Twitter, Musk dovrà rendere il social profittevole o l’uccellino finirà spennato dai debiti

Le direzioni in cui Elon Musk può sviluppare Twitter per non finire intrappolato tra i debiti
Che poi non serve speculare chissà quanto: il futuro di Twitter, Elon Musk l’ha stretto dentro un cinguettio, tra emoji di razzi, stelle e altri policromi slanci adolescenziali.
Sotto un sonoro esultante «Yesss!!!» (sic!) per celebrare l’acquisizione da 44 miliardi di dollari della piattaforma, l’uomo più ricco del mondo ha elencato cosa intende fare del suo salatissimo shopping, oltre a delistarlo e renderlo privato: «Una piazza digitale dove i temi vitali del futuro dell’umanità vengono dibattuti». E ancora, scendendo nella pratica, fuori dalle vaghe prospettive siderali: «Migliorare il prodotto con nuove caratteristiche, rendere l’algoritmo open source per incrementare il senso di fiducia, sconfiggere gli spam bot». Insomma, trasformarlo in un luogo in cui esprimersi con pienezza, senza censure o disturbi artificiali.
Tra il twittare e il fare, però, ci sono di mezzo molti ostacoli: «Musk sembra un politico che lancia slogan, ma non sa come mettere concretamente mano ai problemi. Dice cose fumose», è critico Vincenzo Cosenza, tra i principali esperti di social media in Italia. Nel dettaglio, «aprire l’algoritmo, significa mostrare a tutti come funziona al suo interno, incluso a quanti fanno spam. È una mossa che potrebbe avvantaggiarli».
Al momento gli utenti sono molestati da finti iscritti e sistemi automatici che li martellano propagandano un po’ di tutto (in particolare investimenti in criptovalute, guarda caso una delizia del patron di Tesla), domani tale incisività anziché indietreggiare potrebbe prosperare. Mentre eliminare ogni moderazione, togliere ai contenuti qualsiasi filtro un po’ come succede su Telegram, presuppone una deriva. «L’insulto diretto e continuo alle persone, una tendenza totale alla radicalizzazione. La libertà sfrenata di parola è un concetto affascinante, dai nessi problematici», commenta Cosenza.
Di sicuro, la manovra non piacerà agli investitori pubblicitari, che secondo la società di ricerche eMarketer hanno pesato per l’89% sulle entrate di Twitter nel 2021. Nemmeno il più temerario stratega delle pr vorrebbe vedere il suo brand comparire dentro un feed di epiteti razzisti, fake news, immagini pornografiche ed estremismi assortiti. Non che ora l’uccellino blu scoppi di salute: nell’ultimo quarto del 2021 ha totalizzato 1,57 miliardi di fatturato contro gli 1,58 miliardi attesi proprio per un rallentamento del flusso di inserzioni. E alcuni analisti preconizzano un peggioramento ulteriore riferito ai primi tre mesi del 2022, i cui risultati sono attesi per domani. Al punto che il board, dopo le iniziali resistenze alle pressioni di Musk, si sarebbe deciso a cedere alle sue lusinghe perché «i guadagni probabilmente non saranno arcobaleni e sorrisi», per citare le parole di Dan Ives della Wedbush Securities raccolte dalla Cnbc.
Comunque vada, poco importerebbe all’opulento imprenditore, che secondo il quotidiano britannico The Guardian starebbe costruendo, attraverso l’acquisizione, «il suo ultimo disperato tentativo di celebrità». O l’ennesimo. Al punto di sganciarsi dalle logiche pubblicitarie, puntando su un modello a sottoscrizione: «Ma per funzionare, per essere sostenibile, richiede una massa enorme di persone disposte a pagare per scrivere e leggere i contenuti. Non la vedo una strada sana dal punto di vista economico», osserva Cosenza. D’altronde, Twitter Blue, l’abbonamento con funzioni premium già disponibile, non è decollato, né ridurne il costo (oggi fissato a 3 dollari) pare poi questo incentivo strabiliante.
Per quanto sia il suo giocattolo preferito, la valvola di sfogo, un confessionale ecumenico, Musk non può permettersi una piattaforma che si traduca in un’emorragia di soldi. Deve rendere conto alle banche, che per finalizzare l’offerta gli hanno concesso 25 miliardi di dollari. Per metà sono prestiti in cambio di azioni di Tesla, il cui valore, alla lunga, potrebbe uscire danneggiato da decisioni in grado di minare la profittabilità del social network. I primi segnali sono stati scoraggianti: ieri, a due ore dalla chiusura, il titolo di Tesla cedeva circa l’11%. Un crollo frutto del nervosismo degli investitori consapevoli che, lo ricorda il Financial Times, Musk potrebbe essere costretto a vendere altre azioni per pagare il resto dell’acquisizione. Circa Twitter, anch’esso in calo a Wall Street, «l’operazione verrà finanziata con una combinazione di debito e capitale e ci aspettiamo che la leva finanziaria di Twitter aumenti in modo sostanziale al di sopra del limite di 1,5 volte, livello per un downgrade del rating BB+», scrive in una nota S&P, che ha messo l’acquisizione sotto la sua lente. Prima di decidere se procedere al taglio del rating, aspetterà che l’operazione si concluda, ma i suoi rilievi non suonano come una benedizione. Anzi.
Tanto scetticismo, forse, potrebbe risultare ingeneroso: a Musk, il colonizzatore di Marte, occorrerebbe lasciare il beneficio del dubbio. «Magari ha in mente soluzioni futuristiche», ipotizza Cosenza, «come la decentralizzazione dei server, l’applicazione di meccanismi tipici della blockchain, lasciando la totale responsabilità dei tweet a chi li scrive. Ma in tal caso, sarebbe parecchio difficile intercettare chi pubblica i contenuti più estremi. Twitter diventerebbe una terra di nessuno».
Già in rete lo chiamano «hell site», il sito infernale. Questa non sembra la strada per elevarlo nemmeno a un purgatorio. «Di certo», conclude Cosenza, «quando sarà un’azienda privata non avrà gli obblighi di pubblicità della Borsa. Per gli iscritti, anziché maggiore, la trasparenza sarà minore». Non è di quest’idea Jack Dorsey, il fondatore della piattaforma, che giudica l’operazione con favore, in particolare il delisting: «Toglierla da Wall Street è la prima mossa giusta da fare», ha scritto in un cinguettio. E in un altro: «Elon è la soluzione di cui mi fido». Bisognerà capire se la penseranno allo stesso modo gli inserzionisti, gli utenti, o qualunque altra fonte o strategia di guadagno Musk deciderà di coinvolgere per evitare che l’uccellino finisca spennato dai debiti.
A volte il calcio ristabilisce una logica. A giocarsi la finale della Supercoppa italiana, lunedì 22 dicembre a Riyadh, saranno Napoli e Bologna: i vincitori dello Scudetto contro i vincitori della Coppa Italia. Una finale inedita, forse non quella desiderata dal pubblico saudita - riempire lo stadio senza il Milan o l'Inter a queste latitudini è assai complicato - ma certamente quella decretata dal campo.
Quel campo che stasera ha premiato un Bologna che dopo lo schiaffo preso in apertura di partita, con il gol di Marcus Thuram arrivato quando il cronometro non era arrivato nemmeno a due minuti, ha saputo ricompattarsi, reagire e giocarsela faccia a faccia con l’Inter. Protagonista assoluto di questa impresa, che comunque andrà la finale contro il Napoli rimarrà nella storia del club felsineo, è stato Federico Ravaglia. L’eroe che non ti aspetti. Il secondo portiere della rosa di Vincenzo Italiano, chiamato a difendere i pali rossoblù per l’infortunio di Skorupski. La risposta non poteva essere delle migliori: tre parate decisive nei 90 minuti regolamentari, di cui due ai limiti del miracoloso, e due rigori neutralizzati a Bastoni e Bonny.
A onor di cronaca va riconosciuto che l’Inter di occasioni per chiuderla prima della lotteria dei rigori ne ha avute molte. A fine partita le statistiche sono emblematiche: 14 tiri totali a dimostrazione del fatto che la squadra di Chivu macina azione offensive ma raccoglie decisamente meno di quanto semina. I nerazzurri vivono ancora di fiammate all’interno della partita e se non capitalizzano quanto costruiscono, contro una squadra ben organizzata e forte come il Bologna può accadere di pagare dazio.
Nel match dell’Al-Awwal Park, davanti a 16.591 spettatori – molti meno rispetto alla prima semifinale – i favori del pronostico erano tutti per l'Inter. In campo, però, il Bologna ha dimostrato ancora una volta di avere anima, organizzazione e carattere, riuscendo a rientrare in una partita che si era compromessa fin da subito. A partire fortissimo, infatti, è stata proprio la squadra nerazzurra che dopo appena due minuti si è portata in vantaggio: Bastoni sfonda a sinistra e pennella sul secondo palo per Thuram, che in acrobazia non lascia scampo a Ravaglia. Sembrava l’inizio di una serata in discesa, confermata subito dopo dalla ripartenza di Bonny (fermato dopo la conclusione fuori di poco dal fuorigioco) e da altre accelerazioni interiste. Ma il Bologna non si è scomposto, è cresciuto e col passare dei minuti ha cominciato a prendere campo. Josef Martinez, schierato titolare al posto di Sommer, ha dovuto opporsi prima a Bernardeschi, ma nulla ha potuto quando al 35', grazie all'intervento del Var, Chiffi ha spedito sul dischetto Orsolini in seguito a un tocco di braccio di Bisseck in area di rigore.
Nella ripresa la partita si è accesa definitivamente, pur rimanendo sull'1-1 fino al fischio finale. L’Inter ha costruito molto, soprattutto sulla corsia sinistra con Dimarco, ma ha sbattuto ripetutamente su Ravaglia. Una nuova svolta sarebbe potuta arrivare al 56', quando Chiffi prima ha assegnato un rigore per un presunto intervento scomposto di Heggem su Bonny, salvo revocarlo dopo il consulto al monitor. Al 70' Chivu ha provato ad aumentare il peso specifico dell'attacco inserendo Lautaro Martinez al posto di un Thuram che dopo il gol iniziale si è eclissato, oltre a Frattesi e Diouf per Mkhitaryan e Luis Henrique. Dall'altra parte Italiano ha rimescolato le carte con Immobile, Ferguson e Fabbian al posto di Castro, Odegaard e Pobega. E le occasioni non sono mancate, da una parte e dall'altra: Lautaro, Dimarco e Zielinski ci hanno provato per l'Inter trovando come ostacolo insormontabile il solito Ravaglia; per il Bologna Fabbian, con un destro a giro dal limite in pieno recupero, ha impegnato in una parata capolavoro Josef Martinez. Ma il risultato non è cambiato e la semifinale si è decisa dal dischetto. Dove al primo round segnano Lautaro e Ferguson. Poi Ravaglia ipnotizza Bastoni e Martinez risponde su Moro. Barella calcia alto e Miranda lo imita. Al quarto rigore Ravaglia para anche il pessimo tiro di Bonny, mentre Rowe non sbaglia e porta avanti il Bologna. Il quinto rigore è quello decisivo: De Vrij, con l'aiuto della traversa, dà ancora una chance all'Inter; ma Immobile, che qui ha già vinto il trofeo nel 2019 con la maglia della Lazio, la mette sotto il sette e fissa l’ultimo sigillo che spedisce per la prima volta nella storia il Bologna in una finale di Supercoppa italiana.
A fine partita c’è amarezza nelle parole di Chivu, che però difende la prestazione: «Mi prendo quello che abbiamo fatto, soprattutto nel secondo tempo. Abbiamo dominato ma sottoporta abbiamo sbagliato. Nel calcio come nella vita si cade e ci si rialza». Italiano, invece, si gode l’impresa: «Questa squadra ha un’anima. Andare sotto dopo due minuti poteva ammazzarci, invece siamo rimasti in partita. Ora ci giochiamo una partita storica». Lunedì, contro il Napoli, il Bologna avrà la possibilità di scrivere una pagina che fino a poco tempo fa sembrava impensabile.
Enrico Montesano: «È l’epoca della satira “corretta”. Ho pagato per la mia indipendenza»
Enrico Montesano ritorna a teatro dopo una lunga assenza. Ottanta voglia di stare con voi, il titolo dello spettacolo, che racchiude il senso di questa nuova avventura in giro per l’Italia, a riallacciare il filo che lo lega al pubblico da sempre.
Cosa rappresenta per lei questo ritorno in teatro?
«Abbiamo già fatto uno spettacolo a Trapani, al Cine Teatro Ariston. È andato molto bene, il teatro era pieno. Per me è stata una lunga attesa. Nel 2020 facevo uno spettacolo in un teatrino off, come si dice in America, dove sperimentavo questo mio nuovo monologo».
Ha dovuto interromperlo per la pandemia.
«Smisi di fare le recite il 19 gennaio 2020. Lo volevo riprendere, portandolo in un teatro grande, ma è stato impossibile perché i teatri sono rimasti chiusi per molto tempo. Siamo passati dall’emozione alla rimozione. Quando hanno riaperto, sovrapponendosi le nuove produzioni alle vecchie, non c’erano spazi. Tra parentesi, in quel periodo chi ha assunto una posizione indipendente, l’ha pagata. Io ho scelto una parola di libertà, come diceva il filosofo Giorgio Agamben. A me m’ha rovinato Agamben. A Petrolini ’a guera, a me Agamben! Adesso il tempo è passato e per fortuna il tempo è un grande medico».
Quindi avverte che le cose sono cambiate e che l’ostracismo che ha vissuto si sta a poco a poco allentando?
«Un po’, ma grazie al cielo il pubblico è superiore alle scaramucce, ama l’attore per quello che gli può offrire di distrazione e divertimento in quelle due ore e mi ha sempre seguito. Sono riconoscente di questo affetto e ricambio. Ecco perché ho scritto Ottanta voglia di stare con voi».
Anche perché lei è sempre stato amato, nessuno lo può negare.
«Noi abbiamo seminato bene negli anni Settanta-Ottanta e anche un po’ negli anni Novanta. Nel 2007 ho fatto È permesso, uno spettacolo non conforme per un pubblico politicamente scorretto. Già allora parlavo della cultura del piagnisteo, proprio come diceva Robert Hughes nel suo bellissimo libro. Ce l’avevo con gli inglesismi, con il politicamente corretto, era uno spettacolo coraggioso».
Sono aumentati gli inglesismi...
«La mia lotta contro gli inglesismi è una lotta contro i mulini a vento. Ormai tutto si svolge sui social network, si parla di slot, di lab, di score, ma che è? Parla come magna, te possino acciaccatte!».
Com’è cambiata la comicità nell’era del politicamente corretto?
«Adesso, intanto, si fa la satira non al potere, ma a chi critica il potere, che è un controsenso, però è comodo, si rischia zero. E poi c’è una grande autocensura. Se un marziano, come diceva Flaiano, sbarcasse a Roma, vedrebbe un Paese che guarda solo trasmissioni canore o giochi. L’Italia è il Paese che ha più cantanti per chilometro quadrato, cantano tutti, non solo i professionisti, ai quali faccio tanto di cappello, ma qui cantano zia, madre, padre, fratello, sorella!».
Un altro format sono le interviste…
«Ormai sulle reti generaliste non fanno che intervistarsi addosso, sempre con l’occhio rivolto al passato, «allora le faccio vedere…». Ormai è una replica diffusa di quell’idea geniale che fu Ieri e oggi, che fece Leone Mancini all’epoca del Secondo canale Rai».
Non le propongono interviste televisive?
«Sono stato a Ciao Maschio ultimamente, mi sono anche divertito perché abbiamo contrabbandato un po’ di spettacolo di varietà. È un programma un po’ diverso perché ci sono tre uomini e, se si crea un minimo di empatia, esce fuori una conversazione piacevole, quindi sfugge all’intervista fissa. Ci sono interviste interessanti in tv, come quelle che fa Peter Gomez, dipende anche dall’intervistatore».
Ormai la star è chi intervista, non più l’intervistato.
«Certo, è un mondo alla rovescia».
Invece negli anni Settanta, quando lei era un comico d’avanguardia, la situazione era diversa.
«Io ho preso un premio internazionale della comicità al Festival della Rosa d’oro di Montreux con Quantunque io, trasmissione anomala perché non c’era orchestra, non c’era balletto, prevedeva una serie di trovate comiche e di gag. In ogni puntata avevo una soubrette famosa, da Nadia Cassini a Gloria Guida, Sydne Rome a Janet Agren. Il dirigente di Rai 2 dell’epoca, mi pare che fosse Mario Carpitella, mi fece vedere delle videocassette: “Enrico, andiamo su questa direzione: Monty Python, Dave Allen, Marty Feldman…”, comici anglosassoni che pochi conoscevano».
L’ultimo suo programma risale a 20 anni fa…
«Trash (Non si butta via niente) nel 2004, l’ultima cosa che fece Gabriella Ferri prima della sua morte. All’epoca c’erano in Rai dirigenti capaci che andavano nei teatri, si informavano, a cui devo molto perché hanno fatto scelte coraggiose. Oggi c’è un po’ di timore: “Rifaccio per la ventesima volta la stessa trasmissione, male che vada faccio lo stesso ascolto”».
Cosa le piacerebbe fare, se trovasse un dirigente come quelli di una volta?
«Un varietà».
Invece il cinema, dove non la vediamo da qualche anno?
«Che cos’è il cinema? Le piattaforme hanno reso obsoleta la sala cinematografica».
Anche il livello dei film italiani è molto sceso…
«Purtroppo è molto autoreferenziale».
Lei ha avuto l’opportunità di lavorare con grandi registi…
«Sono felice perché ho partecipato a un bel periodo: Sergio Corbucci, Mario Monicelli, Giorgio Capitani, Pasquale Festa Campanile, Steno, i maestri della commedia italiana. Come diceva Dino Risi, con cui non sono riuscito a lavorare, perché commedia all’italiana? Sembra un dispregiativo. Commedia italiana. La gente ancora le ricorda queste commedie così semplici, se volete, mentre i critici cinematografici ci massacravano».
Erano snob, se ridevano, non lo ammettevano…
«Tranne Tullio Kezich, che su La Repubblica fece una critica per Aragosta a colazione che conservo e ogni tanto, quando sono giù morale, me la leggo perché per una sequenza del film mi paragona a Buster Keaton».
Nei suoi primi successi, come Io non scappo… fuggo e Io non spezzo… rompo, faceva coppia con il grande Alighiero Noschese.
«Era una coppia curiosa che però ha aperto la strada ad altre coppie… Noi eravamo i Bud Spencer e Terence Hill della commedia!».
Si trovava bene con lui?
«Sì, perché Alighiero era come un papà. Una persona buona, generosa. Nel mio spettacolo Ottanta voglia di stare con voi mostro una bella foto con Alighiero perché ripercorro la mia vita, che poi coincide con la mia carriera, e quindi ogni tanto scorrono delle foto. Così racconto la mia educazione religiosa, sentimentale, professionale, civica… e lì cominciano i guai! Si riaffaccia timidamente nel mio spettacolo un minimo di satira di costume e politica. Se io riguardo a quella che è stata la mia vita di cittadino, ho avuto il massimo del successo quando l’Italia era la quarta potenza industriale del mondo. Ormai ci siamo assuefatti ad essere una piccola provincia dell’impero, neanche la più importante».
Anche in campo culturale...
«Ho compiuto per la quarta volta 20 anni, oppure per la seconda volta i 40. In questi ultimi 40 anni siamo riusciti a ritornare a quello che eravamo nell’Ottocento, come diceva Metternich, una bella espressione geografica, dove si viene a mangiare, a suonare il mandolino, a prendere il sole».
Quali sono le figure nella sua carriera a cui sente di dover qualcosa?
«Pietro Garinei è stato una grande scuola. Mi diceva: “Tu sei un attore italiano, usa pure la tua calata romana, ma devi recitare in modo che ti capiscano dalla Val d’Aosta alla Puglia”. Ad Antonello Falqui, Castellacci e Pingitore dobbiamo trasmissioni di varietà che facevano milioni di ascolti, come Dove sta Zazà e Mazzabubù. Enrico Vaime e Italo Terzoli sono stati altri due autori che ho avuto la fortuna di incontrare».
Non le mancano adesso queste figure nella scrittura degli spettacoli?
«Sì, mi mancano perché a un certo punto quel gruppo di registi, autori e produttori si è esaurito. Uno si guarda attorno e dice: «Mannaggia, non c’è più nessuno, sono rimasto solo». Negli ultimi tre o quattro anni sono stato a guardare quello che succedeva e siccome non è che mi piacesse tanto, sono stato zitto».
Lo spettacolo arriverà nella sua Roma?
«Hanno pubblicato dieci-undici date e tutti mi dicono: “Non vieni in Veneto, non vieni a Genova, non vieni a Firenze?”. E io rispondo: aspettate perché i nostri produttori comunicano di volta per volta». Oggi fanno così, si danno le notizie a puntate!».
Strategie di marketing, altro inglesismo...
«Con Bravo sono stato a Milano un mese, 100.000 spettatori. Mi dettero L’Ambrogino d’oro, al quale tengo moltissimo. Adesso ti dicono: “Facciamo solo un giorno, poi se va bene, ci ritorniamo”. La mia generazione è quella che ha vissuto più cambiamenti di tutte. Questo lo racconto nello spettacolo. Sono nato che c’era il telefono duplex attaccato alla parete, adesso con mio figlio, che vive a Parigi, ci videochiamiamo. Se l’avesse saputo mio nonno, mi avrebbe detto: “Tu sei matto, stai a di’ una cosa folle. Ma che è un romanzo di Verne?!”».
Già fu un cambiamento epocale l’avvento delle tv private.
«Grazie alle tv private è nato il fenomeno di Febbre da cavallo, che per problemi di distribuzione non era andato benissimo nelle sale. Evidentemente glielo vendevano a basso costo, lo prendevano per tre passaggi e facevano un sacco d’ascolto. Le tv locali di tutta Italia hanno trasmesso Febbre da cavallo a spron battuto, anzi al galoppo!».
Una buona distribuzione era fondamentale...
«Ho diretto un solo film, A me mi piace, per il quale mi hanno dato il David di Donatello e il Nastro d’argento come miglior regista esordiente. Il film andava bene, faceva 30 milioni di lire in una sala cinematografica, per esempio il Maestoso su via Appia, a Roma, ma mi smontarono perché l’esercente aveva un contratto con le major americane e c’era Rocky di Stallone. Come fa una distribuzione italiana a reggere con Rocky? Non ne ho diretti più perché il cinema a volte è frustrante. Meglio il teatro, dove ogni sera consumiamo un rito antichissimo».
Il 2025 rappresenta un punto di svolta per Banca Mediolanum. «Un anno memorabile», lo definisce Stefano Volpato, direttore commerciale, non solo per i risultati economici - budget ampiamente superati - ma perché segna il passaggio da una fase di crescita a una di trasformazione strutturale. L’obiettivo dichiarato è ambizioso: accompagnare i clienti verso l’autonomia e l’indipendenza finanziaria in età pensionabile, rendendo possibile, nei fatti, la triplicazione della ricchezza finanziaria pro capite, sottolinea Volpato durante la tradizionale convention con la rete a Merano, per tirare le somme dell’anno che sta per finire e definire le strategie del 2026. Un anno, ha confermato l’amministratore delegato Massimo Doris, destinato appunto a superare il record del 2024, con una raccolta netta di 10,4 miliardi e oltre 2 milioni di clienti e un primato, nell’universo Assoreti tra raccolta, mutui e prestiti concessi oltre che le polizze sottoscritte.
Com’è tradizione in casa Mediolanum, si può sempre fare di più. Come? Il punto di partenza è un contesto in rapido cambiamento. L’invecchiamento della popolazione, la crisi del welfare pubblico e l’aumento della longevità stanno ridefinendo il concetto stesso di pensione. Dal 1948 l’aspettativa di vita media è cresciuta di circa 20 anni e continuerà ad aumentare, anche grazie ai progressi tecnologici e all’Intelligenza artificiale applicata alla medicina. In questo scenario, evidenzia Volpato durante un’ora di intervento davanti alla rete, affidarsi esclusivamente alla previdenza pubblica non è più sufficiente. Un allarme già lanciato dal World Economic Forum nel 2019: in assenza di una pianificazione adeguata, i pensionati rischiano di esaurire i propri risparmi otto/dieci anni prima della fine della vita. È qui che si inserisce il ruolo della consulenza finanziaria, chiamata a trasformare il risparmio in progetto di lungo periodo.
«I numeri spiegano il potenziale», precisa Volpato. In Italia la ricchezza finanziaria pro capite è pari a circa 120.000 euro, ma una quota rilevante è parcheggiata in liquidità. Nel 2024 sui conti correnti giacciono 1.580 miliardi di euro, capitale che produce rendimenti reali prossimi allo zero. La prima leva per aumentare la ricchezza è dunque la riallocazione efficiente di queste risorse: ridurre la liquidità in eccesso e investirla in modo diversificato tra strumenti obbligazionari e azionari, coerentemente con il profilo di rischio e l’orizzonte temporale. Secondo le simulazioni Mediolanum, se negli ultimi 30 anni una parte significativa di questa liquidità fosse stata investita con un portafoglio bilanciato - metà in obbligazioni e metà in azioni - il sistema avrebbe generato oltre 4.200 miliardi di euro di ricchezza aggiuntiva. Questo meccanismo, replicato su base individuale, consente nel tempo di raddoppiare il capitale finanziario medio.
La seconda leva è la previdenza complementare, in particolare il conferimento del Tfr. Destinare il Tfr a un Piano individuale pensionistico consente di beneficiare di una tassazione finale ridotta e di rendimenti mediamente più elevati rispetto alla rivalutazione del Tfr lasciato in azienda. Nel caso di un lavoratore quarantenne, con un reddito lordo di 56.000 euro l’anno, la differenza può superare i 100.000 euro di capitale finale, a parità di contributi versati. Un incremento che, di fatto, equivale a un ulteriore raddoppio della ricchezza finanziaria futura.
La terza leva è la pianificazione fiscale. I contributi volontari alla previdenza sono deducibili fino a 5.164 euro annui, riducendo l’esborso netto annuale e aumentando il capitale investito. Il vantaggio tributario, reinvestito nel tempo, genera un effetto moltiplicativo che amplia ulteriormente la distanza rispetto a chi mantiene il risparmio fermo sul conto corrente, spiega ancora Volpato. Due numeri per chiarire: «Mario Rossi, 40 anni e sempre con un reddito di 56.000 euro lordi l’anno, versa 5.164 euro ogni 12 mesi in un fondo previdenziale, ovvero la quota deducibile. Per cui già 2.221 (aliquota al 43%) è come se li mettesse lo Stato. L’uscita di cassa netta è insomma pari a 3.547 euro annuo. In 27 anni versa 139.428 euro, a cui va aggiunta - evidenzia il direttore commerciale di Banca Mediolanum - una rivalutazione netta del 5,11% derivante dal contributo mercato, in soldoni 162.390 euro. Alla fine porta a casa 285.923 euro. Se lascia sul conto invece i 3.531 per 27 anni si troverà 95.337 euro. In teoria. Ma non resteranno mai per le spese che uno fa. «Insomma», conclude Volpato, «la differenza tra investire quei circa 3.500 euro volontari in un fondo previdenziale e lasciarsi sul conto fa + 190.586 euro di differenza».
Tirando infine le somme, combinando queste leve - investimento della liquidità, previdenza complementare, efficienza fiscale e ovviamente tempo - la ricchezza finanziaria pro capite può passare da circa 120.000 euro a oltre 300.000 euro al momento della pensione. È questo il «salto dimensionale» da fare di cui parlano Doris e Volpato alla rete Mediolanum: costruire oggi le condizioni per un domani di autonomia e indipendenza, senza dipendere esclusivamente dal welfare statale.














