Per mesi l'Italia si è occupata di primule e minacce alle case farmaceutiche anziché organizzare il Paese per le vaccinazioni. Risultato: abbiamo 1,6 milioni di dosi disponibili ma non siamo pronti a somministrarle. E Mario Draghi si rivolge alla Protezione civile
Per mesi l'Italia si è occupata di primule e minacce alle case farmaceutiche anziché organizzare il Paese per le vaccinazioni. Risultato: abbiamo 1,6 milioni di dosi disponibili ma non siamo pronti a somministrarle. E Mario Draghi si rivolge alla Protezione civileSono passati due mesi dal Vax day del 27 dicembre. I vaccini ci sono, eppure la campagna di immunizzazione ancora non ingrana. Il neopremier Mario Draghi ha annunciato un cambio di passo arruolando i volontari della protezione civile, esercito e medici per raddoppiare le somministrazioni. Nemmeno Mandrake riuscirebbe, però, (. a rimediare in poche settimane agli errori commessi negli ultimi mesi dal governo Conte e dal tandem Roberto Speranza-Domenico Arcuri nella gestione dell'emergenza Covid. Per giustificare i ritardi è stata portata avanti per mesi una narrazione digerita a priori dalla stampa mainstream. Un vizio che pare aver contagiato anche Bruxelles.Questa piccola antologia di dichiarazioni sui vaccini, smentite poi dai fatti, parte dal 2 dicembre 2020 quando il ministro della Salute, Roberto Speranza, presenta prima al Senato e poi alla Camera gli assi portanti del «Piano strategico per i vaccini Covid». Il piano in realtà non era un piano ma delle vaghe linee guida senza un'organizzazione programmata o una strategia logistica per far fronte alla più grande emergenza sanitaria della storia recente. Non solo. Si è preteso di mostrarlo centralizzato quando poi è finito in carico alle Regioni. Il 13 dicembre 2020 Arcuri e l'archistar Stefano Boeri annunciano le primule: «in primavera ci saranno 1.500 gazebo a forma di fiore, saranno collocati in tutta Italia, nelle piazze delle città, davanti agli ospedali e anche nei campi sportivi». Le primule sfioriranno ancor prima di sbocciare: a metterci una pietra sopra sarà Mario Draghi nel suo intervento del 18 febbraio al Senato dicendo che «non dobbiamo limitare le vaccinazioni all'interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private». Amen.Ma torniamo ai vaccini. Il 5 gennaio il commissario Arcuri dichiara: «Abbiamo il dovere di non tenere ferma una dose di vaccino neanche un minuto più di quello che serve». Oggi, a 55 giorni di distanza, i vaccini sono arrivati ma restano in frigo. I dati sulla differenza tra dosi consegnate e dosi somministrate mostrano la seguente fotografia: 708.089 mila dosi di scorta per Pfizer, 117.597 per Moderna e 742.543 dosi per AstraZeneca. Totale: 1.568.229 dosi consegnate ma non inoculate. Non solo. Nell'arco di una settimana le scorte, che vanno misurate appena prima dell'arrivo dei rifornimenti (attesi per oggi), sono cresciute di circa 300.000 dosi. Guardando oggi questi numeri fa effetto rileggere anche il passaggio della lettera pubblicata dal Corriere della Sera il 5 gennaio in cui il commissario Arcuri scrive che «per raggiungere la fatidica immunità di gregge servono i vaccini, un piano e la capacità di somministrarli in fretta. Non servono astrazioni o pregiudizi». I vaccini sono arrivati, il piano non è mai stato un vero piano e la capacità di somministrarli in fretta è mancata. Il 15 gennaio Pfizer comunica il rallentamento delle consegne assicurando comunque che torneranno al programma originale delle consegne alla Ue «a partire dalla settimana del 25 gennaio, con un aumento a partire dalla settimana del 15 febbraio». Il 21 gennaio arriva la dichiarazione di guerra di Arcuri che annuncia azioni legali. Una mossa perdente in partenza vista la risposta tombale data dal colosso Usa al Financial times. Ovvero che, conteggiando le dosi e non i flaconi, non è in arretrato. Perché i suoi accordi con i governi si sono »sempre basati» sulla consegna «di dosi e non di fiale». E, come ha certificato l'Ema l'8 gennaio cambiando il «bugiardino» dei vaccini, ogni fiala contiene 6 dosi, e non 5 come indicato fino a quel momento. Se poi qualcuno ha usato già la sesta dose gratis per accelerare nella gara a chi vaccinava di più, non è un problema della Pfizer. Ma di chi ha lasciato correre senza pianificare correttamente le forniture. Giocando con i numeri e con un «equivoco» chiaro in realtà fin dall'inizio. Il 23 gennaio, dopo i ritardi di Pfizer, vengono annunciati anche quelli di AstraZeneca: il premier Giuseppe Conte attacca le case farmaceutiche e definisce «inaccettabili» i tagli. Arcuri intanto ha già rincarato la dose dichiarando che i ritardi hanno «rallentato significativamente la campagna vaccinale». Due giorni dopo le consegne Pfizer riprenderanno regolarmente, come assicurato inizialmente dalla stessa azienda. Se la campagna va lenta non è colpa delle case farmaceutiche ma delle falle logistiche del piano nazionale sulle vaccinazioni. Eppure Arcuri ha più volte ribadito di non avere nulla da rimproverarsi, «e neanche l'Europa. L'acquisto centralizzato di vaccini per 27 Paesi è una pagina bella della storia europea che va continuata». Poi abbiamo visto che l'approccio della Commissione Ue è stato un flop. La presidente Ursula von der Leyen è stata inoltre costretta ad ammettere di aver realizzato tardivamente che produrre vaccini anti Covid non è la stessa cosa che produrre caramelle, che una supply chain così complessa può incepparsi all'improvviso. Il nuovo bagno di realtà che Bruxelles sta facendo non riguarda però le consegne, ma la stessa organizzazione del piano. Il copione è simile a quello italiano: i vaccini non arrivano perché le big pharma li esportano di nascosto (accusa mai dimostrata, anzi, una parte delle dosi Astrazeneca per l'Italia arrivano dalle parti di Oxford via camion). Bruxelles ha fatto con i singoli Stati quello che il governo Conte e Arcuri hanno fatto con le Regioni: se va bene è merito nostro, se va male è vostra la colpa. Intanto, arrangiatevi. Come ha scritto ieri Sergio Fabbrini sul Sole24Ore, per tenere insieme le diverse esigenze degli Stati, la Commissione Ue «ha dovuto accettare vincoli alla propria capacità negoziale che ne hanno rallentato l'azione. Un rallentamento che è costato vite umane, anche se ha prodotto vantaggi finanziari».
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