di forza è una sorta di impermeabilità alla guerra elettronica, funzionando su frequenze che hanno dimostrato di essere resistenti ai tentativi di intercettarlo e abbatterlo. Il Piranya ha un raggio d’azione fino a 15 km e una capacità di carico fino a 4,5 kg, caratteristiche lo rendendo perfetto a una varietà di missioni, compresa la distruzione di veicoli leggeri e corazzati, così come di fortificazioni. La sua capacità dirompente si è vista in Ucraina, nella distruzione (ma gli esperti parlano di danneggiamento) del primo carro armato americano M1 Abrams inviato in Ucraina. Kiev è corsa ai ripari con il Piranha Avd 360, un sistema di guerra elettronica progettato per contrastare le operazioni Uav ostili che mira a proteggere i veicoli corazzati e i soldati dalle minacce dei droni creando un perimetro di difesa che blocca le operazioni dei droni entro un raggio di 600 metri. Quello che lo rende differente da altri sistemi antidrone è che Piranha Avd 360 riesce a interferire con i segnali di comando e di trasmissione dei dati dei droni, nonché con il sistema di navigazione satellitare, incluso il Glonass russo che è la controparte del Global Positioning System degli Stati Uniti e del sistema di posizionamento Galileo, sviluppato in Europa, rappresentando così una contromisura strategica contro i progressi russi nella guerra dei droni. Il secondo motivo di preoccupazione per la Nato è quello relativo ai Mig 31 equipaggiati con missili balistici ipersonici Kinzhal. Partendo dal presupposto che questo velivolo ha caratteristiche uniche, come ad esempio la sua capacità di raggiungere una velocità massima di 3.000 chilometri orari, una gittata di oltre 1.500-2.000 chilometri e che può trasportare un carico utile significativo di centinaia e centinaia di chilogrammi di esplosivi, si tratta di degli aerei da combattimento più rapidi al mondo. Come scritto su queste pagine il 21 dicembre 2023, le sue capacità operative ad alta quota sono state evidenziate durante una spettacolare esercitazione nel Mare di Barent, dove è salito oltre i 11.000 metri di altitudine per simulare scenari di combattimento aereo. I Mig 31 quel giorno erano accompagnati da caccia Su-27. Come secondo armamento, il Mig 31 dispone dei missili balistici ipersonici Ch-47M2 Kinzhal e questa sì che è una brutta notizia. Da tempo si discute dei missili ipersonici che possono viaggiare a una velocità di Mach-10 e seguire una traiettoria di volo discontinua, rendendo molto più difficile la loro intercettazione da parte dei sistemi di difesa nemici. La combinazione dei due sistemi consente di lanciare attacchi da varie direzioni, comprese le regioni settentrionali, orientali e del Mar Nero, anche su obiettivi Nato. Qui è bene ricordare che oggi i Paesi membri della Nato non hanno un sistema capace di intercettare armi ipersoniche come il Kinzhal. E tutto questo Vladimir Putin lo sa.




