Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo un estratto del libro in vendita nelle librerie dal 14 luglio, Ucraina. Nell’inferno dell’ultima guerra d’Europa (Signs publishing), di Fausto Biloslavo, inviato di guerra di Il Giornale, Mediaset e Panorama. Un resoconto di due mesi di conflitto vissuti in prima linea, ma anche un viaggio nel tempo. Per capire il presente, infatti, Biloslavo porta i lettori anche all’Euromaidan del 2014, quando tutto iniziò. Di seguito, un estratto del capitolo «Nelle catacombe».
Mentre i bombardamenti russi si fanno sempre più intensi nei sobborghi a nord di Kiev, la capitale resiste e si riorganizza sottoterra. Tutto è pronto per lo scenario peggiore. Gli invasori si avvicinano con l’artiglieria e i raid dal cielo cercando di spianare la strada alla colonna infinita di carri armati, blindati e mezzi di ogni genere entrata dalla Bielorussia puntando, da nord, su Kiev. Le forze ucraine fanno saltare i ponti verso la capitale, primo tra tutti quello di Irpin, a un pugno di chilometri dalla periferia, che diventerà un simbolo.
Il panico travolge la popolazione. La stazione centrale, sfiorata dal frammento di un missile abbattuto dalla contraerea, è invasa da una valanga umana, che cerca disperatamente di salire su un treno verso ovest, il più lontano possibile dalle truppe russe. Molte partenze sono cancellate e la gente ha il volto scuro o disperato. Un anziano con una gamba sola avanza sulle stampelle, trascinandosi con la forza della disperazione. Giovani famiglie con i figli piccoli in braccio si accalcano per raggiungere i binari. Nel caos generale tutti chiedono informazioni: «Il biglietto è gratis?», «Quando possiamo partire?», «La ferrovia è sicura? Non bombardano?».
Sì, bombardano. C’è una nuova potente esplosione vicino alla stazione ferroviaria di Kiev, che colpisce la centrale per il riscaldamento. L’obiettivo è il gelo come alleato di guerra, ma anche questo tentativo fallisce. Gli ucraini in fuga si accalcano sui binari per prendere d’assalto i treni. I vagoni che partono per Leopoli sono strapieni, ma un popolo disperato preme per salire ad ogni costo. Qualcuno prega, altri si arrabbiano e, alla fine, arriva l’ordine da stato di guerra: «Salgono solo donne e bambini». Un gigantesco controllore deve chiudere le porte del treno in faccia a padri, fidanzati e fratelli. C’è chi piange, urla e si dispera, ma bisogna salvare i più deboli. Sono scene strazianti, peggio della guerra vera, fatta di bombe e proiettili. I bambini, atterriti, stringono i peluche. Le coppie non riescono a staccarsi dall’ultimo abbraccio. [...]
Ancora peggio se la passano i 300 pazienti del più importante ospedale di Kiev, inchiodati a letto o alle flebo, che sono stati tutti spostati nei rifugi. In gran parte bambini in attesa di trapianti di midollo o con patologie importanti, che non possono tornare a casa. Il sotterraneo è basso, con i letti sistemati per terra. La luce fioca rende l’atmosfera simile a un girone dantesco dove i più piccoli, per di più malati, sopravvivono dall’inizio della guerra. «Guardate in che condizioni siamo costretti. Molti bambini hanno la febbre. Ho dei figli a casa, ma non posso abbandonare queste donne ed i loro piccoli», spiega Victoria, coraggiosa infermiera bionda con i guanti blu.
Una mamma spinge il neonato in carrozzina, un’altra imbocca la figlia piccola attaccata a una flebo. Sembra il Secondo conflitto mondiale, ma siamo nel 2022.
«Come faremo? Non ci sono abbastanza medicine, non riusciamo ad accudire i nostri figli al meglio. Maledetta guerra», sbotta Roxana. Sottoterra è costretta a vivere anche una fetta di Kiev. Circa 15.000 persone si rifugiano, soprattutto di notte, nelle stazioni della metropolitana.
I vagoni dei treni fermi vengono utilizzati come camerate per dormire e restare al sicuro dai bombardamenti. Materassini per terra con intere famiglie che si sistemano davanti ai grandi schermi della pubblicità. [...]
«Ero andato a casa per prendere qualcosa da mangiare quando è piombato il missile vicino alla torre della televisione. Stavo aprendo la porta e un’ondata di calore mi ha gettato a terra. Sono scappato di corsa nella metropolitana», racconta Alexander, un ragazzone. Al suo fianco la madre, ancora tremante, al pensiero che poteva perdere il figlio. La stazione, con il soffitto a volte, dal 24 febbraio si è trasformata in un enorme dormitorio. Un papà, con un materassino di fortuna in spalla, porta in braccio il figlio piccolo cercando un posto dove passare la notte di coprifuoco. Nel gruppetto di giovani accovacciati su una coperta, uno ha la tuta nera con il simbolo del genere televisivo Sons of anarchy.
Un’altra famiglia disperata ha piantato addirittura una tenda da campeggio. I russi sono ancora a 25 chilometri da piazza Maidan, il centro di Kiev, ma solo sei dai sobborghi di periferia. Quando si avvicineranno cosa succederà? Victoria, ultrasettantenne, dopo avere sentito dei combattimenti alla centrale nucleare di Zaporizhzhya, la più grande d’Europa, pensava che «fosse esploso un conflitto atomico». Suo padre ha combattuto a Stalingrado ed è entrato a Berlino nel 1945. Quando è nata la figlia, pochi anni dopo, l’ha chiamata Victoria, anche se la guerra ai russi era costata venti milioni di morti.
«Non avrei mai pensato di vivere qualcosa del genere, russi contro ucraini in questa maniera» spiega la figlia del soldato, «Ho tanta paura che scoppi la terza guerra mondiale».
I cartelloni luminosi della pubblicità e gli orari dei treni contrastano con l’umanità impaurita che si rifugia nella stazione della metro per evitare le bombe. Valeria, che fa la sceneggiatrice, è nervosa:
«Per favore scrivi che la Nato deve aiutarci. Guarda come siamo ridotti. Almeno imponete il divieto di sorvolo ai caccia russi. Oramai siamo piombati in un incubo senza fine».
Molti dei rifugiati sotto terra hanno poche o distorte notizie dall’esterno. Non tutti infatti escono durante il giorno per mantenere un minimo contatto con la realtà.
Dopo le prime settimane di guerra cominciano a svuotarsi gli scaffali dei pochi supermercati, aperti a singhiozzo, nella capitale. Manca pure il pane, ma restano i prodotti di importazione come prosciutto serrano e tonno di qualità che per gli ucraini hanno prezzi improponibili.
I giornalisti, al contrario, ne fanno incetta. L’albergo garantisce una colazione mattutina sempre più smilza e si mangia una volta sola alla sera con menù sempre uguale: scatolette di tonno o prosciutto. [...]
Le stazioni della metro sono rifugi spaziosi a differenza dei bunker di periferia ricavati nei sotterranei, quasi invivibili, dei palazzi.
Umidità, soffitti bassi, sporcizia e freddo sono i difetti anche dei bunker sotto le scuole. Galina Sheblekova, che ha imparato l’italiano lavorando ad Arcore e a Monza, è scappata dall’entroterra dopo l’arrivo dei russi. «I carri armati sono arrivati e tiravano cannonate sui palazzi più alti abitati da civili, gente come me», racconta, « Poi sono piombati gli aerei sganciando le bombe».
Impellicciata per il freddo e con il capo coperto da uno scialle bianco, non riesce a trattenere le lacrime: «Adesso, quando sento le sirene, corro nel bunker», le catacombe di Kiev.
Ecco la telefonata dalla Libia dei 18 pescatori detenuti con i familiari attraverso l'Unità di crisi della Farnesina. Un buon segnale che si aggiunge ad indiscrezioni ottimistiche su una possibile soluzione del caso a breve.
Si tratta di brevi stralci che Panorama pubblica in Esclusiva del colloquio avvenuto mercoledì sera, durato circa 40 minuti, fra i familiari ed i pescatori prigionieri in Libia da 74 giorni.
All'inizio, l'armatore Marco Marrone parla con il capitano del peschereccio sequestrato Medinea, Pietro Marrone. Il comandate rassicura "stiamo bene, tutti bene" e ringrazia Dio. Poi evidenzia: "Ma lo sai dove siamo, dovete aiutarci, abbiamo bisogno di andarcene che tutti pazzi stiamo diventando".
Il secondo peschereccio sequestrato è l'Antartide. Alla fine interviene in collegamento la mamma del capitano, Rosetta. E Marrone le ripete dalla Libia "non ti preoccupare, non ti preoccupare".Dopo l'emozionante chiamata i familiari si sono incontrati con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. "Ci ha molto rassicurato - spiega l'armatore Marrone - Mi auguro che arrivi quel colpo di reni che porti alla liberazione dei nostri cari".
La telefonata segue la visita del ministro Di Maio negli Emirati arabi, padrini militari e finanziari del generale Khalifa Haftar, che tiene prigionieri i 18 pescatori di Mazara del Vallo.
Le due facce della giustizia. Inchieste flop sulle Ong, giudici inflessibili su Salvini
- Nel nuovo numero di Panorama, il doppio binario della magistratura italiana: gli attivisti sono sempre graziati mentre chi ha chiuso i porti rischia la galera.
- L'Aula decide sul processo all'ex ministro. Fdi aiuterà il Carroccio a stanare Pd e M5s.
Lo speciale contiene due articoli.
Inchieste flop sulle Ong, navi prima sequestrate e poi lasciate libere di tornare in mare a recuperare migranti. Talebani dell'accoglienza non perseguiti, il mirino è invece puntato su Guardia di finanza e Marina militare. L'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è sotto tiro per avere chiuso i porti. La giustizia funziona a intermittenza, se non alla rovescia, quando ci sono di mezzo le Organizzazioni non governative? «Il tema è se la politica dell'immigrazione spetti ancora a governo e Parlamento oppure se debba essere consegnata nelle mani dell'autorità giudiziaria. È un tema che dovrebbe interessare la politica nel suo insieme, e invece una parte della politica accetta di autolimitarsi pur di colpire l'avversario lasciando fare una parte della magistratura» è il j'accuse di Alfredo Mantovano, magistrato ed ex sottosegretario all'Interno.
Il 4 febbraio il tribunale di Palermo ha chiesto il dissequestro della Mare Jonio, la nave della Mediterranea Saving Humans, che lo scorso anno è stata bloccata tre volte e poi lasciata andare per tornare a recuperare migranti. [...] Nave Sea-Watch 3 dell'omonima Ong tedesca, bloccata due volte nel 2019, è stata di nuovo dissequestrata il 19 dicembre. «Sea-Watch 3 è libera!» ha scritto su Twitter Carola Rackete, che lo scorso giugno non aveva rispettato il divieto del Viminale di ingresso nelle acque territoriali italiane. E per far sbarcare i migranti ha quasi schiacciato contro la banchina una motovedetta della Guardia di finanza.
Il 17 gennaio la corte di Cassazione ha stabilito che l'arresto della «capitana» tedesca, la scorsa estate, era illegittimo. [...] Il 28 gennaio la stessa Procura di Agrigento ha chiesto l'archiviazione per il no global Luca Casarini e il comandante Pietro Marrone della nave Mare Jonio, accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e di avere disobbedito all'ordine di una nave militare. Il caso riguarda lo sbarco a Lampedusa del 19 marzo 2019 di 50 migranti recuperati al largo della Libia. I pubblici ministeri Salvatore Vella e Cecilia Baravelli sono convinti che «la condotta degli indagati non risulta [...] antigiuridica». Al contrario, negli atti, si punta il dito contro nave Capri della Marina militare, che a Tripoli forniva appoggio alla Guardia costiera libica e un pattugliatore delle Fiamme gialle che ha cercato di fermare Mare Jonio. «Dagli elementi probatori acquisiti nel presente procedimento» scrivono i pm «sembra [...] che nave Capri e quindi la Marina militare italiana svolgano di fatto le funzioni di centro decisionale della c.d. Guardia costiera libica, siano cioè il reale centro operativo di comando». È la tesi «accusatoria» delle Ong, nonostante la missione in Libia sia approvata dal Parlamento su richiesta del governo fin dai tempi dell'esecutivo di Paolo Gentiloni.
I pm puntano il dito anche contro il comandante del pattugliatore Paolini della Guardia di finanza che ha intimato l'alt alla Mare Jonio sostenendo che «non siete autorizzati da autorità giudiziaria italiana all'ingresso in nostre acque nazionali». Nessun magistrato è intervenuto, ma i pm sono risaliti fino al tenente colonnello Alessandro Santarelli che da Palermo avrebbe dato l'ordine. Il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, si è affrettato a smentire che i finanzieri siano indagati, ma Fiamme gialle e Marina stanno finendo sulla graticola al posto delle Ong. Il bersaglio grosso è Salvini, accusato di sequestro di persona per aver bloccato la Gregoretti e la Open arms. Il 12 febbraio il Senato vota se mandare a processo l'ex ministro sul caso di questa nave. «È una schizofrenia». La Procura della Repubblica di Catania sollecita l'archiviazione perché «non sussistono i presupposti del delitto di sequestro di persona né di nessun altro delitto» fa notare Mantovano. Il Tribunale dei ministri, sempre di Catania, non ne tiene conto e chiede di processare Salvini. «Ha il potere di farlo, ma in un sistema processuale accusatorio l'inversione dei ruoli appare non poco singolare», spiega il magistrato, vicepresidente del Centro studi Livatino.
Il 4 febbraio è arrivata sulla testa di Salvini la seconda tegola dei 161 migranti trattenuti per 19 giorni in mare e poi sbarcati il 20 agosto, ma per Mantovano «il caso Open Arms non è diverso dalla Gregoretti».
Guerra in Senato. Il leader leghista è pronto a tutto
I senatori della Lega resteranno in Aula e il leader Matteo Salvini parlerà dai banchi di Palazzo Madama per difendere le decisioni prese da ministro sul caso Gregoretti. Al termine di una giornata estenuante, fatta di una lunga riunione con i senatori leghisti, l'ex numero uno del Viminale ha deciso di metterci la faccia. Lo aveva fatto intendere già in mattinata, da Venezia, durante una delle sue dirette su Facebook: «Domani (oggi, ndr) c'è il processo. Ribadisco: ritengo che un processo nei miei confronti sia privo di qualsiasi fondamento perché ho difeso l'interesse nazionale e ho protetto l'Italia e gli italiani, controllando chi entra e chi esce da questo Paese. Se M5s, Pd e Italia viva, invece, ritengono che sia un crimine, io non scappo, non ho paura. Voteranno per mandarmi a processo. I senatori della Lega ovviamente non si opporranno».
Salvini e i suoi si preparano così ad affrontare una giornata piena di insidie dal punto di vista politico e istituzionale. La riunione con i senatori è stata tra le più difficili di questa legislatura. Salvini ha ribadito ai suoi di non impedire il processo. Il leader della Lega ha deciso: vuole avere un chiarimento in tribunale sulla legittimità del proprio operato. Non teme le aule di tribunale né quello che potrebbe accadere dopo. Questa è la decisione. Il gruppo di senatori ha invece fatto resistenza. Sono in tanti a essere spaventati di fronte all'ipotesi di un lungo processo penale, dove il leader della Lega potrebbe essere condannato. E se dopo una sentenza sfavorevole di primo grado scattasse la legge Severino? E se poi diventasse ineleggibile? Sono tanti i dubbi che in queste ore attraversano non solo la Lega, ma tutta la coalizione di centrodestra che non vuole perdere un leader che è dato nei sondaggi oltre il 30%. La prima a esprimere dubbi è stata l'avvocato Giulia Bongiorno.
Lo ha ripetuto spesso: mandare Salvini alla sbarra può essere controproducente. Lo ripeterà, a quanto pare, anche in Aula. Anche lei prenderà la parola stamattina. Ma l'ex ministro dell'Interno ha insistito: «Non dovete opporvi», in linea con quanto deciso nelle ultime settimane. La situazione è al momento piena di incognite. I senatori saranno in Aula, ma potrebbero astenersi o comunque non partecipare al voto sull'ordine del giorno presentato da Fratelli D'Italia e Forza Italia. Il documento di 6 pagine viene presentato dal partito di Giorgia Meloni per evitare il processo al leader della coalizione. Serve il voto palese e la maggioranza dell'Aula. Difficile che passi, ma allo stesso tempo potrebbe stanare la maggioranza del governo giallorosso che in giunta si era defilata in occasione del voto. Ora Pd, Italia viva e 5 stelle dovrebbero in teoria votare contro l'ordine del giorno. In ogni caso durante la riunione con i senatori sono state affrontate anche le scelte politiche delle ultime settimane. L'errore, come ha più volte ribadito proprio la Bongiorno, è stato fatta proprio il 20 gennaio. Quando il leader della Lega, nel pieno della campagna elettorale in Emilia Romagna, chiese ai suoi di votare a favore dell'autorizzazione a procedere nella giunta di palazzo Madama. Quel voto rischia di pesare come un macigno sul futuro politico del leader leghista. Perché, finita la sbornia elettorale, restano sul tavolo i problemi istituzionali. Proprio Bongiorno ha spiegato che «l'idea che un uomo possa rimanere per anni e anni a processo non dovrebbe piacere a nessuno. Lui pensa di andare in Aula e dimostrare davanti a tutti in tempi brevi che ha ragione. Però, questo rischia di non succedere. I tempi potrebbero essere lunghissimi e c'è il problema di restare bloccati per anni, ostaggi del processo». Ma il leader leghista non ha voluto ascoltare. Stamattina inizierà i lavori la senatrice Erika Stefani, che presenterà una relazione su quanto deciso in giunta per le autorizzazioni. Poi sarà presentato l'ordine del giorno e quindi ci saranno gli interventi in Aula. Atteso l'intervento di Salvini come quello dei colleghi senatori. Una linea comune non c'è. Anche per questo non è stata una riunione semplice quella di ieri. Più volte Salvini ha parlato ai senatori dei propri figli e della necessità di spiegargli che «papà non è un delinquente».





